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*Previdenza e assistenza – Licenziamento illegittimo e reintegro del lavoratore, il TFR è irrilevante ai fini risarcitori

by Rosanna Andreozzi - Avvocato
13 Ottobre 2025
in Diritto Civile
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Corte Costituzionale, sentenza 07 giugno 2025 n. 144

PRINCIPIO DI DIRITTO

Va ritenuta non fondata per erroneità del presupposto interpretativo, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 63, comma 2, terzo periodo, del d.lgs. n. 165 del 2001, come modificato dall’art. 21, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 75 del 2017, in riferimento al principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., nella parte in cui dispone, «alla luce di un’interpretazione necessariamente sistematica», che l’indennità risarcitoria per licenziamento illegittimo, spettante al lavoratore alle dipendenze di una pubblica amministrazione, assoggettato al regime dell’indennità premio di servizio di cui alla legge n. 152 del 1968, sia commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo della predetta indennità, «anziché all’ultima retribuzione comprendente tutti i compensi aventi carattere continuativo che si ricolleghino alle particolari modalità della prestazione in atto al momento del licenziamento, ad esclusione di quelli eventuali e di cui non sia certa la percezione, nonché di quelli aventi normalmente carattere occasionale o eccezionale».

Ciò in quanto, la disposizione censurata, nel riferirsi al TFR, fornisce quindi un parametro “astratto” per la liquidazione di un’unica indennità risarcitoria, in aggiunta alla tutela reale prevista per il lavoratore illegittimamente estromesso.

Si tratta di una misura risarcitoria di natura forfettaria, non abbisognando di prova in ordine alla quantificazione del danno da parte del lavoratore, che trova peraltro un limite massimo fissato in ventiquattro mensilità di retribuzione, con detrazione del solo aliunde perceptum.

La mancata scelta del lavoratore di passare dal regime dell’IPS a quello del TFR, riguardando la fase fisiologica di chiusura del rapporto lavorativo, rimane sullo sfondo, senza assumere alcun rilievo ai fini della determinazione dell’indennità in questione, che attiene invece a una fase patologica del rapporto stesso.

TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE

1.– Il Tribunale di Trento, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 63, comma 2, terzo periodo, del d.lgs. n. 165 del 2001, come modificato dall’art. 21, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 75 del 2017, in riferimento al principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., nella parte in cui dispone, «alla luce di un’interpretazione necessariamente sistematica», che l’indennità risarcitoria per licenziamento illegittimo, spettante al lavoratore alle dipendenze di una pubblica amministrazione, assoggettato al regime dell’indennità premio di servizio di cui alla legge n. 152 del 1968, sia commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo della predetta indennità, «anziché all’ultima retribuzione comprendente tutti i compensi aventi carattere continuativo che si ricolleghino alle particolari modalità della prestazione in atto al momento del licenziamento, ad esclusione di quelli eventuali e di cui non sia certa la percezione, nonché di quelli aventi normalmente carattere occasionale o eccezionale».

1.1.– L’art. 63, comma 2, terzo periodo, del d.lgs. n. 165 del 2001, prevede, in particolare, che al dipendente pubblico illegittimamente licenziato sia riconosciuta, oltre alla tutela reintegratoria, «un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, e comunque in misura non superiore alle ventiquattro mensilità».

1.2.– Il rimettente ha tuttavia escluso di poter interpretare in senso letterale la disposizione poiché la stessa, nel fare richiamo «all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto» si riferirebbe a un emolumento che non potrebbe trovare applicazione al rapporto di lavoro per cui è causa, in mancanza, da parte del lavoratore ricorrente, già dipendente pubblico alla data del 31 dicembre 1995, dell’esercizio dell’opzione per la previdenza complementare e dell’adesione al fondo pensione Laborfonds, previsto dalla contrattazione collettiva provinciale quale presupposto per la cessazione del regime di IPS in favore dell’applicazione del TFR ex art. 2120 cod. civ.

1.3.– Il giudice a quo ha quindi ritenuto di dover necessariamente interpretare l’art. 63 del d.lgs. n. 165 del 2001 secondo «ragioni di ordine sistematico», nel senso che il parametro di riferimento sarebbe da individuarsi in base al trattamento economico in concreto spettante al lavoratore al momento dell’interruzione del rapporto lavorativo: ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, qualora il lavoratore fosse assoggettato, al momento del recesso, al regime giuridico ex art. 2120 cod. civ., ovvero ultima retribuzione di riferimento per il calcolo dell’indennità premio di servizio, qualora questi fosse invece assoggettato al relativo regime.

1.4.– Tale alternativa determinerebbe una ingiustificata disparità di trattamento, in quanto la base retributiva per il calcolo dell’IPS sarebbe più ristretta rispetto a quella di riferimento per il TFR, comportando per il lavoratore assoggettato al primo regime un’indennità risarcitoria di importo inferiore.

2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto in giudizio, ha preliminarmente eccepito l’inammissibilità della questione sollevata dal giudice del lavoro di Trento per violazione dell’obbligo di interpretazione conforme e richiesta di avallo interpretativo.

2.1.– L’eccezione non è fondata.

Come ormai da tempo costantemente affermato da questa Corte, infatti, «[a]i fini dell’ammissibilità della questione incidentale, è sufficiente che il rimettente abbia motivato […] sulle ragioni di impraticabilità dell’interpretazione adeguatrice, mentre se tali ragioni siano esatte o meno è profilo che attiene al merito (da ultimo, tra molte, sentenze n. 163, n. 105 e n. 6 del 2024)» (sentenza n. 23 del 2025).

2.1.1.– Nella specie, il Tribunale di Trento ha consapevolmente escluso la praticabilità dell’interpretazione letterale con argomentazioni non implausibili, assumendo conseguentemente che l’esegesi dallo stesso postulata fosse l’unica praticabile.

La valutazione circa la condivisibilità o meno di tale esito interpretativo attiene poi alla successiva verifica di fondatezza della questione.

3.– Ai fini dell’esame del merito, questa Corte ritiene opportuna una breve ricostruzione del quadro normativo e giurisprudenziale in materia di tutela del dipendente pubblico contrattualizzato illegittimamente licenziato, così come delineatosi in seguito all’emanazione della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), nota come “legge Fornero”, sino a giungere all’intervento legislativo del 2017 che ha novellato il comma 2 dell’art. 63 del d.lgs. n. 165 del 2001, inserendo la previsione oggetto dell’odierna questione.

3.1.– Con le modifiche apportate dall’art. 1, comma 42, della legge n. 92 del 2012 all’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), volte alla tendenziale riduzione della tutela ripristinatoria in favore di una tutela puramente risarcitoria, in dottrina e in giurisprudenza si pose il problema se la nuova disciplina dei licenziamenti fosse applicabile, o meno, al pubblico impiego privatizzato.

A generare incertezza era, in particolare, la previsione dell’art. 51, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, il quale precisa che le disposizioni di cui alla legge n. 300 del 1970, «e successive modificazioni ed integrazioni», si applicano alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti.

3.1.1.– Dopo un primo orientamento giurisprudenziale favorevole (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 26 novembre 2015, n. 24157), basato sulla natura “mobile” del rinvio contenuto nel citato art. 51, comma 2, si affermò ben presto l’orientamento opposto che, allineandosi alla dottrina maggioritaria, ritenne applicabile l’art. 18 statuto lavoratori nella versione precedente alla “legge Fornero”, che prevede la reintegrazione nel posto di lavoro quale unico regime di tutela (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 9 giugno 2016, n. 11868).

3.1.2.– A seguito del ripensamento della Corte di cassazione, cui si è uniformata la successiva giurisprudenza di legittimità e di merito, per qualche anno l’ordinamento ha registrato la coesistenza di due regimi: i lavoratori pubblici contrattualizzati hanno continuato a beneficiare della tutela reintegratoria generalizzata ai sensi dell’art. 18 statuto lavoratori, nella versione anteriore alle modifiche apportate dalla “legge Fornero”; i dipendenti privati hanno usufruito, invece, delle tutele differenziate e gradate approntate dal medesimo art. 18, ma nel testo riformulato nel 2012.

3.2.– In questo quadro, è poi intervenuto il legislatore delegato che, in attuazione dei criteri di delega di cui all’art. 16, comma 2, lettere b) e c), della legge 7 agosto 2015, n. 124 (Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche), ha modificato, attraverso l’art. 21 del d.lgs. n. 75 del 2017, il citato art. 63, comma 2, introducendo, nel terzo periodo, uno specifico meccanismo di tutela in caso di licenziamento illegittimo del dipendente pubblico.

3.2.1.– Come emerge dai lavori preparatori del d.lgs. n. 75 del 2017 relativi all’art. 21 – in particolare dalla relazione illustrativa e dal parere espresso dalla Commissione speciale del Consiglio di Stato del 21 aprile 2017, n. 916 – l’intento sotteso alla novella è stato quello di cristallizzare il principio di tutela reale, cui la giurisprudenza era già approdata, ponendo così fine all’annosa querelle sorta in merito al regime di tutela spettante al lavoratore pubblico in caso di licenziamento.

3.2.2.– La nuova norma prevede in particolare che «[i]l giudice, con la sentenza con la quale annulla o dichiara nullo il licenziamento, condanna l’amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, e comunque in misura non superiore alle ventiquattro mensilità, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative.

Il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali».

3.2.3.– Tale regime si differenzia, invero, tanto dalla cosiddetta “reintegrazione attenuata”, di cui ai vigenti art. 18, quarto comma, statuto lavoratori e art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015 (prevedendo un limite massimo di risarcimento, pari a ventiquattro mensilità, e non imponendo di detrarre anche l’aliunde percipiendum), quanto dalla cosiddetta “reintegrazione piena”, di cui all’art. 18, commi secondo e terzo, statuto lavoratori e all’art. 2 del d.lgs. n. 23 del 2015 (non prevedendo una misura minima di risarcimento, né la possibilità di optare per l’indennità sostitutiva pari a 15 mensilità).

3.2.4.– Da più parti, in dottrina, si è quindi evidenziato come il legislatore del 2017 abbia disegnato un regime giuridico-sanzionatorio ad hoc per i lavoratori pubblici. Si tratta infatti di una «sanzione unica» (Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanza 17 dicembre 2022, n. 37040), un “terzo modello” di tutela, che si applica per qualsiasi tipo di licenziamento illegittimo e per tutti i dipendenti pubblici contrattualizzati, compresi i dirigenti, rimanendo irrilevanti le dimensioni dell’amministrazione che procede al licenziamento.

4.– Tanto premesso sul regime di tutela del dipendente pubblico illegittimamente licenziato, è altresì opportuno, sempre ai fini dell’esame del merito della questione, illustrare sinteticamente gli istituti dell’IPS e del TFR che vengono qui in rilievo.

4.1.– Si tratta in ambedue i casi di somme di denaro spettanti al lavoratore al momento della cessazione del rapporto di lavoro.

L’IPS, che rientra nel più generale istituto del trattamento di fine servizio (TFS), è un emolumento tipico del comparto pubblico, mentre il TFR riguarda il settore privato (e quello pubblico privatizzato alle condizioni che si vedranno infra); entrambi «si prefiggono di accompagnare il lavoratore nella delicata fase dell’uscita dalla vita lavorativa attiva (sentenza n. 159 del 2019)» (sentenza n. 130 del 2023).

4.2.– Il primo è in particolare previsto per i lavoratori dipendenti degli enti locali, delle regioni e del Servizio sanitario nazionale.

Esso è disciplinato dalla legge n. 152 del 1968 che, all’art. 11, fissa le modalità di determinazione della retribuzione contributiva, stabilendo, al quinto comma, che essa «è costituita dallo stipendio o salario comprensivo degli aumenti periodici, della tredicesima mensilità e del valore degli assegni in natura, spettanti per legge o regolamento e formanti parte integrante ed essenziale dello stipendio stesso […]».

4.2.1.– La giurisprudenza di legittimità ha costantemente interpretato in senso restrittivo la nozione di retribuzione contributiva, ritenendo che l’indennità premio di servizio sia costituita solo dagli emolumenti testualmente menzionati dal citato art. 11, la cui elencazione ha carattere tassativo e contiene la dizione «stipendio o salario» che richiede un’interpretazione restrittiva, alla luce della specifica menzione, come componenti di tale voce, degli aumenti periodici, della tredicesima mensilità e del valore degli assegni in natura (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 29 aprile 1997, n. 3673; più di recente, sezione lavoro, sentenza 7 agosto 2024, n. 22368, che ha escluso per l’emolumento in esame la vigenza del principio di onnicomprensività, invece sancito per il TFR).

4.3.– Il TFR è invece l’emolumento spettante al prestatore di lavoro in ogni caso di cessazione del rapporto lavorativo. In base all’art. 2120, secondo comma, cod. civ. «[s]alvo diversa previsione dei contratti collettivi la retribuzione annua […] comprende tutte le somme, compreso l’equivalente delle prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale, e con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese».

4.3.1.– Diversamente da quanto avviene per l’IPS, la nozione di retribuzione recepita dall’art. 2120 cod. civ. ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità (tra le più recenti, Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 16 settembre 2024, n. 24801 e ordinanza 22 maggio 2024, n. 14242), è ispirata al principio di onnicomprensività, nel senso che in detto calcolo vanno compresi tutti gli emolumenti che trovano la loro causa tipica e normale nel rapporto di lavoro cui sono istituzionalmente connessi, anche se non strettamente correlati all’effettività della prestazione, mentre ne vanno escluse solo quelle somme rispetto alle quali il rapporto di lavoro costituisce una mera occasione contingente per la relativa fruizione.

4.4.– Come noto, a seguito della riforma del sistema pensionistico dei dipendenti pubblici ad opera della legge n. 335 del 1995 e del progressivo processo di assimilazione del trattamento pubblicistico di fine servizio (cui, come detto, va ricondotta l’indennità di premio servizio) a quello privatistico del TFR, si assiste all’esistenza di un «duplice regime, di tipo pubblicistico per i dipendenti assunti prima del 2001, corrispondente al TFS, e di tipo privatistico per i dipendenti assunti a partire dal 1° gennaio di tale anno, costituito dal TFR» (sentenza n. 244 del 2020).

Il personale assunto prima di tale data rimane quindi in regime di TFS, ma con la facoltà di chiederne la trasformazione in TFR, esercitando l’opzione di cui all’art. 59, comma 56, della legge n. 449 del 1997 (entro il termine, più volte prorogato, ora fissato al 31 dicembre 2025 in base al CCNQ 3 agosto 2021).

4.4.1.– Al riguardo, questa Corte ha da ultimo «chiarito che “il fatto che alcuni dipendenti delle pubbliche amministrazioni godano del trattamento di fine servizio ed altri del trattamento di fine rapporto è conseguenza del transito del rapporto di lavoro da un regime di diritto pubblico ad un regime di diritto privato e della gradualità che, con specifico riguardo agli istituti in questione, il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, ha ritenuto di imprimervi” (sentenza n. 244 del 2014).

Spetta, infatti, all’apprezzamento discrezionale del legislatore, in coerenza con il generale canone di ragionevolezza, delimitare la sfera di applicazione delle normative che si succedono nel tempo, né contrasta di per sé con il principio di eguaglianza il trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie in momenti diversi nel tempo (sentenze n. 240 del 2019 e n. 104 del 2018)» (sentenza n. 73 del 2024).

5.– Tutto ciò premesso, la questione non è fondata.

5.1.– Il presupposto interpretativo da cui muove il giudice a quo – ossia la differenziazione della base retributiva rilevante per l’indennità risarcitoria in ragione dell’emolumento di fine rapporto spettante in concreto al lavoratore al momento del recesso – non può infatti condividersi.

5.1.1.– Come sopra visto, l’intento sotteso alla novella dell’art. 63 del d.lgs. n. 165 del 2001 è da individuarsi nell’armonizzazione della disciplina relativa al licenziamento del lavoratore pubblico contrattualizzato, così da assicurare, indistintamente, a tutto il personale dipendente, il medesimo meccanismo rimediale a fronte dell’illegittimo recesso da parte del datore di lavoro pubblico.

5.2.– La disposizione censurata, nel riferirsi al TFR, fornisce quindi un parametro “astratto” per la liquidazione di un’unica indennità risarcitoria, in aggiunta alla tutela reale prevista per il lavoratore illegittimamente estromesso.

5.3.– Si tratta di una misura risarcitoria di natura forfettaria, non abbisognando di prova in ordine alla quantificazione del danno da parte del lavoratore, che trova peraltro un limite massimo fissato in ventiquattro mensilità di retribuzione, con detrazione del solo aliunde perceptum.

In questo quadro, la mancata scelta del lavoratore di passare dal regime dell’IPS a quello del TFR, riguardando la fase fisiologica di chiusura del rapporto lavorativo, rimane sullo sfondo, senza assumere alcun rilievo ai fini della determinazione dell’indennità in questione, che attiene invece a una fase patologica del rapporto stesso.

6.– La questione è pertanto non fondata per erroneità del presupposto interpretativo.

 

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