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* Tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso – Desistenza nei reati a forma libera nella fase del tentativo incompiuto – Aggravante del metodo mafioso – Attenuante della minima partecipazione ex art. 114 cp – Presupposti

by Beatrice Aiazzi
8 Dicembre 2021
in Diritto Penale
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Cass. pen., sez. II, sentenza 7 settembre 2021 n. 33097

PRINCIPIO DI DIRITTO

Sussiste la circostanza aggravante dell’utilizzo del metodo mafioso, di cui all’art. 416 bis.1 c.p., quando l’azione incriminata, posta in essere evocando la contiguità ad un’associazione mafiosa, sia funzionale a creare nella vittima una condizione di assoggettamento, come riflesso del prospettato pericolo di trovarsi a fronteggiare le istanze prevaricatrici di un gruppo criminale mafioso, piuttosto che di un criminale comune.

TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE

  1. Il ricorso è inammissibile.

1.1. Riguardo al primo motivo deve rilevarsi che la Corte territoriale, sulla base delle dichiarazioni degli stessi imputati e della denuncia delle persone offese, corroborate dalle sommarie informazioni rese dal dipendente delle predette e dal contenuto delle intercettazioni telefoniche, ha ritenuto accertato che S.M. aveva incontrato V.M. , al quale aveva riferito che un appartenente alla famiglia C. , proprietario di un immobile confinante con il cantiere in cui era in fase di realizzazione la nuova sede della concessionaria dei V. , aveva interesse a parlare con lui, al fine di chiedergli un risarcimento per i danni arrecati alle sue proprietà dai lavori in corso. Ad una seconda visita, S.M. aveva dichiarato a V.M. che egli aveva fatto da mediatore con un membro della famiglia C. e che il problema, sollevato da costui, poteva risolversi consegnando la somma di Euro 10.000,00. V.M. aveva reagito alle parole di S.M., manifestando l’intenzione di denunciare immediatamente l’accaduto, ma il predetto S. aveva lasciato intendere che, se la proposta fosse stata respinta, i C., che erano tanti, avrebbero rivolto le loro attenzioni sui beni patrimoniali degli imprenditori.

Alle minacce esplicite aveva poi provveduto C.G., che, presentandosi come amico di S.M., aveva preteso con tono intimidatorio di essere ricontattato immediatamente dai V., minacciando, in caso contrario, di portarsi personalmente presso la concessionaria e di causare gravi problemi.

La Corte territoriale, al pari del primo Giudice, ha dunque ritenuto provato che S.M., portatore di un interesse personale nella vicenda, chiaramente desumibile dalle conversazioni intercettate del (OMISSIS) successivo (il cui contenuto è riportato a pagina 4 della sentenza impugnata), aveva minacciato implicitamente V.M. per ottenere un ingiusto profitto, atteso che gli eventuali danni corrispondevano al più a vibrazioni o a immissioni di polvere, non quantificabili nella somma di Euro 10.00,00, come comprovato dalla conversazione intercettata il 16 luglio 2018 tra C.G. e il padre del ricorrente (v. f. 2 e 3 della pronuncia in disamina).

A fronte di siffatte argomentazioni deve rilevarsi che le doglianze del ricorrente non sono consentite, in quanto si sviluppano sul piano del fatto e sono tese a sovrapporre un’interpretazione delle risultanze probatorie diversa da quella recepita dai decidenti del merito, più che a rilevare un vizio rientrante nella rosa di quelli delineati nell’art. 606 c.p.p.: il che fuoriesce dal perimetro del sindacato rimesso a questo giudice di legittimità.

Secondo la linea interpretativa da tempo tracciata, infatti, l’epilogo decisorio non può essere invalidato da prospettazioni alternative che si risolvano in una “mirata rilettura” degli elementi di fatto, posti a fondamento della decisione, ovvero nell’autonoma assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferirsi a quelli adottati dal giudice del merito, perché illustrati come maggiormente plausibili o perché assertivamente dotati di una migliore capacità esplicativa nel contesto in cui la condotta delittuosa si è in concreto realizzata (Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Rv. 265482; Sez. 6, n. 22256 del 26/4/2006, Rv. 234148; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, Rv. 235507).

1.2 Il secondo motivo difetta di specificità.

La Corte d’appello ha affermato che il ricorrente aveva posto in essere quanto necessario e sufficiente per ottenere l’ingiusto profitto della somma richiesta e che il medesimo aveva un interesse personale nella vicenda, desumibile dalle già ricordate conversazioni del (omissis) successivo.

La menzionata Corte ha quindi escluso la desistenza, essendo il comportamento, tenuto dall’imputato, idoneo a originare quel meccanismo causale capace di produrre l’evento, non verificatosi per cause indipendenti dalla volontà del medesimo imputato.

Per giurisprudenza pacifica di questa Corte, nei reati di danno a forma libera, la desistenza può aver luogo solo nella fase del tentativo incompiuto e non è configurabile una volta che siano posti in essere gli atti da cui origina il meccanismo causale, capace di produrre l’evento, rispetto ai quali può, al più, operare la diminuente per il cd. recesso attivo, qualora il soggetto tenga una condotta attiva che valga a scongiurare l’evento (Sez. 2, n. 24551 dell’8/5/2015, – Rv. 264226). Ne consegue che, in tanto può sussistere la desistenza, in quanto l’agente abbandoni l’azione criminosa prima che questa sia completamente realizzata.

Nel caso di specie, non vi è alcun dubbio che gli atti posti in essere, come descritti al § 1.1, erano idonei a produrre l’evento e, quindi, concretizzano un’ipotesi di tentativo punibile del reato di danno (estorsione), sicché è del tutto improprio invocare la desistenza ex art. 56 c.p., comma 3.

1.3 Anche il terzo motivo è privo di specificità.

La Corte d’appello ha ritenuto integrata l’aggravante di cui all’art. 416 bis c.p., comma 1, sotto il profilo del metodo mafioso, avuto riguardo alle modalità della condotta e, in particolare, all’evocazione da parte dell’imputato del clan dei C., in un territorio connotato dal predominio di tale sodalizio.

In particolare e contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente, secondo cui il Giudice del merito avrebbe ritenuto sussistente l’aggravante di cui all’art. 416 bis c.p., comma 1 sulla base della mera evocazione del nome di C.G., non appartenente al sodalizio mafioso, la Corte d’appello ha rimarcato che C.G. è notoriamente un personaggio di spicco della famiglia e che lo stesso imputato aveva fatto riferimento direttamente al clan, quando, vestendo i panni del consigliere amico, aveva tentato di dissuadere i V. dal resistere alle pretese dei C. , dicendo “sono tanti”, con ciò rammentando che la caratura criminale dei C. era notevole e che anche l’arresto di qualche esponente non avrebbe scoraggiato gli altri da azioni ritorsive.

La Corte d’appello ha poi evidenziato che l’atteggiamento di C.G. e il linguaggio utilizzato attingevano al repertorio tradizionalmente ritenuto mafioso, avendo il predetto affermato, tra l’altro, che si augurava di non essere costretto a fare “lo zingaro” o che l’aspetto essenziale non erano i soldi ma la messa in discussione del predominio suo e dei suoi familiari nella zona; predominio che sarebbe stato messo in dubbio, se qualcuno si fosse rifiutato di sottostare alle sue pretese.

Del resto, come sottolineato dal Collegio del merito, le stesse persone offese avevano percepito tutto il pericolo della situazione ed erano state “indotte a temere di trovarsi a fronteggiare l’azione anche violenta di più soggetti, facenti parte di una più ampia consorteria“.

Trattasi di argomentazioni immuni da vizi, costituendo ius receptum (Sez. 5, n. 14867 del 26/1/2021, Rv. 281027) quello secondo cui ricorre la circostanza aggravante dell’utilizzo del metodo mafioso, di cui all’art. 416 bis c.p., comma 1, quando l’azione incriminata, posta in essere evocando la contiguità ad un’associazione mafiosa, sia funzionale a creare nella vittima una condizione di assoggettamento, come riflesso del prospettato pericolo di trovarsi a fronteggiare le istanze prevaricatrici di un gruppo criminale mafioso, piuttosto che di un criminale comune.

1.4 Anche il quarto motivo difetta di specificità.

La Corte d’appello ha ritenuto che il ricorrente, come già detto, aveva posto in essere quanto necessario e sufficiente per ottenere l’ingiusto profitto della somma richiesta, così dando un contributo essenziale alla commissione del reato, non integrante l’attenuante della minima partecipazione.

In tal modo il Collegio del merito si è conformato all’orientamento di questa Corte (Sez. 4, n. 49364 del 19/7/2018, Rv. 274037), secondo cui, in tema di concorso di persone nel reato, ai fini dell’integrazione della circostanza attenuante della minima partecipazione di cui all’art. 114 c.p., non è sufficiente una minore efficacia causale dell’attività prestata da un correo rispetto a quella realizzata dagli altri, in quanto è necessario che il contributo dato si sia concretizzato nell’assunzione di un ruolo di rilevanza del tutto marginale, ossia di efficacia causale così lieve rispetto all’evento da risultare trascurabile nell’economia generale dell’iter criminoso.

Deve poi rilevarsi che la Corte territoriale – nel ridurre la pena in ragione dell’incensuratezza dell’imputato e della complessiva gravità della condotta, “che non aveva raggiunto i massimi livelli di violenza e di intimidazione” – ha dato conto degli elementi valorizzati al fine dell’esercizio del suo potere discrezionale, con conseguente incensurabilità delle statuizioni assunte.

  1. La declaratoria di inammissibilità totale del ricorso comporta, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché – apparendo evidente che il medesimo ha proposto il ricorso determinando la causa di inammissibilità per colpa (Corte Cost., 13 giugno 2000 n. 186) – al versamento della sanzione pecuniaria, indicata in dispositivo, in favore della Cassa delle Ammende.

 

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