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*Obbligazioni e contratti – Locazione, ritardo nella riconsegna e canoni cumulati alla penale

by Redazione
31 Marzo 2023
in Diritto Civile
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MASSIMA

Ai sensi dell’art. 366, comma 1 n. 6) cpc, «il ricorso deve contenere, a pena d’inammissibilità, la specifica indicazione degli atti processuali o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda» e “ove il ricorrente censuri la statuizione di inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, ha l’onere di specificare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione del giudice di appello e sufficientemente specifico, invece, il motivo di gravame sottoposto a quel giudice, e non può limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma deve riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità”.

Nei contratti di locazione di cosa la possibilità di cumulo tra la penale (contrattualmente pattuita per la mancata riconsegna dell’immobile) e l’incameramento da parte del locatore dei canoni versati anche dopo la disdetta del contratto, contrariamente a quanto previsto dall’art. 1383 cc, è sorretta dalla previsione dell’art. 1591 c.c.. Tale norma, difatti, sancisce che il conduttore inadempiente rispetto all’obbligazione di restituire la cosa è tenuto a dare al locatore il corrispettivo convenuto fino alla riconsegna, salvo l’obbligo di risarcire il maggior danno; tale maggior danno ben può essere risarcito mediante il pagamento della penale contrattualmente prevista appunto per l’ipotesi di mancata riconsegna, come nel caso di specie in cui la clausola prevedeva una “forfetizzazione” su base giornaliera.

Il vizio di violazione di legge “consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione, della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità” e ciò in quanto il vizio di sussunzione postula che l’accertamento in fatto operato dal giudice di merito sia considerato fermo ed indiscusso, sicché è estranea alla denuncia del vizio di sussunzione ogni critica che investa la ricostruzione del fatto materiale, esclusivamente riservata al potere del giudice di merito”.

Ne consegue, quindi, che il “discrimine tra l’ipotesi di violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione della fattispecie astratta normativa e l’ipotesi della erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta è segnato, in modo evidente, dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa”. Nel giudizio di legittimità l’ipotesi di “abuso del processo” ai sensi dell’art. 96, comma 3 cpc è stata ravvisata in casi o di vera e propria “giuridica insostenibilità” del ricorso, “non essendo sufficiente la mera infondatezza, anche manifesta, delle tesi prospettate”, con lo stesso, ovvero in presenza di altre condotte processuali – al pari indicative dello “sviamento del sistema giurisdizionale dai suoi fini istituzionali”, e suscettibili, come tali, di determinare “un ingiustificato aumento del contenzioso”, così ostacolando “la ragionevole durata dei processi pendenti e il corretto impiego delle risorse necessarie per il buon andamento della giurisdizione” – quali “la proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente incoerenti con il contenuto della sentenza impugnata, o completamente privo di autosufficienza oppure contenente una mera complessiva richiesta di rivalutazione nel merito della controversia o, ancora, fondato sulla deduzione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), ove sia applicabile, ratione temporis, l’art. 348-ter, comma 5, cod. proc. civ., che ne esclude l’invocabilità”.

******************

  1. In via preliminare deve dichiararsi l’inammissibilità dell’eccezione formulata dalla controricorrente nella memoria depositata a norma dell’art. 380-bis.1 c.p.c..

L’eccezione, infatti, risulta basata sulla produzione di una visura della CCIA, risultante da un elenco allegato alla memoria, non notificato alla controparte, ai sensi dell’art. 372, comma 2, c.p.c. e senza che vi sia stata, su tale eccezione, contraddittorio tra le parti, donde l’inammissibilità dell’eccezione (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 19 giugno 2000, n. 450, Rv. 53773001, nonchè, più di recente Cass. Sez. 3, sent. 23 settembre 2013, n. 21729, Rv. 628148-01).

  1. Ciò detto, il ricorso va rigettato.

8.1. Il primo motivo è inammissibile, a norma dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) c.p.c..

8.1.1. Il ricorrente lamenta l’erroneità della decisione con cui il giudice di appello ha ritenuto privo di specificità uno dei motivi di gravame dallo stesso proposto.

Tuttavia, il ricorrente non riproduce, nell’odierno atto di impugnazione, tale motivo, donde la necessità di dare seguito al principio secondo cui “ove il ricorrente censuri la statuizione di inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, ha l’onere di specificare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione del giudice di appello e sufficientemente specifico, invece, il motivo di gravame sottoposto a quel giudice, e non può limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma deve riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità” (da ultimo, Cass. Sez. 1, ord. 6 settembre 2021, n. 24048, Rv. 662388-01; in senso conforme Cass. Sez. 5, ord. 29 settembre 2017, n. 22880, Rv. 645637-01; Cass. Sez. 63, sent. 28 novembre 2014, n. 25308, Rv. 633637-01; Cass. Sez. 3, sent. 10 gennaio 2012, n. 82, Rv. 621100-01; Cass. Sez. 1, sent. 20 settembre 2006, n.:20405, Rv..594136-01).

8.2. Il secondo motivo non è fondato.

8.2.1. La tesi della ricorrente, secondo cui non sarebbe stato possibile il cumulo tra la penale (contrattualmente pattuita per la mancata riconsegna dell’immobile), e l’incameramento, da parte della (Omissis), dei canoni versati da Devivoil anche dopo la disdetta del contratto, ed almeno sino al luglio 2013, non tiene conto – come sottolinea la sentenza impugnata – della previsione dell’art. 1591 c.c..

Tale norma, difatti, sancisce che il conduttore inadempiente rispetto all’obbligazione di restituire la cosa è tenuto a dare al locatore il corrispettivo convenuto fino alla riconsegna, salvo l’obbligo di risarcire il maggior danno, maggior danno che la penale, prevista appunto per- l’ipotesi di mancata riconsegna, aveva, nel caso di specie, il compito di “forfetizzare”.

Corretto, inoltre, è il rilievo del giudice di appello secondo cui, diversamente opinando, si consentirebbe al debitore inadempiente (rispetto all’obbligo di riconsegna) “di sottrarsi all’obbligazione attraverso il proprio inadempimento” (così già Cass. Sez. 6-3, sent. 9 dicembre 2015, n. 24910, Rv. 637946-01, sebbene relativa ad ipotesi “speculare” a quella che si esamina, ovvero di risoluzione di diritto di un contratto di affitto di azienda, essendosi “escluso che il risarcimento dovuto per la tardiva riconsegna dell’immobile, ex art. 1591 c.c., potesse ritenersi compreso in una penale azionata per il mancato pagamento del canone”; in senso conforme pure Cass. Sez. 3, sent. 13 marzo 2018, n. 6015, Rv. 648412-01).

8.3. Infine (ferzo motivo è inammissibile, in ragione del suo carattere puramente fattuale.

8.3.1. Esso ipotizza il vizio di violazione e falsa applicazione di norme di diritto (vale a dire, dell’art. 1324 c.c.), quanto alla ritenuta insussistenza della rinnovazione del contratto “per facta concludentia”, denunciando una lettura superficiale dei fatti in causa.

Sul punto, quindi, è sufficiente ribadire che il vizio di violazione di legge “consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; Vallegazione di tin’erronea ricognizione, della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità” (“ex multis”, Cass. Sez. 1, ord. 13 ottobre 2017, n. 24155, Rv. 645538-03; Cass. Sez. 1, ord. 14 gennaio 2019, n. 640, Rv. 652398-01; Cass. Sez. 1, ord. 5 febbraio 2019, n. 3340, Rv. 652549-02) e ciò in quanto il vizio di sussunzione postula che l’accertamento in fatto operato dal giudice di merito sia considerato fermo ed indiscusso, sicchè è estranea alla denuncia del vizio di sussunzione ogni critica che investa la ricostruzione del fatto materiale, esclusivamente riservata al potere del giudice di merito” (Cass. Sez. 3, ord. 13 marzo 2018, n. 6035, Rv. 648414-01). Ne consegue, quindi, che il “discrimine tra l’ipotesi di violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione della fattispecie astratta normativa e l’ipotesi della erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta è segnato, in modo evidente, dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa” (così, in motivazione, Cass. Sez., Un., sent. 96 febbraio 2021, n. 5442).

  1. Le spese seguono la soccombenza, essendo pertanto poste a carico della ricorrente e liquidate come da dispositivo.
  2. Non sussistono, infine, i presupposti per dare corso alla richiesta condanna della ricorrente ex art. 96 c.p.c..

10.1. Siffatta richiesta risulta “prima facie” infondata, se intesa come concernente l’ipotesi contemplata dal comma 1 dell’art. 96 c.p.c., dato che la controricorrente neppure indica i danni che avrebbe subito in ragione dell’altrui condotta.

Ove invece l’istanza fosse da intendere come riferita all’ipotesi di cui al comma 3 del medesimo articolo del codice di rito civile, deve ribadirsi come lo scopo di tale norma sia quello di sanzionare una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di “abuso del processo”” (cfr., “ex multis”, Cass. Sez. Un., ord. 16 settembre 2021, n. 25041, Rv. 662248-02; Cass. Sez. 3, ord. 4 agosto 2021, n. 22208, Rv. 662202-01; Cass. Sez. Un., sent. 20 aprile 2018, n. 9912, Rv. 648130-02; Cass. Sez. 3, sent. 30 marzo 2018, n. 7901, Rv. 648311-01; Cass. Sez. 2, sent. 21 novembre 2017, n. 27623, Rv. 646080-01).

Tale ipotesi, tuttavia, è stata ravvisata, quanto al giudizio di legittimità, in casi o di vera e propria “giuridica insostenibilità” del ricorso (Cass. Sez. 3, sent. 14 ottobre 2016, n. 20732, Rv. 642925-01), “non essendo sufficiente la mera infondatezza, anche manifesta, delle tesi prospettate”, con lo stesso (così, Cass.Sez. Un., sent. n. 9912 del 2018, cit.), ovvero in presenza di altre condotte processuali – al pari indicative dello “sviamento del sistema giurisdizionale dai suoi fini istituzionali”, e suscettibili, come tali, di determinare “un ingiustificato aumento del contenzioso”, così ostacolando “la ragionevole durata dei processi pendenti e il corretto impiego delle risorse necessarie per il buon andamento della giurisdizione” – quali “la proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente incoerenti con ii contenuto della sentenza impugnata, o completamente privo di autosufficienza oppure contenente una mera complessiva richiesta di rivalutazione nel merito della controversia o, ancora, fondato sulla deduzione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), ove sia applicabile, “ratione temporis”, l’art. 348-ter, comma 5, cod. proc. civ., che ne esclude l’invocabilità” (Cass. Sez. 3, ord. 30 aprile 2018, n. 10327, Rv. 648432-01).

Nessuna di tali ipotesi, però ricorre nel presente caso.

  1. In ragione del rigetto del ricorso, sussiste, a carico della ricorrente, l’obbligo di versare, se dovuto secondo un accertamento spettante all’amministrazione giudiziaria (Cass. Sez. Un., sent. 20 febbraio 2020, n. 4315, Rv. 657198-01), l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. n.30 maggio 2002, n. 115, art. 13.

Cassazione civile, sez. III, ordinanza 16 febbraio 2023, n. 4904

 

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