Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 8 maggio 2025, n. 3914
PRINCIPIO DI DIRITTO
Ove la fonte di responsabilità aquiliana della P.A. si sia perfezionata prima dell’entrata in vigore del nuovo codice del processo amministrativo, deve trovare applicazione non già l’articolo 30, comma 3, bensì la disciplina previgente, con la conseguenza che all’azione risarcitoria da illegittimo esercizio della funzione amministrativa proposta in via autonoma dopo l’annullamento degli atti amministrativi, si applica il termine di prescrizione quinquennale di cui all’articolo 2947, comma 1, c.c., e il momento iniziale del decorso del termine quinquennale dell’azione di risarcimento va individuato nella data del passaggio in giudicato della decisione di annullamento del giudice amministrativo.
La parte che agisce in giudizio per ottenere il risarcimento del danno derivante da lesione di interesse legittimo è tenuta a provare tutti gli elementi dell’illecito aquiliano, con la conseguenza che la carenza di uno qualsiasi di essi comporta il rigetto dell’azione. Deve ritenersi infondata la domanda di risarcimento del danno ove sia mancata la prova della spettanza del bene della vita (nella specie costituito dal mantenimento in essere della convenzione oggetto della revoca), che per giurisprudenza ormai consolidata, costituisce condizione imprescindibile per il riconoscimento della responsabilità risarcitoria, non essendo all’uopo sufficiente la mera illegittimità del provvedimento amministrativo.
Qualora il provvedimento di revoca sia stato annullato per vizi formali (ciò che rimette alla p.a. ogni nuova e ulteriore determinazione) non può sostenersi l’automatica spettanza del risarcimento (affermando di essere già titolare del bene della vita, illegittimamente leso con l’atto di revoca), incombendo all’interessato la prova dell’effettiva spettanza del bene della vita costituito dalla conservazione del provvedimento ampliativo.
E’ improprio evocare la categoria dell’interesse oppositivo e la giurisprudenza richiamata, la quale è sempre riferita a fattispecie in cui il “bene della vita” è già esistente nella sfera giuridica del privato in virtù di una diretta previsione di legge, ovvero di un diritto di cui egli è titolare (p.es. la proprietà a fronte di un decreto di esproprio); ben diversa è la situazione allorché lo stesso sia stato acquisito in virtù di un precedente provvedimento della stessa Amministrazione (p.es. un’autorizzazione o una licenza): in tali ultimi casi, poiché a fronte del rilascio del precedente provvedimento ampliativo il destinatario era certamente titolare di un interesse pretensivo, tale natura viene mantenuta anche nella fase successiva del rapporto amministrativo e a fortiori in quella dell’eventuale rimozione del provvedimento, essendo difficilmente predicabile una trasformazione dell’interesse da pretensivo a oppositivo.
Secondo la più moderna visione della revoca elaborata dalla dottrina più recente e parte della giurisprudenza tale provvedimento costituisce esercizio di amministrazione attiva, trovante la propria forma nel medesimo potere che la p.a. ha esercitato con il provvedimento originario e comunque nell’immanenza del potere della p.a. di rivedere le proprie determinazioni in relazione all’evolversi nel tempo del rapporto amministrativo: tale ricostruzione dogmatica rafforza le conclusioni già svolte, secondo cui è del tutto ragionevole concludere che l’interesse legittimo del privato interessato dalle determinazioni della p.a. mantenga sempre la stessa natura (nel caso di specie, esclusivamente pretensiva).
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- – Con deliberazione 175/DG del 15 dicembre 2000 l’AUSL Roma B, ora ASL Roma 2, non avendo un servizio diagnostico di Medicina Nucleare nelle proprie strutture pubbliche, ha autorizzato la stipulazione di una convenzione con il Centro Medicina Nucleare Italiano S.r.l. per l’effettuazione degli esami di medicina nucleare “in vivo”, per le esigenze delle Divisioni degli Ospedali “Sandro Pertini” e “Policlinico Casilino”. L’ultimo rinnovo della predetta convenzione è avvenuto con deliberazione n. 1199 del 21 ottobre 2005. L’AUSL Roma B, con deliberazione n. 255 del 10 febbraio 2006, ha proceduto alla revoca della suddetta deliberazione n. 1199/2005, nella parte in cui la stessa Amministrazione aveva approvato la convenzione per le prestazioni erogabili anche in favore dei quattro distretti sanitari territoriali della medesima Azienda, disponendo, inoltre, di doversi procedere alla sottoscrizione di nuova convenzione contenente novazione dell’oggetto in riferimento alle prestazioni richieste dai presidi ospedalieri “Sandro Pertini” e “Policlinico Casilino”. Tale provvedimento di revoca è stato disposto, però, senza dare comunicazione, ex art. 7 della L. n. 241/1990, dell’avvio del procedimento amministrativo al Centro Medicina Nucleare Italiano S.r.l.
1.1 – Con ricorso proposto dinanzi al TAR Lazio, sede di Roma, il Centro Medicina Nucleare Italiano S.r.l. ha impugnato la deliberazione n. 255 del 10 febbraio 2006 di revoca della precedente deliberazione n. 1199/2005. Con la sentenza n. 643/2010 il TAR ha respinto il ricorso.
1.2 – Avverso tale decisione il Centro ricorrente ha proposto appello: con sentenza del 27 novembre 2017, n. 5558, questa Sezione ha riformato la decisione dei giudici di prime cure, accogliendo unicamente il quarto motivo di ricorso, relativo alla violazione dell’art. 7 della legge n. 241/1990. Nella sentenza di appello, si sostiene che la mancata partecipazione al procedimento avrebbe impedito al Centro ricorrente di “evidenziare che l’attività espletata nel laboratorio diagnostico è indispensabile nel territorio regionale, non esistendo altre strutture in grado di offrire, in tempi ragionevoli (una settimana), talune prestazioni specialistiche essenziali per la collettività quali, ad esempio, la scintigrafia con leucociti marcati”.
1.3 – La ASL, dopo l’annullamento per vizi di forma del provvedimento di revoca da essa adottato, non ha mai riesercitato il potere; a sua volta, la parte ricorrente non si è mai attivata per ottenere l’esecuzione della sentenza.
- – Con il ricorso notificato in data 12 luglio 2018, il Centro Medicina Nucleare Italiano S.r.l. ha proposto, dinanzi al TAR Lazio, l’azione risarcitoria chiedendo il ristoro di tutti i danni subiti a causa della revoca, quantificati in euro 3.300.000,00 oltre interessi e rivalutazione monetaria. Più precisamente ha chiesto il risarcimento del danno emergente, del lucro cessante e del danno da perdita di chance, evidenziando di essere l’unico centro ad avere i requisiti richiesti per l’effettuazione delle prestazioni specialistiche sanitarie di medicina nucleare, essenziali per la collettività. Ha quantificato il danno subito come segue: euro 2.880.000,00 per mancato guadagno e perdita di chance quali conseguenza diretta e concreta del mancato rinnovo della convenzione di erogazione prestazioni di medicina nucleare; euro 420.000,00 per danni emergenti (segnatamente, il valore economico della prestazione relativa al semestre 1 gennaio 2006 – 30 giugno 2006 pari ad euro 120.000,00 e l’acquisto, nel mese di marzo 2005, di un macchinario nuova Gamma Camera necessario per garantire l’esecuzione degli esami diagnostici nei tempi richiesti dall’amministrazione per il costo di euro 300.000,00). Ha quindi specificato che il danno emergente andrebbe calcolato aggiungendo, al tetto spesa fissato dalla delibera n. 1199 di rinnovo convenzione per l’effettuazione degli esami di medicina nucleare in vivo per le esigenze dei pazienti ricoverati presso gli ospedali “Sandro Pertini” e “Policlinico Casilino” e per quelle dei residenti seguiti dalle strutture territoriali dei quattro Distretti Aziendali, fissato in euro 120.000,00 per il semestre, la ulteriore somma di euro 300.000,00 a titolo di acquisto macchinario Gamma Camera, necessario per garantire l’esecuzione degli esami diagnostici nei tempi richiesti dall’Amministrazione, acquistato nel mese di marzo 2005. Il lucro cessante andrebbe calcolato moltiplicando il tetto di spesa semestrale di cui si è detto pari ad euro 120.000 per i 12 anni (dunque per 24 semestri) per i quali sarebbe stata negata la possibilità concreta di eseguire le prestazioni specialistiche essenziali per la collettività (dal giugno 2006 al giugno 2018).
2.1 – Si è costituita la ASL che ha eccepito, in via preliminare, la prescrizione del diritto al risarcimento del danno, atteso che sarebbe stato violato il termine decadenziale di 120 giorni di cui all’art. 30, comma 3, c.p.a.. Nel merito l’Amministrazione ha rilevato l’insussistenza dei presupposti della responsabilità aquiliana (in particolare con riferimento all’elemento soggettivo e alla prova dei danni subiti).
- – Con la sentenza del 5 dicembre 2022, n. 16208 è stato respinto il ricorso in base al seguente percorso argomentativo. Il TAR: – tenuto conto dell’infondatezza nel merito, ha assorbito l’eccezione di prescrizione; – ha richiamato i principi espressi dall’Adunanza plenaria n. 7 del 2021 in relazione alla natura extracontrattuale della responsabilità della P.A. per violazione di interessi legittimi; ha sottolineato, in particolare, che il risarcimento del danno può essere riconosciuto solo previo accertamento della colpa della P.A. e della spettanza del bene della vita; ha quindi sottolineato i criteri limitativi della consequenzialità immediata e diretta e dell’evitabilità con l’ordinaria diligenza del danneggiato, di cui agli artt. 1223 e 1227 c.c., sottolineando che chi agisce in giudizio deve fornire la prova dei fatti costitutivi della domanda e, quindi, di tutti gli elementi costitutivi del fatto illecito; – ha ritenuto che, nel caso di specie, non era stata provata né la spettanza del bene della vita (tenuto conto che l’annullamento era intervenuto solo per la mancata comunicazione dell’avvio del procedimento), né la sussistenza dell’elemento soggettivo; – in particolare, nella sentenza di appello n. 5558/2017, non era stata accertata l’indispensabilità dell’attività espletata dal laboratorio diagnostico, ma si era affermato soltanto che tale argomentazione sarebbe stata “spendibile” dal Centro Medicina Nucleare Italiano S.r.l. in sede di contraddittorio endoprocedimentale; – neppure nel giudizio erano stati forniti elementi di prova circa la spettanza del bene della vita; anzi l’Amministrazione aveva riferito che esistevano, all’epoca dei fatti per cui è causa, almeno due operatori economici in grado di fornire le stesse prestazioni con la medesima tempistica; – quindi ha ritenuto che non sussisteva la colpa della P.A. per le ragioni che avevano indotto lo stesso il TAR con la sentenza n. 643/2010 a ritenere, in base ad una tesi sostanzialistica, che il contraddittorio endoprocedimentale era stato garantito; ha quindi aggiunto che, tenuto conto della “particolarità” della situazione di fatto, nella quale una convenzione annuale era stata prorogata di anno in anno per 5 anni, favorendo il Centro ricorrente a scapito di altre due strutture anch’esse accreditate, era necessario provvedere urgentemente alla revoca del provvedimento; – infine, ha ritenuto non provata l’effettiva riduzione dell’attività del Centro ricorrente e dei relativi incassi.
3.1 – In definitiva, la domanda risarcitoria è stata respinta sulla base di tre motivi, ciascuno dei quali idoneo a sostenere il rigetto dalla domanda risarcitoria: mancata prova della spettanza del bene della vita, carenza di colpa, mancata prova del danno subito.
- – Avverso tale decisione il Centro Medicina Nucleare Italiano S.r.l. ha proposto appello articolato sulla base di tre doglianze, dirette a confutare i tre presupposti sui quali si fonda il rigetto della domanda risarcitoria.
4.1 – Con memoria di costituzione del 30 marzo 2023 la ASL Rm 2 ha reiterato, ai sensi dell’art. 101, comma 2, c.p.a. le eccezioni di decadenza e/o prescrizione e gli argomenti già dedotti in primo grado relativi: (i) al mancato rispetto del termine decadenziale dell’art. 30, comma 3, c.p.a. per la proposizione della domanda risarcitoria, tenuto conto che la revoca era intervenuta nel 2006, la sentenza del Consiglio di Stato che aveva annullato l’atto di revoca risaliva al 27 novembre 2017 e l’azione risarcitoria era stata proposta il 13 luglio 2018; (ii) in caso di applicabilità del vecchio regime, in quanto l’atto produttivo di danno è intervenuto prima dell’entrata in vigore del codice del processo amministrativo (d.lgs. n. 104/2010), sarebbe comunque decorsa la prescrizione quinquennale del diritto (trattandosi di illecito aquiliano); anche volendo qualificare l’illecito come contrattuale, il diritto sarebbe prescritto essendo trascorso un intervallo di tempo superiore al decennio; (iii) la prescrizione non sarebbe stata né sospesa né interrotta, tenuto conto che il giudizio dinanzi al TAR Lazio R.G. n. 5183/2006 aveva ad oggetto la sola declaratoria di illegittimità della deliberazione di revoca della convenzione del 2000, e non anche la domanda risarcitoria. La ASL ha quindi contestato, nel merito, le doglianze sollevate dall’appellante chiedendone il rigetto.
4.2 – Le parti hanno depositato memorie a sostegno delle rispettive tesi.
- – All’udienza pubblica del 20 marzo 2025 l’appello è stato trattenuto in decisione.
- – L’appello è infondato e va, dunque, respinto.
- – In via preliminare, va respinta l’eccezione di decadenza o prescrizione dell’azione risarcitoria articolata in primo grado, riproposta dalla A.S.L. ai sensi dell’articolo 101, comma 2, c.p.a., dovendo richiamarsi la giurisprudenza che, soprattutto dopo l’Adunanza plenaria n. 6 del 6 luglio 2015, si è orientata nel senso che, ove la fonte di responsabilità aquiliana della P.A. si sia perfezionata prima dell’entrata in vigore del nuovo codice del processo amministrativo, deve trovare applicazione non già l’articolo 30, comma 3, bensì la disciplina previgente, con la conseguenza che all’azione risarcitoria da illegittimo esercizio della funzione amministrativa proposta in via autonoma dopo l’annullamento degli atti amministrativi, si applica il termine di prescrizione quinquennale di cui all’articolo 2947, comma 1, c.c., e il momento iniziale del decorso del termine quinquennale dell’azione di risarcimento va individuato nella data del passaggio in giudicato della decisione di annullamento del giudice amministrativo (cfr. Cons. Stato, sez. III, 5 febbraio 2025, n. 909; id., 16 settembre 2022, n. 8037; id., 1 marzo 2018, n. 1277; id., sez. IV, 13 ottobre 2017, n. 4752; id., 18 gennaio 2017, n. 190; id. sez. III, 22 gennaio 2014, n. 297; id., 31 maggio 2011, n. 3267).
7.1 – Nella fattispecie il fatto generatore del danno è costituito dalla delibera n. 225 del 10 febbraio 2006, annullata con la sentenza n. 5558 del 27 novembre 2017 di questa Sezione, rispetto al cui passaggio in giudicato, la proposizione dell’azione di risarcimento (avvenuta con la notifica del ricorso di primo grado in data 12 luglio 2018) è tempestiva rispetto al termine quinquennale di prescrizione. Ne consegue l’infondatezza dell’eccezione sollevata dalla ASL Rm 2.
- – Va esaminata anche l’eccezione, implicitamente sollevata nella memoria dell’Amministrazione, laddove assume – dichiarando di non accettare il contraddittorio sul punto – che vi sarebbe stata una mutatio libelli rispetto al ricorso di primo grado, avendo l’originaria ricorrente proposto in tale sede un’azione di responsabilità da inadempimento e invece in appello un’azione di responsabilità aquiliana; tale eccezione va respinta, in quanto, come replicato dall’appellante, è sufficiente una piana lettura del ricorso di primo grado per verificare che in tale sede la domanda risarcitoria era stata articolata, in via alternativa o subordinata, sia come di responsabilità contrattuale sia come proposta ex articolo 2043 c.c..
8.1 – In ogni caso, sul punto può aggiungersi: – che il primo giudice ha chiaramente qualificato la domanda come proposta ai sensi dell’articolo 2043 c.c., evidentemente perché da lesione di interesse legittimo conseguente ad annullamento di provvedimento amministrativo illegittimo; – che avverso tale qualificazione nessuna delle parti ha proposto impugnazione, sicché in questa sede non può che prendersene atto; in ogni caso la statuizione del TAR è corretta; – che, inoltre, l’appellante nel presente grado ha preso atto della qualificazione operata dal T.A.R. e vi si è adeguato, senza incorrere in alcuna mutatio libelli. Ne consegue che anche tale eccezione va rigettata.
- – Superati gli aspetti preliminari è possibile procedere alla disamina del merito. Come già anticipato, la reiezione della domanda risarcitoria si fonda su tre motivi, ciascuno dei quali, da solo, è idoneo a sostenere la decisione di rigetto. Come è noto, infatti, la parte che agisce in giudizio per ottenere il risarcimento del danno derivante da lesione di interesse legittimo è tenuta a provare tutti gli elementi dell’illecito aquiliano, con la conseguenza che la carenza di uno qualsiasi di essi comporta il rigetto dell’azione. Nel caso di specie, quindi, ha valenza assorbente il rigetto del primo motivo di appello, con il quale l’appellante ha contestato il capo di sentenza con cui il TAR ha negato il risarcimento a causa della mancata prova della spettanza del bene della vita (nella specie costituito dal mantenimento in essere della convenzione oggetto della revoca), che per giurisprudenza ormai consolidata, costituisce condizione imprescindibile per il riconoscimento della responsabilità risarcitoria, non essendo all’uopo sufficiente la mera illegittimità del provvedimento amministrativo (cfr. tra le tante, Cons. Stato sez. VII, 20/09/2024, n.7703; Cons. Stato, sez. VII, 15 novembre 2023, n. 9796 che richiama sez. III, 3 giugno 2022, n. 4536).
9.1 – Al riguardo, l’appellante, nel primo motivo di appello, ha dedotto di essere già in possesso del “bene della vita”, atteso che, se non fosse intervenuto l’illegittimo provvedimento di revoca, la convenzione stipulata con la delibera n. 175/DG del 15 dicembre 2000, e rinnovata con la deliberazione n. 1199 del 21 ottobre 2005, avrebbe continuato a regolare i suoi rapporti con la ASL. La illegittima revoca di tale convenzione avrebbe comportato il fatto costitutivo dell’illecito e dell’ingiustizia del danno, in quanto: “a fronte di un impegno contrattuale lecitamente assunto tra le parti appare oltremodo erroneo affermare che non è stata dimostrata la spettanza del bene della vita, in quanto quel bene di cui si chiede il ristoro è dimostrato proprio dalla convenzione in essere tra le parti”. L’appellante ha quindi aggiunto che la tesi del TAR, secondo cui la mera “spendibilità”, da parte della società dell’argomento dell’indispensabilità dell’attività espletata non equivaleva ad affermare che effettivamente tale attività fosse indispensabile, sarebbe erronea: a suo dire, infatti, il bene della vita era già nella sua disponibilità fino al momento in cui è intervenuta la revoca della convenzione.
- – La tesi dell’appellante non può essere condivisa. Con tale prospettazione, infatti, parte appellante sembra implicitamente voler affermare che ci si trovi in presenza di lesione di un interesse legittimo oppositivo, laddove per costante giurisprudenza la spettanza del bene della vita viene effettivamente considerata in re ipsa, essendo lo stesso già nella sfera giuridica del privato che viene indebitamente compressa dal provvedimento amministrativo illegittimo (cfr. Cons. Stato, sez. V, 17 gennaio 2023, n. 591, nonché Cons. Stato, sez. V, 30 giugno 2009, n. 4237, laddove si aggiunge che in queste ipotesi è anche presunta la colpa dell’Amministrazione, cui incombe l’onere di provare la sussistenza di elementi idonei a escludere l’elemento soggettivo dell’illecito). Nel caso dell’interesse pretensivo, invece, secondo la giurisprudenza consolidata, chiunque pretenda un risarcimento, è tenuto a “dimostrare la c.d. spettanza del bene della vita, ovvero la necessità di allegare e provare di essere titolare, in base ad una norma giuridica, del bene della vita che ha perduto od al quale anela, e di cui attraverso la domanda giudiziale vorrebbe ottenere l’equivalente economico” (cfr. Cons. Stato sez. V, 19 dicembre 2024, n. 10205; id. 21 agosto 2024, n. 7195; in termini confermativi, Cons. Stato, sez. IV, 31 maggio 2024, n. 4908; id. 12 settembre 2023, n. 8282; Cons. Stato, sez. V, 21 aprile 2020, n. 2534).
10.1 – Nel caso di specie, è improprio evocare la categoria dell’interesse oppositivo e la giurisprudenza richiamata, la quale è sempre riferita a fattispecie in cui il “bene della vita” è già esistente nella sfera giuridica del privato in virtù di una diretta previsione di legge, ovvero di un diritto di cui egli è titolare (p.es. la proprietà a fronte di un decreto di esproprio); ben diversa è la situazione allorché lo stesso sia stato acquisito in virtù di un precedente provvedimento della stessa Amministrazione (p.es. un’autorizzazione o una licenza): in tali ultimi casi, poiché a fronte del rilascio del precedente provvedimento ampliativo il destinatario era certamente titolare di un interesse pretensivo, tale natura viene mantenuta anche nella fase successiva del rapporto amministrativo e a fortiori in quella dell’eventuale rimozione del provvedimento, essendo difficilmente predicabile una trasformazione dell’interesse da pretensivo a oppositivo.
10.2 – Ne consegue che, come ritenuto dalla giurisprudenza in queste ipotesi, qualora il provvedimento di revoca sia stato annullato per vizi formali (ciò che rimette alla p.a. ogni nuova e ulteriore determinazione) non può sostenersi l’automatica spettanza del risarcimento (affermando di essere già titolare del bene della vita, illegittimamente leso con l’atto di revoca), incombendo all’interessato la prova dell’effettiva spettanza del bene della vita costituito dalla conservazione del provvedimento ampliativo (cfr. Cass. civ., sez. I, 7 aprile 2006, n. 8244; Cons. Stato, sez. III, 3 giugno 2022, n. 4536).
10.3 – Orbene, nel caso di specie è incontestabile che l’annullamento della revoca, disposto con la sentenza di questa Sezione n. 5558/2017, è stato determinato da un vizio formale (l’omissione della comunicazione di avvio del procedimento), e che, nonostante non risulti che la A.S.L. si sia attivata riproponendo il provvedimento di revoca nel rispetto delle garanzie partecipative della società interessata, l’odierna appellante in sede di azione risarcitoria non abbia fornito prova positiva della sicura spettanza del “bene della vita” costituito dal mantenimento in essere della convenzione.
10.4 – Va condivisa, infatti, l’affermazione del T.A.R. secondo cui il fatto che in sede procedimentale sarebbe stata “spendibile” l’argomentazione sostenuta in giudizio secondo cui l’appellante era l’unica società in grado di fornire determinate prestazioni sanitarie (come rilevato nella suddetta sentenza n. 5558/2017), non significa affatto che tale argomentazione fosse vera, ma solo che avrebbe potuto essere oggetto del contraddittorio procedimentale, fermo restando che incombeva alla stessa odierna istante dimostrare tale assunto e confutare quanto affermato nel provvedimento di revoca secondo cui invece vi erano almeno altre due strutture idonee.
10.5 – Peraltro la struttura ricorrente in primo grado, che pure ha articolato la domanda risarcitoria da perdita di chance, non ha fornito prova neanche della seria e apprezzabile possibilità di poter mantenere la convenzione, con la conseguenza che la “spendibilità” dell’argomentazione non potrebbe essere valutata neppure in sede prognostica (cfr. Cons. Stato, sez. VII, 20 settembre 2024, n. 7703; Cons. giust. amm. Sicilia sez. giurisd., 15 ottobre 2020, n. 914), tenendo comunque conto delle argomentazioni difensive dell’Amministrazione.
10.6 – Tali conclusioni appaiono inoltre maggiormente coerenti con la più moderna visione della revoca, che la dottrina più recente e parte della giurisprudenza tendono a inquadrare non più come un mero provvedimento “di secondo grado” o di autotutela, bensì come esercizio di amministrazione attiva, trovante la propria forma nel medesimo potere che la p.a. ha esercitato con il provvedimento originario e comunque nell’immanenza del potere della p.a. di rivedere le proprie determinazioni in relazione all’evolversi nel tempo del rapporto amministrativo: tale ricostruzione dogmatica rafforza le conclusioni già svolte, secondo cui è del tutto ragionevole concludere che l’interesse legittimo del privato interessato dalle determinazioni della p.a. mantenga sempre la stessa natura (nel caso di specie, esclusivamente pretensiva).
10.7 – Risulta comunque difficile dimostrare la spettanza del “bene della vita” a fronte di un provvedimento quale è la revoca, che come noto può fondarsi anche solo su ragioni di opportunità o di rivalutazione dell’interesse pubblico (sia pure nel rispetto dei limiti fissati dalle disposizioni di legge), e ciò tanto più quando l’illegittimità è derivata esclusivamente da vizi formali, come nel caso di specie.
- – In conclusione, poiché la mancata prova della spettanza del bene della vita comporta l’insussistenza dell’ingiustizia del danno lamentato, come già anticipato, può prescindersi dalla disamina delle ulteriori questioni dedotte con i successivi motivi di appello, afferenti agli ulteriori elementi costitutivi dell’illecito aquiliano (in particolare, la colpa della p.a.) e a fortiori di quelle relative all’individuazione e quantificazione del danno risarcibile.
- – In conclusione, per i suesposti motivi, l’appello va respinto.
- – Le spese del grado di appello possono compensarsi tra le parti tenuto conto della particolarità e complessità delle questioni esaminate.