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Offensività – Misure di prevenzione – Variazioni patrimoniali – Eredità -Successioni – Violazione dell’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali ex art 30 della legge n. 646/1982 ed offensività in concreto

by Dott. Alessio Alfieri
23 Maggio 2025
in Diritto Penale
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Corte di Cassazione, Sez. Unite Penali, sentenza 16 maggio 2025 n. 18474

PRINCIPIO DI DIRITTO

L’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali, previsto dall’art. 30, legge 13 settembre 1982, n. 646, è configurabile, con conseguente rilevanza penale della sua violazione, nell’ipotesi di una acquisizione proveniente da successione ereditaria, fermo restando l’onere del giudice di verificare, dandone adeguata motivazione, l’idoneità della condotta tenuta a porre in pericolo il bene giuridico protetto, alla stregua del canone di offensività in concreto.

TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE

  1. La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite è la seguente:

“Se, l’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali previsto dall’art. 30, legge 13 settembre 1982 n. 646 possa ritenersi configurabile, con rilevanza penale della sua violazione, nell’ipotesi di una acquisizione proveniente da successione ereditaria”.

  1. La nell’ipotesi di una acquisizione proveniente da disposizione incriminatrice – introdotta nel nostro ordinamento dagli artt. 30 e 31, legge 13 settembre 1982 n. 646 – configura un reato omissivo proprio e di pericolo presunto.

Come è stato più volte precisato in sede nomofilattica (v. per tutte Sez. 6 n. 33590 del 15/06/2012, non mass. sul punto), il precetto è contenuto nell’art. 30, legge n. 646 del 1982 (per quanto riguarda i soggetti condannati in sede penale) e la sanzione nell’art. 31 della medesima legge (in modo corrispondente, per i destinatari di misura di prevenzione personale, negli artt. 80 e 76, settimo comma, del d.lgs. n. 159 del 2011).

Dunque, ad essere oggetto di incriminazione è l’omissione comunicativa di un fatto, le cui caratteristiche verranno di seguito esaminate, posta a carico non della generalità dei consociati ma di due categorie specifiche di soggetti: a) i condannati con sentenza definitiva per taluno dei reati previsti dall‘art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. ovvero per il delitto di trasferimento fraudolento di valori attualmente descritto dall’art. 512-bis cod. pen.; b) i soggetti già sottoposti, con provvedimento definitivo, a una misura di prevenzione di cui al d.Igs. n. 159 del 2011. La platea dei destinatari del precetto – come precisato dalla già citata Sez. U, Stangolini – risulta alquanto ampia in ragione delle stratificazioni normative intervenute nel corso del tempo (legge n. 646 del 1982, legge n. 136 del 2010, d. Igs. n. 159 del 2011) che hanno comportato l’attrazione nel cono applicativo della disposizione incriminatrice dei soggetti destinatari di ogni tipologia di misura di prevenzione personale (anche per le ipotesi di cd. pericolosità semplice, lì dove in origine l’obbligo de quo era imposto ai soli destinatari di misura per ritenuta pericolosità qualificata).

Si tratta di un numerus clausus di soggetti che in ragione degli esiti di un procedimento penale o di prevenzione (nei termini prima specificati) risultano gravati da uno specifico obbligo comunicativo – di pura creazione legislativa – che riguarda, in prima approssimazione, le proprie movimentazioni patrimoniali di una certa entità.

L’obbligo comunicativo, in particolare, concerne: a) tutte le variazioni nella entità e composizione del patrimonio (tanto attive quanto passive) che riguardino elementi di valore non inferiore ad euro 10.329,14; b) le variazioni intervenute nel corso di un anno, lì dove superino complessivamente la soglia di 10.329,14 euro. Sono esclusi dall’obbligo di comunicazione i beni destinati al soddisfacimento dei bisogni quotidiani.

Nel primo caso la comunicazione – al nucleo di Polizia tributaria del luogo di dimora abituale – va operata entro trenta giorni dal fatto (intendendosi per tale il fatto generativo della singola variazione nella entità o composizione), mentre nella seconda ipotesi la scadenza dell’obbligo è fissata al 31 gennaio dell’anno successivo.

Il la scadenza dell’obbligo è fissata al 31 gennaio dell’anno monitoraggio sui “comportamenti patrimoniali” del soggetto già condannato per particolari reati (tra cui il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen.) o destinatario di misura di prevenzione personale si estende per dieci anni, decorrenti dalla definitività dei provvedimenti giurisdizionali che hanno determinato lo status.

Nelle decisioni di questa Corte e del giudice delle leggi succedutesi nel corso del tempo si & evidenziato che la ratio della disposizione è quella di permettere l’esercizio di un controllo patrimoniale più analitico e penetrante nei confronti di persone ritenute particolarmente pericolose (in rapporto all’evento giudiziario fondante l’obbligo), onde accertare per tempo se le variazioni dipendano o meno dall’eventuale svolgimento di attività illecite (v. Sez. 5, n. 13077 del 03/12/2015, dep. 2016, Artale, cit.).

Dalla decisione giurisdizionale fondativa dello status deriverebbe – in altre parole – il fondamento razionale dell’obbligo comunicativo penalmente sanzionato, posto che il reato commesso (o l’accertamento della pericolosità in sede di procedura di prevenzione) concretizza una condizione di “latente pericolosità” che impone un periodo di osservazione ed una “particolare attenzione” verso le iniziative a contenuto patrimoniale del soggetto.

La comunicazione rende, in tale chiave, possibile un tempestivo controllo circa la derivazione degli incrementi o circa la causale dei decrementi, a tutela del bene giuridico protetto, individuato nell’’ordine pubblico (cfr. Sez. U, Stangolini, cit.).

Peraltro, la collocazione sistematica delle disposizioni incriminatrici in testi di legge che hanno ad oggetto “principale” il sistema delle misure di prevenzione personali e patrimoniali porta a ritenere sussistente una finalità “di fondo” che è ben stata esplicitata da Corte cost., ord. n. 675 del 1988 che ha legittimato la estensione ai “pericolosi generici” di alcune disposizioni preventive di tipo inibitorio e repressivo originariamente dettate nel settore della prevenzione antimafia, lì dove si è affermato che ciò «non appare irragionevole, essendovi la medesima ratio di impedire l’eventuale ingresso nel mercato di denaro ricavato dall’esercizio di attività delittuose o di traffici illeciti».

In tal senso, il monitoraggio delle attività a contenuto patrimoniale della persona già condannata per particolari reati esprime una finalità preventiva, tesa ad assicurare il tempestivo controllo delle fonti da cui proviene il movimento finanziario e delle modalità della sua realizzazione.

In caso di omessa comunicazione della variazione, se penalmente rilevante, il legislatore prevede una forma di confisca sanzionatoria, nel cui ambito non rileva — come si è detto — la eventuale dimostrazione di liceità dell’incremento patrimoniale: alla condanna segue, infatti, la confisca dei beni a qualunque titolo acquistati nonché del corrispettivo dei beni a qualunque titolo alienati.

  1. La disposizione incriminatrice, per le sue particolari caratteristiche, ha dato luogo nel corso del tempo a rilevanti questioni interpretative ed a dubbi di legittimità costituzionale, specie sul fronte della compatibilità con il principio di necessaria chiarezza e precisione della descrizione dell’illecito e con quello di necessaria offensività delle condotte di reato.

Prima di passare ad esaminare lo specifico quesito posto dalla ordinanza di rimessione occorre, pertanto, illustrare, sia pure in sintesi, i contenuti delle decisioni emesse nel corso del tempo dalla Corte costituzionale, in riferimento al rapporto tra il contenuto descrittivo della fattispecie de qua e il principio di necessaria offensività della condotta costituente reato.

In premessa, occorre ricordare — sia pure a grandi linee — la stessa evoluzione della giurisprudenza costituzionale sul principio di offensività, sia in chiave di criterio generale posto, in rapporto alle scelte del costituente, a presidio della selezione dei fatti “meritevoli di punizione”, che in chiave di parametro alla cui stregua il giudice è tenuto ad apprezzare la condotta concreta, pur se tipica, cui attribuire idoneità lesiva, con danno o messa in pericolo del bene protetto.

3.1. Con la sentenza n. 189 del 1987 la Corte costituzionale dichiarava la illegittimità costituzionale di alcune disposizioni incriminatrici contenute nella I. 24 giugno 1929 n. 1085 in tema di divieto di esposizione (senza autorizzazione delle autorità politiche locali) di bandiere estere.

In detto contesto veniva rilevato che il fatto tipico, anche alla luce della esistenza di altre disposizioni incriminatrici in tema di vilipendio, era privo di ogni significatività e offensività, sicché la incriminazione della condotta era priva di ragionevolezza, per l’assenza di un “reale” bene giuridico tutelato: «il diritto penale costituisce, rispetto agli altri rami dell’ordinamento giuridico dello Stato, l’extrema ratio, il momento nel quale soltanto nell’impossibilità o nell’insufficienza dei rimedi previsti dagli altri rami è concesso al legislatore ordinario di negativamente incidere, a fini sanzionatori, sui più importanti beni del privato».

Con la sentenza n. 360 del 1995 la Corte costituzionale, nel dichiarare la infondatezza di più questioni relative alla rilevanza penale della condotta di coltivazione di piante da cui può essere estratta sostanza stupefacente, osservava, con riferimento al rapporto con il principio di offensività, che «la verifica del rispetto del principio dell’offensività come limite di rango costituzionale alla discrezionalità del legislatore ordinario nel perseguire penalmente condotte segnate da un giudizio di disvalore implica la ricognizione della astratta fattispecie penale, depurata dalla variabilità del suo concreto atteggiarsi nei singoli comportamenti in essa sussumibili.

Operata questa astrazione degli elementi essenziali del delitto in esame, risulta una condotta (quella di coltivazione di piante da cui sono estraibili i principi attivi di sostanze stupefacenti) che ben può valutarsi come pericolosa”, ossia idonea ad attentare al bene della salute dei singoli per il solo fatto di arricchire la provvista esistente di materia prima e quindi di creare potenzialmente più occasioni di spaccio di droga; tanto più che — come già rilevato — l’attività produttiva è destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi coltivabili.

Si tratta quindi di un tipico reato di pericolo, connotato dalla necessaria offensività proprio perché non è irragionevole la valutazione prognostica — sottesa alla astratta fattispecie criminosa — di attentato al bene giuridico protetto».

Si tratta di una affermazione esegetica di estremo rilievo, da cui prendono spunto – manifestando continuità al principio – le decisioni posteriori sulla categoria dei reati a pericolo presunto e sulla doppia valenza del principio di offensività.

Premessa, infatti, la precisa identificazione del bene giuridico protetto, e della sua obiettiva consistenza, anche il reato di pericolo presunto (presunzione ex lege) può risultare conforme al principio di materialità e di necessaria offensività (derivante dagli artt. 25 e 27 Cost.) se ed in quanto vi sia — alla base della incriminazione della condotta – una congrua e ragionevole applicazione di una massima di esperienza che ricolleghi alla condotta – qui apprezzata nella sua dimensione astratta – un evento di pericolo per il bene tutelato.

Il possibile “scarto” tra la presunzione legislativa di esposizione a pericolo del bene protetto, ritenuta ragionevole, e la dimensione concreta del fatto (pur rientrante nella tipicità) viene affidato – nei reati a pericolo presunto – alla valutazione del giudice, in riferimento al secondo “versante” del principio di offensività. Ciò è affermato con nettezza dalla Corte costituzionale in numerose decisioni, che chiariscono la “doppia dimensione” e la “doppia valenza” del principio.

Ciò è chiaramente esposto nella sentenza n. 263 del 2000 (sul reato militare di violata consegna). Una volta esclusa la irragionevolezza della incriminazione in astratto (vi è ragionevole presunzione di idoneità della condotta a porre in pericolo un bene giuridico meritevole di particolare protezione) la Corte costituzionale afferma, infatti, che «l’accertamento in concreto della sussistenza dei presupposti che identificano la consegna è [..] compito dell’autorità giudiziaria militare, alla quale spetta altresì valutare se tutte le prescrizioni impartite siano, nei singoli casi, finalizzate al corretto svolgimento del servizio comandato; se, cioè, l’eventuale inadempimento del militare ad alcuna di esse sia idoneo a pregiudicare l’integrità del bene protetto ed abbia quindi carattere di offensività anche in concreto. L‘articolo 25 Cost., quale risulta dalla lettura sistematica a cui fanno da sfondo, oltre ai parametri indicati dal remittente, l’insieme dei valori connessi alla dignità umana, postula, infatti, un ininterrotto operare del principio di offensività dal momento della astratta predisposizione normativa a quello della applicazione concreta da parte del giudice, con conseguente distribuzione dei poteri conformativi tra giudice delle leggi e autorità giudiziaria, alla quale soltanto compete di impedire, con un prudente apprezzamento della lesività in concreto, una arbitraria ed illegittima dilatazione della sfera dei fatti da ricondurre al modello legale».

Tirando le somme su tali aspetti, per rispondere al parametro costituzionale del “diritto penale del fatto” derivante dal testo dell’art. 25 secondo comma Cost., è necessario, dunque, che il principio di offensività operi in modo ininterrotto, dal momento della produzione legislativa a quello della applicazione concreta, trattandosi di valore irrinunziabile dell’intero sistema penale.

3.2. Di particolare interesse ai nostri fini, tra le pronunzie della Corte costituzionale, è anche la sentenza n. 354 del 2002 con cui è stata dichiarata la illegittimità costituzionale dell‘art. 688, secondo comma, cod. pen., che incriminava la ubriachezza manifesta in luogo pubblico se il fatto risultava commesso da chi ha riportato condanna per delitto non colposo contro la vita o la incolumità individuale.

Qui ad essere dichiarata incostituzionale è la scelta del legislatore di ritenere punibile la condizione di ubriachezza “solo se” commessa da soggetti già condannati per una determinata tipologia di condotte: «la disposizione censurata è affetta dagli ulteriori vizi, anch’essi denunciati dal remittente, derivanti dalla violazione dei principi costituzionali di legalità della pena e di orientamento della pena stessa all’emenda del condannato. L’avere riportato una precedente condanna per delitto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale, pur essendo evenienza del tutto estranea al fatto-reato, rende punibile una condotta che, se posta in essere da qualsiasi altro soggetto, non assume alcun disvalore sul piano penale. Divenuta elemento costitutivo del reato di ubriachezza, la precedente condanna assume le fattezze di un marchio, che nulla il condannato potrebbe fare per cancellare e che vale a qualificare una condotta che, ove posta in essere da ogni altra persona, non configurerebbe illecito penale. Il fatto poi che il precedente penale che qui viene in rilievo sia privo di una correlazione necessaria con lo stato di ubriachezza rende chiaro che la norma incriminatrice, al di là dell’intento del legislatore, finisce col punire non tanto |’ubriachezza in sé, quanto una qualità personale del soggetto che dovesse incorrere nella contravvenzione di cui all‘articolo 688 del codice penale. Una contravvenzione che assumerebbe, quindi, i tratti di una sorta di reato d’autore, in aperta violazione del principio di offensività del reato, che nella sua accezione astratta costituisce un limite alla discrezionalità legislativa in materia penale posto sotto il presidio di questa Corte. Tale limite, desumibile dall’articolo 25, secondo comma, della Costituzione, nel suo legame sistematico con l’insieme dei valori connessi alla dignità umana, opera in questo caso nel senso di impedire che la qualità di condannato per determinati delitti possa trasformare in reato fatti che per la generalità dei soggetti non costituiscono illecito penale».

Ciò che si trae da detta decisione è che deve esservi un collegamento funzionale tra una precedente condanna e una condotta posteriore elevata a reato, posto che in assenza di tale nesso la incriminazione sarebbe frutto di una mera qualità personale di condannato, che non può essere un “marchio indelebile” e non può giustificare la disparita di trattamento con il resto dei consociati.

3.3. Tali principi sono stati ulteriormente ribaditi dalle sentenze n. 139 del 2023 (in tema di porto degli strumenti indicati nell’art. 4, primo comma, legge n. 110 del 1975), n. 28 del 2024 (in tema di invasione di edifici, che richiama il dovere del giudice di verificare in concreto la attitudine lesiva del comportamento incriminato), legge n. 149 del 2024 (in riferimento alla comparazione delle circostanze ed applicazione della speciale causa di non punibilità di cui all’art.131- bis cod. pen.).

Di particolare rilievo appare infine la precisazione operata nella sentenza n. 139 del 2023, lì dove si afferma che in rapporto ai reati di pericolo presunto il giudice comune, per dare attuazione al principio di offensività, «deve escludere la punibilità di fatti pure corrispondenti alla formulazione della norma incriminatrice, quando alla luce delle circostanze concrete manchi ogni (ragionevole) possibilità di produzione del danno».

  1. Al parametro dell’offensività, occorre, secondo queste Sezioni Unite, rifarsi anche al fine di orientare i poteri valutativi del giudice in relazione alla condotta sussumibile in una fattispecie di pericolo presunto: al giudice spetta, infatti, individuare il possibile scarto tra la presunzione operata dal legislatore (condotta idonea ad esporre a pericolo il bene protetto) e la realtà fenomenica (condotta inidonea a manifestare, in concreto, simile attitudine lesiva), ferma restando la integrazione della fattispecie tipica.

La esposizione a pericolo del bene protetto richiede sempre e comunque la identificazione — quantomeno — di una “ragionevole possibilità di produzione del danno” in rapporto ad un bene giuridico dotato della necessaria concretezza e previamente delimitato.

Si tratta, peraltro, di un inquadramento dogmatico richiamato in più occasioni dalle Sezioni Unite (Sez. U, n. 16153 del 18/01/2024, Clemente, non mass. sul punto; Sez. U, n. 12348 del 19/12/2019, dep. 2020, Caruso, Rv. 278624 – 01; Sez. U, n. 40354 del 18/07/2013, Sciuscio, non mass. sul punto; Sez. U, n. 45583 del 25/10/2007, Volpe, non mass. sul punto) anche in rapporto alla adesione ad interpretazioni che ne valorizzino il contenuto e le ricadute in punto di tipicità (cfr. Sez. U, n. 49686 del 13/07/2023, Giudice, Rv. 285435 – 01 in riferimento al reato di cui all’art. 7d.l. 28 gennaio 2019, n. 4).

Particolarmente rilevanti appaiono, sul tema, le considerazioni svolte da Sez. U, n. 16153 del 18/01/2024, Clemente, Rv. 286241 – 01 che, nell’analizzare il rapporto tra le diverse fattispecie incriminatrici di cui all’art. 5 legge 20 giugno 1952, n. 645 e art. 2, comma 1, d.l. 26 aprile 1993, n. 122, ha testualmente ricordato come: «quantomeno ai fini della presente decisione, la distinzione tra un “pericolo concreto” ed un “pericolo astratto o presunto” finisca, a ben vedere, per divenire, nei fatti, evanescente, una volta che si prenda contestualmente atto di come […] anche le previsioni contrassegnate da un pericolo presunto debbano coniugarsi con il principio di offensività».

  1. Tanto premesso, in merito al reato di pericolo presunto e al principio di offensività, occorre analizzare le decisioni della Corte costituzionale intervenute in modo specifico sulla condotta di reato oggetto del presente giudizio.

La prima decisione è – in ordine cronologico – la sentenza n. 442 del 2001, con cui viene dichiarata la inammissibilità della questione relativa all’art. 30 e la manifesta infondatezza della questione relativa all’art. 31 legge 13 settembre 1982 n. 646. In detta sentenza si afferma che la incriminazione non contiene aspetti di evidente irragionevolezza, ove si tenga conto della possibilità per il giudice comune «di escludere la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato quando sia di per sé impossibile l’occultamento degli atti soggetti a comunicazione». Viene dunque indicata la strada della più attenta verifica della ricorrenza – nei casi concreti — dell’elemento psicologico del reato.

La seconda decisione di rilievo, ovvero la sentenza n. 81 del 2014, interviene a distanza di tredici anni dalla prima.

Qui la Corte costituzionale si sofferma sulla natura del reato e sulla intervenuta evoluzione del diritto vivente, in particolare prendendo atto del progressivo superamento — da parte della giurisprudenza di legittimità — della tesi del necessario “dolo di occultamento”. Ciò rende non più possibile — nel caso di omessa comunicazione di atti pubblici soggetti a registrazione — l’importazione delle considerazioni espresse con la decisione n. 442 del 2001, in precedenza ricordata, pur richiamandosi gli «indubbi profili di criticità» del paradigma punitivo oggetto dell’incidente di legittimità costituzionale, non superabili attraverso le prospettazioni – eccessivamente creative – del giudice remittente. Si tratta, dunque, di una decisione che lascia inalterato l’assetto legislativo e che si limita a constatare come la tesi della necessaria caratterizzazione del dolo in termini di specificità sia stata accantonata nel panorama giurisprudenziale.

Con la terza decisione, ovvero la sentenza n. 99 del 2017, lo scrutinio di costituzionalità si incentra in modo espresso sul rapporto tra il contenuto della incriminazione e le ricadute del principio di offensività.

Il Giudice delle leggi riferisce la ratio di tutela al bene giuridico dell’ordine pubblico, in chiave di potenziale attivazione di un doveroso controllo sulle cause della variazione, funzionalmente correlato alla condizione (di pericolosità) del soggetto cui è imposto il dovere comunicativo.

Ciò posto, non viene ritenuto sussistente alcun deficit di ragionevolezza secondo il parametro della offensività «in astratto», atteso che «occorre un monitoraggio costante sui beni delle persone pericolose gravate dal legislatore dell’obbligo in questione; monitoraggio che non può essere assicurato dalla registrazione e dalla trascrizione degli atti che determinano le variazioni patrimoniali».

Trattandosi, tuttavia, di reato di pericolo presunto, viene ribadito il necessario controllo del giudice sulla offensività della specifica condotta oggetto di giudizio giacché, «sempre che non si possa escludere il dolo, spetta […] al giudice comune il compito di allineare il fatto oggetto del giudizio al canone dell’offensività “in concreto”, in quanto compete a questo giudice verificare se la singola condotta, rappresentata nel caso in esame dalla omessa comunicazione, risulta assolutamente inidonea, avuto riguardo alla ratio della norma incriminatrice, a porre in pericolo il bene giuridico protetto e dunque, in concreto, inoffensiva, escludendone in tal caso la punibilità».

Ciò che maggiormente interessa rilevare è che in simile, delicato, equilibrio la Corte costituzionale muove – in tutte le decisioni intervenute sul tema – da una considerazione di base: la pericolosità soggettiva, derivante dal pregresso accertamento dello specifico reato (o della condizione di destinatario della misura di prevenzione) è ciò che giustifica la previsione dell’obbligo comunicativo della variazione, che altrimenti risulterebbe non conforme ai principi costituzionali (cfr. sent. n. 354 del 2002, cit.).

Dunque, risulta costituzionalmente legittima, in tale chiave, la diversificazione di trattamento tra il comune cittadino (non gravato da alcun dovere di comunicazione dei propri movimenti economici superiori a una data soglia) e il soggetto condannato per un reato di criminalità organizzata (o destinatario della misura di prevenzione personale), atteso che l’obbligo di comunicazione — imposto solo al secondo — si ricollega alla pregressa manifestazione di pericolosità ed ha un contenuto potenzialmente «utile» a fini di tutela dell’ordine pubblico economico.

  1. La giurisprudenza di legittimità, sinteticamente rievocata in parte narrativa, si è incentrata per molto tempo sul tema del dolo: le decisioni più recenti si sono confrontate con i principi enunciati dalla sentenza n. 99 del 2017 della Corte costituzionale.

Nella giurisprudenza di legittimità non sono controversi la natura di reato di pericolo presunto e la identificazione del bene giuridico protetto in quello dell’ordine pubblico economico, in ragione della pericolosità del soggetto destinatario di condanna per determinate ipotesi di reato o di misura di prevenzione personale definitiva. Al contrario, è mancata una compiuta analisi dei principi espressi dalla Corte costituzionale in tema di doverosa verifica della offensività in concreto dei reati di pericolo presunto.

È da questi principi che occorre partire per fornire risposta al quesito interpretativo.

L’offensività in concreto riguarda il rapporto tra la condotta astrattamente sussumibile nella fattispecie incriminatrice e la effettiva lesione, o messa in pericolo, del bene giuridico protetto. Si tratta, quanto alla verifica di offensività in concreto, di un profilo logicamente e giuridicamente successivo rispetto alla verifica degli elementi costitutivi del reato; la inoffensività presuppone infatti l’integrazione della fattispecie tipica e del relativo coefficiente di colpevolezza.

In assenza di indici testuali specifici deve poi ritenersi definitivamente superato l’orientamento interpretativo che evocava la necessita del “dolo di occultamento” (tesi risalente a Sez. 1, n. 10024 del 11/03/2002, Le Pera, Rv. 221494 – 01). 1l reato in esame, ai fini della sua integrazione, necessita del solo dolo generico, la cui prova non è diversa in caso di omissione della comunicazione atti sottoposti ad un regime di pubblicità legale (cfr. tra le altre, Sez. 2 n. 4667 del Rv. 19/11/2010, dep. 2011, Rv. 249658 – 01; Sez. 1, n. 10432 del 24/02/2010, 246398 – 01; Sez. 1, n. 37408 del 25/10/2006, Cesaro, Rv. 235142 – 01) atteso che il regime di pubblicità non garantisce l’effettiva conoscenza della variazione in capo all’organo di polizia titolare del potere di verificare la liceità delle fonti patrimoniali impiegate dal soggetto «pericoloso».

È indubbio che l’omessa comunicazione può riguardare anche atti soggetti a forme di pubblicità legale, tra cui i trasferimenti immobiliari e le stesse variazioni derivanti da fenomeni successori, atteso che la norma, nel suo tenore letterale e nella sua lettura sistematica e teleologica, non distingue le diverse tipologie di atti. La prova, dunque, non è diversa.

L’orientamento prevalente, condiviso sul punto dal Collegio, ritiene dunque ininfluente, rispetto alla prova del dolo, la particolare modalità con cui si è realizzata la acquisizione patrimoniale, ferma restando la ovvia necessita di evitare forme presuntive di accertamento dell’elemento psicologico del reato (dolus in re ipsa). Va aggiunto che Sez. 6 n. 24874 del 30/10/2014, dep. 2015, Lo Bello, non mass., adotta una definizione dell’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali in termini di «effetto legale tipico di una condanna per fatti di mafia o della imposizione di una misura di prevenzione personale», al fine di specificare come l’eventuale errore sulla esistenza dell’obbligo si traduce in errore sul precetto e non sul fatto.

Tale affermazione, condivisa dal Collegio, toglie rilievo a ulteriori questioni relative alla ricorrenza – anche nel caso oggetto della presente decisione – del dolo.

Allo stesso tempo, la presunzione ex lege circa l’idoneità astratta della condotta di omessa comunicazione delle variazioni – da parte delle categorie di soggetti già indicate – ad esporre a pericolo il bene giuridico protetto, non esime tuttavia il giudice dalla verifica in concreto della effettiva attitudine lesiva della condotta, al fine di superare il possibile scarto tra presunzione legislativa e realtà fenomenica, secondo le linee esegetiche in precedenza esposte.

In tal senso merita di essere richiamata (oltre alle gia citate decisioni Sez. 6, Puccio e Sez. 1, Sorce) Sez. 3, n. 50299 del 27/10/2023, Vandelli, Rv. 285589 – 01, che, in coerenza con il dictum della Corte costituzionale (sent. n. 99 del 2017, cit.) ha ritenuto necessaria la verifica «in concreto» della offensività della singola omissione, evidenziando come — specie nel caso di atti sottoposti a regime di pubblicità – il giudice del merito sia tenuto a fornire una motivazione “in positivo” che non si limiti alla verifica del dolo generico ma che investa il tema della idoneità della condotta a porre in pericolo il bene giuridico protetto.

Se si risale alla ratio della disposizione incriminatrice (come si è detto, la realizzazione di un doveroso monitoraggio sulle iniziative patrimoniali del soggetto riconosciuto come pericoloso) e alla più precisa individuazione del bene giuridico oggetto di tutela, ovvero l’ordine pubblico inteso, sul versante economico come assenza di alterazioni della libertà di concorrenza e della libertà di iniziativa a causa dell’agire di organizzazioni di stampo mafioso o assimilabili, è evidente che l’aver omesso di comunicare l’acquisizione di beni a titolo successorio, pur rientrando nella astratta dimensione tipica (si tratta, pur sempre di una variazione della consistenza patrimoniale) può essere ritenuto, in concreto, inoffensivo e dunque non punibile.

In altre parole, la carenza di offensività in concreto, in rapporto alla specifica norma incriminatrice oggetto del giudizio, si realizza nei casi in cui la movimentazione patrimoniale ictu oculi non sia ricollegabile alla pericolosità latente del soggetto raggiunto dall’obbligo.

La avvertita necessità di riempire di contenuti la indicazione fornita da Corte cost., sent. n. 99 del 2017 va dunque realizzata attraverso un esercizio motivazionale che verifichi in modo puntuale ed espresso se la omissione – pur aderente al paradigma della tipicità – non abbia alcuna attitudine offensiva in concreto.

La verifica della concreta offensività — nei termini prima ricordati – della specifica condotta di omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali è sempre doverosa, da parte del giudice del merito, trattandosi del punto di equilibrio di una fattispecie incriminatrice che presenta, sin dalla sua introduzione, degli «indubbi profili di criticità» (cfr. Corte cost., sent. n. 81 del 2014).

L’offensività in concreto della omissione deve quindi elevarsi a contenuto necessario e indefettibile della motivazione, che espliciti anche mediante un giudizio controfattuale l’attitudine offensiva della omissione astrattamente punibile, in quanto posta in essere da una persona ritenuta – per gli esiti giudiziari pregressi – portatrice di una “latente pericolosità”.

  1. Sulla base delle considerazioni sinora svolte, non è possibile individuare “categorie di atti” di rilevo patrimoniale “sottratti” in quanto tali all’ambito applicativo della disposizione incriminatrice, che il legislatore non ha voluto circoscrivere a specifiche tipologie. Tale conclusione, oltre ad essere rispettosa del tenore letterale della disposizione, tiene conto della variabilità delle situazioni di fatto, che impediscono di impostare la risposta al quesito in termini “categoriali”.

Non vi è dubbio che il fenomeno della successione ereditaria – come osservato dal Procuratore generale nella sua requisitoria – può atteggiarsi in forme giuridiche sensibilmente diverse e può avere ad oggetto compendi patrimoniali di diversa entità in ordine ai quali la verifica della assenza di condizionamenti — pregressi morte all’evento — sulla “composizione e derivazione” di quanto caduto in successione è doverosa anche per i riflessi sulla concreta offensività della condotta di omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali.

  1. Alla luce delle argomentazioni sin qui esposte la questione oggetto di rimessione deve essere risolta affermando il seguente principio di diritto:

“L’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali, previsto dall’art. 30, legge 13 settembre 1982, n. 646, è configurabile, con conseguente rilevanza penale della sua violazione, nell’ipotesi di una acquisizione proveniente da successione ereditaria, fermo restando l’onere del giudice di verificare, dandone adeguata motivazione, l’idoneità della condotta tenuta a porre in pericolo il bene giuridico protetto, alla stregua del canone di offensività in concreto”.

  1. Nel caso concreto oggetto di ricorso va constatata l’avvenuta estinzione del reato per intervenuta prescrizione.

Preliminarmente occorre infatti evidenziare che il ricorso non può dirsi inammissibile per manifesta infondatezza, avendo sollevato, tra gli altri, un profilo di critica la cui soluzione è stata oggetto della presente decisione (cfr. Sez. U, n. 42125 del 27/06/2024, Cirelli, non mass. sul punto), da ciò derivando la perdurante decorrenza del termine di prescrizione anche in costanza della fase di legittimità. La verifica della offensività in concreto – nella decisione impugnata – non è stata realizzata in modo congruo, essendo stato indicato esclusivamente il parametro del valore della quota dei beni caduti in successione, di pertinenza di Paolo Vitagliano.

Si tratta, alla luce delle considerazioni espresse nei paragrafi che precedono, di un aspetto non decisivo, atteso che da un lato il superamento del valore indicato dal legislatore nella previsione incriminatrice integra la tipicità ma non necessariamente realizza l’offensivita in concreto, dall‘altro, in caso di successione ereditaria, ad essere rilevanti potrebbero essere l’apprezzamento delle modalità della devoluzione (ex lege o in forza di disposizione testamentaria) e le particolari caratteristiche del bene di cui si parla (tra cui epoca di ingresso nel patrimonio del de cuius e possibilita o meno di una pregressa intestazione di comodo ricollegabile alle manifestazioni di pericolosità del condannato per reato di criminalità organizzata). Dunque, il profilo di critica sollevato dal ricorrente nella seconda parte del primo motivo non può dirsi – anche con valutazione in concreto – manifestamente infondato.

Quanto all’individuazione del dies a quo, il reato in esame è un reato istantaneo (ex multis Sez. 6, n. 24874 del 30/10/2014, dep. 2015, Lo Bello, cit.) che si consuma alla inutile scadenza (condotta omissiva) del termine di comunicazione della variazione patrimoniale da parte del soggetto obbligato. Tuttavia, il caso in esame impone una verifica ulteriore sul momento di consumazione, trattandosi di una variazione patrimoniale derivante, come già evidenziato, da un fenomeno successorio mortis causa.

Ed allora, in proposito, la variazione patrimoniale si concretizza al momento della accettazione della eredita, accettazione che, secondo l’art. 474 cod. civ., può essere espressa o tacita. A fini penalistici è tale il momento che determina l’insorgenza del dovere comunicativo di cui all’art. 30 legge n. 646 del 1982, posto che la regola civilistica ex art. 459 cod. civ., secondo cui l’effetto della accettazione risale al momento nel quale si è aperta la successione, porterebbe al paradossale effetto di ritenere già consumato il reato in tutte le ipotesi di accettazione intervenuta oltre trenta giorni dalla apertura della successione.

Ai sensi dell’art. 476 cod. civ. l’accettazione è tacita quando il chiamato all’eredità compie un atto che presuppone necessariamente la sua volontà di accettare e che non avrebbe il diritto di fare se non nella qualità di erede.

Nel caso in esame il ricorrente assume che, a fronte del decesso di Cosimo Vitagliano, avvenuto in data 31 gennaio 2016, l’acquisizione patrimoniale risalirebbe già al 2016, come dimostrato dal fatto che, nella denuncia dei redditi presentata nel 2017, relativa ai redditi percepiti nel 2016, è inserito il 25% dei canoni di affitto dei beni ereditati. Ad ulteriore conferma di tale cronologia della acquisizione, si indica la richiesta di disdetta dell’utenza telefonica, inviata dal ricorrente già in data 1 aprile 2016.

In aderenza ai contenuti espressi, sul tema, in particolare da Sez. 2 civ., n. 7075 del 1999, Rv. 528409 – 01, occorre tuttavia rilevare che |’accettazione tacita può essere ricollegata ad una «serie di atti» che esprimano in modo inequivoco la volontà di accettare e che risultino «nel loro insieme» incompatibili con la volontà di rinunciare.

In ossequio a tale principio, va riconosciuto che nel caso in esame si è realizzata una accettazione tacita attraverso l’intera sequenza di comportamenti tenuti dal Vitagliano che partono dalla disdetta dell’utenza telefonica (comportamento che in quanto tale non potrebbe dirsi univoco) e si concludono con la dichiarazione formale di successione del 24 febbraio 2017 (atto che, di per sé solo, non sarebbe interpretabile come accettazione tacita se non appunto unito ad altri atti).

Dunque, il dies a quo di specie è quello del 24 marzo 2017 in riferimento all’ inutile decorso dei trenta giorni rispetto al momento della accettazione tacita.

In assenza di eventi idonei ad integrare un incremento dei termini il reato si è pertanto estinto per intervenuta prescrizione in data 24 settembre 2024.

  1. Alla estinzione del reato consegue l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata e la revoca della confisca.

È pacifica, infatti, la natura sanzionatoria della confisca prevista dalle disposizioni qui in rilievo (art. 31 |. n. 646 del 1982 e art. 76, settimo comma, d. Igs. n. 159 del 2011), atteso che non si tratta di beni direttamente correlati alla condizione soggettiva di pericolosità o frutto di condotte illecite precedenti alla loro acquisizione.

Nel caso in esame la acquisizione al patrimonio dell’imputato si è verificata – per quanto sinora detto – il 24 febbraio del 2017.

La disposizione di cui all’art. 578-bis cod. proc. pen., introdotta dall’art. 6, quarto comma, d.lgs. 1 marzo 2018, n. 21, ha natura sostanziale e non può, pertanto, trovare applicazione, trattandosi di fatto avvenuto prima della sua entrata in vigore (cfr. Sez. U, n. 4145 del 29/09/2022, dep. 2023, Esposito, Rv. 284209 – 01).

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