Corte di Cassazione, Sez. V Penale, ud. dep. 11 giugno 2025 n. 22017
PRINCIPIO DI DIRITTO
L’applicazione retroattiva dell’interpretazione giurisprudenziale più sfavorevole di una norma penale non è consentita, salvo che il risultato interpretativo non fosse ragionevolmente prevedibile al momento della commissione del fatto, pena la violazione degli artt. 2 cod. pen., 25 Cost. e 7 CEDU.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Il motivo di ricorso è infondato.
- In tema di accesso abusivo a un sistema informatico o telematico, Sez. U, n. 4694 del 27/10/2011, dep. 2012, Casani, Rv. 251269 – ponendo fine al contrasto giurisprudenziale che si registrava in punto di qualificazione giuridica della condotta di accesso abusivo a un sistema informatico o telematico, ha affermato che «integra il delitto previsto dall’art. 615 ter cod. pen.colui che, pur essendo abilitato, acceda o si mantenga in un sistema informatico o telematico protetto violando le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l’accesso, rimanendo invece irrilevanti, ai fini della sussistenza del reato, gli scopi e le finalità che abbiano soggettivamente motivato l’ingresso nel sistema».
Invero, sul tema, si agitavano due orientamenti.
Un primo orientamento riteneva che l’art. 615-ter cod. pen. sanziona non solo l’introduzione abusiva di un soggetto non abilitato in un sistema informatico protetto, ma anche il permanere al suo interno contro la volontà espressa o tacita di chi abbia il diritto di escluderlo, di tal ché anche l’accesso del soggetto abilitato, di per sé legittimo, diviene abusivo, e perciò illecito, per il suo protrarsi all’interno del sistema per fini e ragioni estranee a quelle d’istituto (Sez. 5, n. 37322 del 08/07/2008, Bassani, Rv. 241202 – 01 e da Sez. 5, n. 39620 del 22/09/2010, Lesce, Rv. 248653).
Un secondo orientamento, diversamente, riteneva che illecito è il solo accesso abusivo, e cioè quello effettuato da soggetto non abilitato, mentre è sempre e comunque lecito l’accesso del soggetto abilitato, ancorché effettuato per finalità estranee a quelle d’ufficio e, persino, illecite (Sez. 5, n. 2534 del 20/12/2007, Migliazzo, Rv. 239105; Sez. 5, n. 26797 del 29/05/2008, Scimia, Rv. 240497; Sez. 6, n. 3290 del 08/10/2008, Peparaio, Rv. 242684; Sez. 5, n. 40078 del 25/06/2009, Genchi, Rv. 244749).
Nonostante l’intervento del Supremo consesso, di lì a poco, nuovamente si registrava un contrasto nella giurisprudenza di legittimità tra pronunce che, pur aderendo al principio di diritto affermato da Sez. U Casani, fornivano risposte antitetiche.
In particolare, con la decisione n. 22024 del 24/04/2013, Carnevale, Rv. 255387, la Quinta sezione affermava che «integra il reato di accesso abusivo al sistema informatico la condotta del pubblico dipendente, impiegato della Agenzia delle entrate, che effettui interrogazioni sul sistema centrale dell’anagrafe tributaria sulla posizione di contribuenti non rientranti, in ragione del loro domicilio fiscale, nella competenza del proprio ufficio», evidenziando che, nel caso in cui l’agente sia un pubblico dipendente non può non trovare applicazione il principio di cui alla L. 7 agosto 1990 n. 241, art. 1, in quanto al mancato rispetto dei principi posti a base dell’attività amministrativa, dei fini determinati dalla legge e dei criteri che regolano i singoli procedimenti, consegue l’«ontologica incompatibilità» di un utilizzo del sistema informatico che fuoriesce «dalla ratio del conferimento del relativo potere». Dunque, l’individuazione del fine per il quale il soggetto agisce, pur non rivestendo, come affermato da S.U “Casani”, valore e significato in sé, comunque rappresenta un valore sintomatico utile a chiarire se il soggetto agente abbia utilizzato il potere entro il perimetro o al di fuori dell’ambito di azione istituzionalmente conferitagli.
Di lì a poco, Sez. 5, n. 44390 del 20/06/2014, Mecca, Rv. 260763 escludeva la possibilità di identificare il carattere di abusività della condotta di accesso al sistema o di mantenimento al suo interno, nella violazione delle regole di imparzialità e trasparenza enunciate dall’art. 1 legge n. 241 del 1990, in quanto, diversamente opinando, si sarebbe determinata un’inammissibile dilatazione della nozione di accesso abusivo oltre i limiti imposti dalla necessità di tutelare i diritti del titolare del sistema.
- Ponendo fine al rinnovato contrasto, con la pronuncia n. 41210 del 18/05/2017, dep. 2017, Savarese, Rv. 271061, le Sezioni unite hanno affermato che «integra il delitto previsto dall’art. 615-ter, secondo comma, n. 1, cod. pen.la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio che, pur essendo abilitato e pur non violando le prescrizioni formali impartite dal titolare di un sistema informatico o telematico protetto per delimitarne l’accesso, acceda o si mantenga nel sistema per ragioni ontologicamente estranee rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso gli è attribuita».
- Sulla base di tali sviluppi giurisprudenziali, la difesa del ricorrente, come già detto, censura la decisione in verifica perché basata sulla chiave di lettura dell’art. 615-ter cod. pen.offerta da Sez. U Savarese in relazione a fatti risalenti al giugno 2016, allorquando, a suo dire, non era prevedibile un mutamento di giurisprudenza rispetto a quanto affermato da Sez. U Casani.
- Sul tema della prevedibilità del mutamento giurisprudenziale in malam partem, è consolidato l’orientamento secondo cui l’applicazione retroattiva dell’interpretazione giurisprudenziale più sfavorevole di una norma penale non è consentita, salvo che il risultato interpretativo non fosse ragionevolmente prevedibile al momento della commissione del fatto, pena la violazione degli artt. 2 cod. pen., 25 Cost. e 7 CEDU(Sez. 3, n. 46184 del 23/11/2021, M., Rv. 282238; Sez. 5, n. 37857 del 24/04/2018, Fabbrizzi, Rv. 273876; Sez. 2, n. 21596 del 18/02/2016, Tronchetti Proverà, Rv. 26716401; Sez. F, n. 35729 del 01/08/2013, Agrama, Rv. 256584).
Ne deriva che sia la normativa convenzionale, sia quella domestica non escludono che il giudice nazionale possa mutare il proprio orientamento nell’interpretazione di una norma, né in materia extrapenale, né in materia penale, ma richiedono che tale mutamento sia ragionevolmente prevedibile, all’epoca di commissione del fatto, dal destinatario della norma, di tal ché lo Stato non incorra in una violazione dell’art. 6, quanto alla materia extrapenale, e dell’art. 7, in relazione alla materia penale, della Convenzione EDU.
Dunque, è la ragionevole prevedibilità di una interpretazione giurisprudenziale che rappresenta il discrimen fra condotte che possono essere punite anche in ragione di una interpretazione che si è affermata in epoca successiva al loro compimento e condotte che debbono andare, invece, esenti da pena, fermo restando che, in ogni caso, la non prevedibilità di una decisione giudiziale – che ne preclude l’applicazione retroattiva – va esclusa qualora si registri un contrasto giurisprudenziale, in cui l’esito interpretativo, seppur controverso, è comunque presente.
Dunque, ciò che rileva è che, al momento in cui ha posto in essere la propria condotta, l’imputato possa ragionevolmente prefigurarsi l’astratta integrazione degli estremi della fattispecie criminosa.
- Nel caso di specie, pertanto, risulta decisivo verificare se l’evoluzione giurisprudenziale in tema di accesso abusivo a un sistema informatico o telematico, di cui già si è detto, fosse prevedibile al momento della commissione del fatto contestato.
- La corte territoriale, in ragione del compendio probatorio – rappresentato, tra le altre, dalla colleganza e amicizia tra l’imputato e il soggetto che aveva inoltrato denuncia contro ignoti; dall’inimicizia tra quest’ultimo e la dirigente, nonché tra questa e l’imputato; dal contenuto della denuncia sporta; dalla mancata presentazione del preannunciato “seguito” di denuncia – non ha condiviso il ragionamento del giudice di primo grado secondo cui l’imputato, legittimato ad accedere al sistema informatico per la gestione dei “seguiti” delle denunce da depositare presso gli uffici della procura della Repubblica, era entrato nel sistema per acquisire informazioni in merito alla gestione dell’integrazione di denuncia solo preannunciata, ma mai presentata presso l’ufficio nel quale l’imputato prestava il suo servizio, relativa al procedimento iscritto a carico di ignoti che, come già detto, riguardava la posizione della dirigente K.G.
Invero, ad avviso dei giudici di appello, al di là dell’intenzione prospettata dal denunciante, i plurimi accessi dell’Imputato, susseguitisi nell’arco temporale di pochi giorni, erano avvenuti, di fatto, fuori dei limiti e delle condizioni legittimanti ed erano rappresentativi, invece, di una modalità di «stretto monitoraggio» dell’evoluzione del procedimento iscritto a carico di ignoti e del suo eventuale passaggio a carico della dirigente G.
Di qui, in linea con il ragionamento espresso dal Sez. U Savarese e prescindendo dalle «soggettive finalità perseguite e dalla deviazione degli scopi istituzionali» che, eventualmente, potevano avere accompagnato la condotta dell’imputato, la decisione di condanna della corte territoriale, secondo la quale, nel caso di specie – in cui l’imputato era abilitato ad accedere nel sistema per procedere all’individuazione del numero del procedimento e del nominativo del pubblico ministero assegnatario cui inoltrare il “seguito” di denuncia -, l’accesso era avvenuto in assenza di una reale esigenza.
- In linea con quanto affermato da Sez. 5, n. 47510 del 09/07/2018, Dilaghi, Rv. 274406 -che, in una vicenda del tutto analoga a quella oggetto della pronuncia in verifica, ha escluso la sussistenza di un “overruling” ad opera della sentenza delle Sezioni unite “Savarese” e la conseguente violazione dell’art. 7 CEDU-, ritiene il Collegio che la successione delle decisioni assunte dal Supremo consesso, più che configurare un mutamento di giurisprudenza in malam partem e imprevedibile, rappresenti la naturale risposta all’esigenza di specificazioni e precisazioni del principio affermato da Sez. U Casani, manifestata dalle Sezioni semplici con le pronunce Sez. 5, n. 15054 del 22/02/2012, Crescenzi, Rv. 252479; Sez. 5, n. 10083 del 31/10/2014, dep. 10/03/2015, Gorziglia, Rv. 263454; Sez. 5, n. 6176 del 06/11/2015, dep. 15/02/2016, Russo; Sez. 5, n. 35127 del 19/04/2016, Papa; Sez. 5, n. 27883 del 09/02/2016, Leo; Sez. 5, n. 3818 del 29/09/2016, dep. 25/01/2017, Provenzano.
Ne deriva che la sentenza “Savarese”, piuttosto che ribaltare un’impostazione ermeneutica, delinea l’esito di una ricerca volta a integrare la tipicità della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 615-ter cod. pen. con la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che si traduca in un abuso o sviamento dei poteri conferitigli.
Già con la sentenza “Casani”, le Sezioni unite avevano sottolineato che la condotta vietata dal citato art. 615-ter cod. pen. si profila non solo in caso di accesso e trattenimento nel sistema informatico da parte di un soggetto che, alla luce dei limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema, non può ritenersi autorizzato, ma anche nel caso in cui il soggetto ponga in essere «operazioni di natura ontologicamente diversa da quelle di cui egli è incaricato ed in relazione alle quali l’accesso era a lui consentito», in quanto, in questi casi, ciò che risulta violato è proprio il titolo legittimante l’accesso e la permanenza nel sistema, sicché «le operazioni compiute non possono ritenersi assentite dall’autorizzazione ricevuta».
Dunque, ritiene il Collegio che la sentenza “Savarese” non sia intervenuta su un consolidato e pacifico indirizzo precedente, sì da poter essere ascritta al fenomeno di overruling, quanto, piuttosto, che la stessa sia espressione di «quegli intrinseci elementi di mutevolezza che appartengono fisiologicamente all’esercizio della funzione di nomofilachia, il che rende palese l’assenza del carattere della imprevedibilità necessario per poter appropriatamente far ricorso alla categoria dell’overruling» e che «l’interpretazione fornita dalla sentenza Savarese in merito alla condotta incriminatrice disciplinata dall’art. 615-ter, cod. pen.» non fosse né implausile, né irragionevole al momento della commissione del fatto ascritto all’imputato, ma, al contrario, prevedibile al punto da aver determinato «un ulteriore intervento delle Sezioni Unite, finalizzato a completare ed integrare un profilo specifico della precedente pronuncia Casani» (Sez. 5, Dilaghi, Rv. 274406, cit.).
- Il Collegio non ignora la decisione assunta da Sez. 6, n. 28594 del 26/03/2024, Boezi, Rv. 286770 che, nel decidere una vicenda del tutto analoga a quella della pronuncia in verifica, ha annullato senza rinvio la decisione di condanna emessa in relazione a un fatto commesso successivamente a Sez. U Casani e antecedentemente a Sez. U Savarese, ha affermato che «costituisce causa di esclusione della colpevolezza il mutamento di giurisprudenza “in malam partem”, nel caso in cui l’imputato, al momento del fatto, poteva fare affidamento su una regola stabilizzata, enunciata dalle Sezioni Unite, che escludeva la rilevanza penale della condotta e non vi erano segnali, concreti e specifici, che inducessero a prevedere che, in futuro, le Sezioni Unite avrebbero attribuito rilievo a quella condotta, rivedendo il precedente orientamento in senso peggiorativo».
Con la citata pronuncia, la Sesta sezione, dato atto della circostanza che «nel periodo di tempo intercorso tra le due pronunce delle Sezioni unite si era registrata una tendenza a precisare, a specificare in senso estensivo la portata del principio affermato dalle Sezioni unite Casani» che, a eccezione di quanto affermato con la sentenza “Carnevale”, «aveva sostanzialmente “tenuto” […], seppur con una tendenza ad una interpretazione estensiva in ragione di esigenze di specificazioni e precisazioni», ha ribadito che, tuttavia, nel periodo interessato dalla vicenda «esisteva una regola rispetto alla quale non vi era un effettivo, concreto, contrasto giurisprudenziale».
- Il ragionamento seguito da Sez. 6 Boezi, non appare condivisibile.
Invero, nel periodo interessato dalla vicenda che ci occupa, risalente al mese di giugno 2016, si profilavano decisioni che, pur allineandosi al principio di diritto affermato da Sez. U Casani, tuttavia, come Sez. 5 Carnevale, ritenevano censurabili quelle operazioni per le quali era consentito l’accesso, ma che superavano, su un piano oggettivo, le regole e i limiti stabiliti per l’accesso stesso (Sez. 5, Crescenzi, cit.; Sez. 5, Gorziglia, cit.; Sez. 5, n. 6176 del 06/11/2015, dep. 15/02/2016, cit.; Sez. 5, n. 35127 del 19/04/2016, cit., Sez. 5, n. 27883 del 09/02/2016, cit.; Sez. 5, n. 3818 del 29/09/2016, dep. 25/01/2017, cit.).
- Dunque, a fronte del dibattito giurisprudenziale risalente già al periodo interessato dalla vicenda, al quesito se, dal punto di vista della garanzia di cui all’art. 7 CEDI), la verifica della potenzialità dell’individuo di prevedere, al momento della commissione del fatto, l’eventuale mutamento giurisprudenziale, non può che darsi una risposta positiva.
- Può affermarsi che correttamente la corte territoriale ha ritenuto che l’imputato, al momento in cui i fatti furono commessi, era nelle condizioni di prendere cognizione di indici rivelatori di un orientamento volto a completare e integrare un profilo specifico della precedente pronuncia “Casani”.
- Dalle suesposte considerazioni consegue il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla refusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute dalla parte civile nel presente giudizio, che si liquidano come indicato in dispositivo.