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*Procedure concorsuali – Equa riparazione -Legittimità costituzionale del termine di durata delle procedure concorsuali ex art. 2, comma 2 bis, legge n. 89/2001

by Dott.ssa Loredana Campanile
11 Luglio 2025
in Diritto Civile
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Corte Costituzionale, sentenza 08 luglio, n. 102

PRINCIPIO DI DIRITTO

Vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24 e 117 primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dalla Corte d’appello di Venezia, nella persona del giudice designato ai sensi dell’art. 3, comma 4, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile)

TESTO RILEVANTE DELLE DECISIONE 

  1. La Corte d’appello di Venezia, nella persona del giudice designato ai sensi dell’art. 3, comma 4, della legge n. 89 del 2001, con l’ordinanza in epigrafe, ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 24 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU – questioni di legittimità costituzionale dell’ art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, «nella parte in cui non prevede che, valutata la complessità del processo presupposto, il giudice possa ritenere non irragionevole la durata di tale processo quand’anche abbia superato il termine indicato dalla norma».

1.1.– Il giudice a quo deve decidere sulle domande di equo indennizzo proposte da alcuni ex dipendenti della società Vinyls Italia spa, dichiarata fallita dal Tribunale di Venezia con sentenza 8 luglio 2013, n. 250, la cui procedura concorsuale è tutt’ora in corso.

I ricorrenti, creditori già destinatari di pagamenti parziali, hanno agito per ottenere l’indennità prevista dalla legge n. 89 del 2001 per l’irragionevole durata della procedura concorsuale, superiore ormai di cinque anni al termine di sei, previsto dall’art. 2, comma 2-bis, della medesima legge.

1.2.– In considerazione sia del numero di giudizi recuperatori che la curatela aveva promosso, sia della interferenza delle attività di bonifica ambientale e messa in sicurezza degli stabilimenti industriali contaminati, il rimettente ritiene che la procedura concorsuale presupposta non potesse essere definita entro il termine di sei anni fissato dal censurato comma 2-bis, considerato inderogabile dal diritto vivente (sentenza n. 36 del 2016; Cass., ordinanze n. 34460 del 2023 e n. 30794 del 2022.

1.3.– In punto di rilevanza, il giudice a quo afferma che soltanto nell’ipotesi di un accoglimento delle questioni i ricorsi per equa riparazione potrebbero essere rigettati ovvero solo parzialmente accolti, diversamente imponendosene l’integrale accoglimento.

1.4.– È denunciata, innanzitutto, l’irragionevolezza del termine fissato dal comma 2-bis, che varrebbe sia per le procedure di semplice o media complessità, sia per quelle di notevole complessità, nelle quali si renda necessario il promovimento di azioni finalizzate a recuperare beni all’attivo fallimentare. In tali ipotesi, in cui la durata della procedura è condizionata da quella dei giudizi recuperatori, anche ove la durata di questi ultimi fosse rispettosa del termine complessivo di sei anni previsto dal comma 2-ter del medesimo art. 2 della legge n. 89 del 2001, la procedura non potrebbe essere definita in tempo ragionevole, attese le ulteriori attività che residuerebbero (liquidazione dei beni, riparto, eventuali azioni esecutive).

Il termine di sei anni risulterebbe comunque inadeguato nei casi in cui, tra i beni appresi alla procedura, vi siano siti contaminati da avviare a risanamento ambientale, anche tenuto conto che le relative attività fanno capo ad amministrazioni su cui gli organi della procedura non hanno poteri impositivi.

Il comma 2-bis avrebbe introdotto un automatismo in forza del quale, una volta superato il termine di sei anni, la durata della procedura risulterebbe sempre irragionevole, così svuotando di significato il disposto del comma 2 dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001.

1.4.1.– La norma censurata si porrebbe in contrasto altresì con l’art. 24 Cost., in quanto indurrebbe gli organi della procedura a non promuovere giudizi recuperatori, per rispettare il termine di ragionevole durata e non incorrere in responsabilità, con conseguente pregiudizio dei diritti dei creditori concorsuali.

1.4.2.– La previsione del termine fisso sarebbe comunque incompatibile, per il tramite dell’ art. 117, primo comma, Cost., con l’art. 6 CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, secondo cui la ragionevolezza della durata del processo deve essere valutata alla luce delle circostanze del caso concreto.

2.– Occorre in primo luogo valutare la sopravvenienza normativa costituita dal nuovo testo dell’art. 213, comma 9, del d.lgs. n. 14 del 2019, che l’Avvocatura dello Stato ha segnalato ai fini della restituzione degli atti al giudice a quo.

2.1.– Il comma 9 dell’art. 213 del d.lgs. n. 14 del 2019 non era presente nel testo originario della disposizione ed è stato aggiunto dall’art. 29, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 17 giugno 2022, n. 83, recante «Modifiche al codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza di cui al decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14, in attuazione della direttiva (UE) 2019/1023 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019, riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva, l’esdebitazione e le interdizioni, e le misure volte ad aumentare l’efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione, e che modifica la direttiva (UE) 2017/1132 (direttiva sulla ristrutturazione e sull’insolvenza)», con disposizione che stabiliva: «[s]e il curatore ha rispettato i termini di cui al comma 5, nel calcolo dei termini di cui alla legge 24 marzo 2001, n. 89, non si tiene conto del tempo necessario per il completamento della liquidazione».

In seguito, con il d.lgs. n. 136 del 2024, successivo all’ordinanza di rimessione e segnalato dalla difesa statale, il legislatore ha sostituito il comma 9, che oggi prevede: «[q]uando il curatore ha rispettato i termini, originari o differiti, di cui al comma 5, secondo periodo, nel calcolo dei termini di cui alla legge 24 marzo 2001, n. 89, non si tiene conto del tempo necessario per il completamento della liquidazione».

La disposizione interviene a neutralizzare, ai fini della ragionevole durata, il «tempo necessario per il completamento della liquidazione», subordinatamente al rispetto da parte del curatore dei termini previsti nel medesimo art. 213, rubricato «Programma di liquidazione», il quale scandisce tutta l’attività degli organi della procedura a partire dalla redazione dell’inventario.

2.2.– Per quanto qui di rilievo, si deve precisare che la disposizione citata si inserisce nel corpus normativo costituito dal d.lgs. n. 14 del 2019, il cui regime di applicazione, ratione temporis, è disciplinato dall’art. 390, comma 2, dello stesso decreto, secondo cui «[l]e procedure di fallimento e le altre procedure di cui al comma 1, pendenti alla data di entrata in vigore del presente decreto […] sono definite secondo le disposizioni del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché della legge 27 gennaio 2012, n. 3».

Se, dunque, per espressa previsione del legislatore, la disciplina dettata dal codice della crisi d’impresa non opera nelle procedure concorsuali antecedenti alla sua entrata in vigore, a fortiori tale conclusione si impone per le disposizioni che, modificandolo o integrandolo, si innestano su detto codice.

Risulta pertanto ininfluente l’art. 56, comma 4, del d.lgs. n. 136 del 2024, richiamato dall’Avvocatura dello Stato, che regola unicamente – e non potrebbe essere altrimenti – il regime di applicazione delle modifiche e/o integrazioni apportate ai procedimenti già regolati dal predetto codice.

2.3.– In definitiva, non vi è un’incidenza diretta della disposizione sopravvenuta sul quadro normativo rilevante per il giudizio principale, la cui procedura presupposta è antecedente all’entrata in vigore del codice della crisi d’impresa e come tale esclusa dall’applicazione della relativa disciplina, sicché non ricorrono i presupposti della restituzione degli atti al giudice a quo (ex plurimis, sentenze n. 40 e n. 27 del 2025 e n. 54 del 2024).

3.– Si deve ora valutare l’eccezione di inammissibilità delle questioni, formulata dall’Avvocatura dello Stato, quanto alla rilevanza delle stesse.

Il giudice a quo avrebbe omesso di esaminare le circostanze, pure riferite nell’ordinanza di rimessione, relative al comportamento dei ricorrenti nel giudizio presupposto nella fase di accertamento del passivo. Costoro, infatti, diversamente da altri ex dipendenti, non avevano utilizzato il modello di facsimile messo a disposizione dalla curatela per la domanda di ammissione al passivo e avevano commesso errori nella redazione delle domande, così ritardando l’accertamento delle relative spettanze. Si tratterebbe di circostanze in grado di incidere sulla durata della procedura, e, pertanto, potenzialmente idonee a fondare il diniego dell’indennizzo, sicché il rimettente, non prendendo posizione sul punto, non avrebbe dimostrato di non poter prescindere dall’applicazione della disposizione sospettata di illegittimità costituzionale per definire il giudizio.

3.1.– L’eccezione non è fondata.

È vero che la mancanza di diligenza della parte che lamenti il pregiudizio da irragionevole durata è idonea a escludere, in tutto o in parte, il diritto all’equo indennizzo. L’art. 2, comma 2, della legge n. 89 del 2001 impone, infatti, al giudice dell’equa riparazione di valutare, ai fini dell’accertamento della violazione, anche il comportamento delle parti, che rileva nella misura in cui abbia determinato un ingiustificato allungamento dei tempi del processo, potendosi perfino escludere il diritto all’equo indennizzo quando il ritardo imputabile a quel comportamento assorba l’intero periodo eccedente.

Tuttavia, la situazione rappresentata dal rimettente restituisce un quadro dell’andamento della procedura da cui emerge, in modo chiaro, che le ragioni del ritardo sono riconducibili alla particolare complessità della procedura stessa.

Seppure implicitamente, il giudice a quo ha escluso l’incidenza causale, sulla durata della procedura, del comportamento dei creditori oggi ricorrenti per l’equo indennizzo, e ciò è sufficiente per ritenere la norma censurata rilevante ai fini della definizione del giudizio principale (ex plurimis, sentenze n. 160 del 2023 e n. 254 del 2020).

Peraltro, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, non è necessario – ai fini della rilevanza di una questione – che il suo accoglimento determini un esito diverso da quello cui si perverrebbe in applicazione della disposizione censurata, essendo sufficiente che esso necessariamente influisca sull’iter motivazionale che dovrà condurre alla decisione (ex plurimis, sentenze n. 52 del 2025, n. 135 e n. 122 del 2024).

4.– Nel merito le questioni non sono fondate con riferimento a tutti i parametri evocati.

4.1.– Il rimettente muove, innanzi tutto, da un erroneo presupposto interpretativo rispetto alle questioni dedotte con riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU.

La giurisprudenza di legittimità consolidata, che costituisce diritto vivente, ha infatti introdotto un temperamento alla previsione contenuta nel comma 2-bis, ritenendo “tollerabile”, nel caso di procedura concorsuale di notevole complessità, una durata di sette anni (ex plurimis, Corte di cassazione, seconda sezione civile, ordinanza 25 luglio 2023, n. 22340, con ampi richiami ai precedenti, e ordinanza n. 31274 del 2022), secondo lo standard ricavato dalle pronunce della Corte EDU, che trovava applicazione già prima dell’intervento con cui il legislatore del 2012 ha fissato i termini di durata ragionevole.

Il temperamento introdotto in via interpretativa, peraltro, impone al giudice dell’equa riparazione di dare conto delle ragioni della “notevole complessità” della procedura, a loro volta desunte dalla giurisprudenza della Corte EDU, quali il numero dei creditori, la particolare natura o situazione dei beni da liquidare (ad esempio partecipazioni societarie, beni indivisi), la proliferazione di giudizi connessi, la pluralità di procedure concorsuali interdipendenti.

Le richiamate pronunce di legittimità non mancano di precisare che il giudice dell’equa riparazione non ha discrezionalità nella determinazione della congruità del termine di ragionevole durata, come chiarito da questa Corte nella sentenza n. 36 del 2016, fermo restando che, in presenza delle anzidette caratteristiche, è tollerabile una durata della procedura concorsuale fino a sette anni.

Il giudice a quo censura, dunque, il comma 2-bis dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, come interpretato dal diritto vivente, senza coglierne l’effettiva portata, poiché imputa a quest’ultimo di avere inteso il termine ivi fissato in modo rigido, per effetto del quale, superati sei anni, la procedura concorsuale produrrebbe sempre e comunque la lesione del diritto alla ragionevole durata.

Si tratta di un errore di ricognizione che invalida il presupposto dal quale muovono le censure orientate a stigmatizzare l’inadeguatezza del termine e l’automatismo che governerebbe l’accertamento della ragionevole durata delle procedure concorsuali.

5.– La non fondatezza delle questioni trova conferma, peraltro, dall’esame dei precedenti di questa Corte sul tema.

La previsione contenuta nel comma 2-bis è stata, invero, già oggetto di scrutinio, in particolare nella sentenza n. 36 del 2016 – richiamata anche dal rimettente e dalla difesa dello Stato – e più di recente nella sentenza n. 205 del 2023.

5.1.– Dopo aver premesso che i termini di durata fissati nel comma 2-bis non si sottraggono al sindacato di costituzionalità sul profilo della loro congruità, la sentenza n. 36 del 2016 ha chiarito ch’essa va valutata avendo come punto di riferimento la giurisprudenza della Corte EDU.

In applicazione di tale principio, la stessa sentenza ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 2-bis nella parte in cui prevedeva un termine di ragionevole durata dei giudizi originati dal ritardo nella definizione di precedenti giudizi di equa riparazione (cosiddetta Pinto su Pinto) che risultava “eccessivo” rispetto allo standard ricavabile dalla giurisprudenza della Corte EDU.

Pur se intervenuta sulla indicata peculiare tipologia di processi, la sentenza n. 36 del 2016 ha chiarito, sul piano interpretativo, che i termini di durata fissati nel comma 2-bis non costituiscono meri parametri di riferimento, bensì termini inderogabili con i quali il legislatore ha sottratto alla discrezionalità giudiziaria la determinazione della ragionevole durata, per affidarla invece a una previsione legale di carattere generale.

Più in particolare, è stato affermato che l’art. 6 CEDU – il cui significato si forma attraverso la costante giurisprudenza della Corte EDU (sentenze n. 348 e n. 349 del 2007) – «preclude al legislatore nazionale, che abbia deciso di disciplinare legalmente i termini di ragionevole durata dei processi ai fini dell’equa riparazione, di consentire una durata complessiva del procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001 pari a quella tollerata con riguardo agli altri procedimenti civili di cognizione, anziché modellarla sul calco dei più brevi termini indicati dalla stessa Corte di Strasburgo e recepiti dalla giurisprudenza nazionale». Il richiamo ai «più brevi termini», riferito a quello allora sottoposto allo scrutinio di questa Corte, non inficia la portata dell’affermazione che, per qualsiasi termine, rimanda al modello di durata strutturato dalla Corte EDU.

5.2.– Questa Corte è tornata a pronunciarsi sul comma 2-bis nella sentenza n. 205 del 2023, avente a oggetto la durata dei procedimenti di protezione internazionale, che era ed è equiparata a quella di ogni altro procedimento civile di cognizione. I giudici rimettenti ritenevano eccessivo quel termine sul rilievo che l’individuazione della ragionevole durata non potrebbe prescindere dalle caratteristiche e dalla natura del procedimento, come ripetutamente affermato dalla Corte di Strasburgo in sede di interpretazione dell’art. 6 CEDU.

La sentenza n. 205 del 2023 ha dichiarato le questioni non fondate, stante l’assenza di elementi ricavabili dalla costante giurisprudenza della medesima Corte dai quali desumere che i giudizi in materia di protezione internazionale debbano avere uno statuto differenziato, quanto alla durata, rispetto agli altri giudizi di cognizione.

6.– Discende dalle richiamate pronunce il principio che, se il termine di ragionevole durata fissato dal legislatore nazionale è modellato sulla giurisprudenza della Corte EDU, non sono ravvisabili violazioni del parametro convenzionale. Questa conclusione ridonda sul giudizio di compatibilità costituzionale del termine di volta in volta sottoposto a scrutinio anche sotto il profilo della ragionevolezza.

Si è già detto dell’assenza di automatismo.

Inoltre, per effetto del temperamento introdotto dal diritto vivente per le procedure più complesse, perde di significato anche l’argomento della irrazionale coincidenza tra il termine di ragionevole durata fissato per le procedure concorsuali e quello previsto per la durata complessiva dei giudizi di cognizione, senza dire che l’argomento risulta comunque eccentrico rispetto alla richiesta formulata dal rimettente. L’inconveniente lamentato – durata eccessiva della procedura come conseguenza della durata dei giudizi in cui essa sia coinvolta – potrebbe prodursi anche in caso di promovimento di un unico giudizio da parte degli organi della procedura, che non diventerebbe per ciò stesso una procedura complessa, e dunque meritevole di beneficiare di un termine di durata maggiore.

7.– Del resto il termine di ragionevole durata delle procedure concorsuali, indicato nel comma 2-bis, risulta in linea con lo standard della Corte EDU e non produce alcun automatismo, posto che il diritto all’equo indennizzo non sorge per il solo effetto del superamento dei termini di durata.

Un esame anche sommario delle disposizioni della legge n. 89 del 2001 conferma tale assunto.

7.1.– Accanto alla previsione dei termini di durata – con i quali il legislatore ha implicitamente confermato lo schema presuntivo elaborato prima del 2012 dalla giurisprudenza di legittimità per stabilire gli standard di durata in conformità alla giurisprudenza convenzionale – è rimasta ferma la disposizione di cui all’art. 2, comma 2, che affida l’accertamento della violazione del termine al giudice dell’equa riparazione, previa valutazione di una serie di elementi in esito alla quale può ritenere insussistente il diritto all’equo indennizzo, malgrado l’oggettiva durata del giudizio presupposto.

I commi 2-quinquies e 2-sexies dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001 contengono poi una tipizzazione di circostanze idonee a rovesciare la presunzione che, una volta superato il termine di ragionevole durata, si configura il diritto all’equa riparazione. In particolare, è valorizzato il principio di autoresponsabilità, che può portare a escludere il diritto all’equo indennizzo quando la parte abbia dato causa al ritardo con comportamenti dilatori, così da recidere il nesso di causalità tra l’amministrazione del processo e il ritardo maturato (ex plurimis, Corte di cassazione, sesta sezione civile, ordinanza 15 dicembre 2020, n. 28498).

Ulteriormente, l’art. 2-bis della legge n. 89 del 2001 affida al giudice dell’equa riparazione la quantificazione dell’indennizzo, che viene in tal modo calibrata sul caso concreto una volta che sia accertata la violazione della ragionevole durata.

7.2.– Con riferimento specifico alla durata delle procedure concorsuali, a fronte della domanda di indennizzo da parte del creditore concorsuale, il giudice dell’equa riparazione deve procedere al computo della durata della procedura presupposta a partire dall’accertamento del diritto di credito (ex plurimis, Corte di cassazione, seconda sezione civile, ordinanza 5 gennaio 2024, n. 324) e fino a quando il creditore sia stato integralmente soddisfatto o, in caso di mancato pagamento per incapienza, fino al decreto di chiusura del fallimento (ex plurimis, Corte di cassazione, sesta sezione civile, sentenza 26 gennaio 2017, n. 2013 e, seconda sezione civile, ordinanza 29 marzo 2018, n. 7864).

La durata eccedente il termine di sei anni, per le procedure di media complessità, o di sette anni, per quelle di notevole complessità, determina il sorgere del diritto all’equo indennizzo in capo al creditore, sempre che la parte che lamenti l’irragionevole durata non abbia dato causa al ritardo.

Non è previsto, invece, che il giudice dell’equa riparazione possa sottrarre dal computo il tempo occorso per attività, quali gli interventi di bonifica e risanamento ambientale, che si siano rese necessarie nel corso della procedura, così come non è prevista la sottrazione del tempo occorso per definire i giudizi collegati alla procedura.

Quanto al primo profilo, si deve osservare che la mancanza di strumenti normativi di coordinamento tra le esigenze riconducibili, da un lato, alla tutela dell’ambiente e, dall’altro lato, alla definizione della procedura concorsuale in tempi ragionevoli, integra il deficit di regolazione che rientra tipicamente nel novero delle “disfunzioni” organizzative in grado di produrre l’irragionevole durata, e di cui lo Stato è chiamato a rispondere ex post attraverso il riconoscimento dell’equo indennizzo a chi, come i creditori concorsuali, abbia patito l’irragionevole durata della procedura. È questo, del resto, il sillogismo alla base dell’art. 6 CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo.

Con riferimento al rapporto tra la procedura concorsuale e i giudizi a essa collegati, il legislatore è intervenuto sulla legge fallimentare, con norme applicabili anche alle procedure pendenti, disponendo che le controversie di cui è parte un fallimento sono trattate con priorità, e consentendo, a certe condizioni, la chiusura della procedura in pendenza di giudizi (artt. 43 e 118 della legge fallimentare, come modificati dal d.l. n. 83 del 2015, come convertito). In disparte l’efficacia risolutiva degli interventi, è significativo che il legislatore non abbia modificato la legge n. 89 del 2001, rivolgendo l’attenzione alla disciplina concorsuale. Scelta confermata dalla disciplina del codice della crisi d’impresa, introdotta con il d.lgs. n. 14 del 2019, orientato alla rapida definizione delle fasi della procedura che precedono la liquidazione dell’attivo.

7.3.– Quanto al denunciato vulnus all’art. 24 Cost., muove anch’esso da un presupposto erroneo.

La responsabilità degli organi della procedura per il ritardo con cui siano stati soddisfatti i creditori concorsuali ovvero, in caso di incapienza, sia stata chiusa la procedura, esula dalle finalità perseguite dai rimedi avverso la violazione del termine di ragionevole durata del processo di cui all’art. 6, paragrafo 1, CEDU. Essa trova appropriata ed effettiva risposta nel ricorso ad altre azioni e in altre sedi, come chiarito da questa Corte nella sentenza n. 249 del 2020, ove si accertino condotte gravemente negligenti, e dunque non consegue per il solo oggettivo ritardo.

8.– In conclusione, vanno quindi dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2021 in riferimento a tutti i parametri evocati.

 

 

 

 

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