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*Responsabilità civile – Perdita di chance di sopravvivenza e diritto al risarcimento del danno, presupposti e limiti

by Dott.ssa Miriam Vettese
18 Settembre 2025
in Diritto Civile
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Tribunale di Urbino, sentenza 19 giugno 2025, n. 144

PRINCIPIO DI DIRITTO

In tema di responsabilità sanitaria, la perdita di chance di sopravvivenza costituisce un autonomo evento di danno risarcibile, qualificabile come lesione non patrimoniale consistente nella privazione di un risultato sperato, incerto ed eventuale (maggiore durata della vita o minori sofferenze), purché la possibilità perduta sia apprezzabile, seria e consistente. La prova del nesso causale deve essere valutata secondo il criterio civilistico del “più probabile che non”, fermo restando che l’attore deve dimostrare, anche a mezzo di presunzioni, la relazione causale tra condotta colposa e perdita della chance, mentre incombe sul convenuto dimostrare l’adempimento diligente o l’impossibilità della prestazione per causa non imputabile. È esclusa la risarcibilità iure hereditatis del danno da perdita della vita (c.d. danno tanatologico), mentre restano configurabili e trasmissibili agli eredi il danno da perdita di chance, nonché – ricorrendone i presupposti – il danno biologico “terminale” e il danno morale da lucidità agonica. Il danno parentale iure proprio è risarcibile anche nella forma della perdita di chance di prosecuzione del rapporto, valutata equitativamente secondo parametri tabellari

TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE

  1. Con ricorso ex art. 702 bis, è stato convenuto in giudizio A.M. (ora A.A.) per il riconoscimento della responsabilità sanitaria per il decesso di A.R., figlio della attrice, per ivi accertare la responsabilità e quindi ottenere la condanna al risarcimento dei danni subiti.
  2. Con ricorso ex art. 696 bis c.p.c. notificato in data 12.12.2018 la sig.ra D.S., madre di A.R. ed unica congiunta, aveva promosso azione di ATP per accertare la responsabilità medica dell’A. in ordine al decesso di A.R..
  3. Il tenore letterale dell’art. 3 comma 1 della legge B. e l’intenzione del legislatore conducono a ritenere che la responsabilità del medico (e quella degli altri esercenti professioni sanitarie) per condotte che non costituiscono inadempimento di un contratto d’opera (diverso dal contratto concluso con la struttura) venga ricondotta dal legislatore del 2012 alla responsabilità da fatto illecito ex art. 2043 c.c. e che, dunque, l’obbligazione risarcitoria del medico possa scaturire solo in presenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito aquiliano che il danneggiatoha l’onere di provare. In ogni caso l’alleggerimento della responsabilità (anche) civile del medico “ospedaliero”, che deriva dall’applicazione del criterio di imputazione della responsabilità risarcitoria indicato dalla legge B. (art. 2043 c.c.), non ha alcuna incidenza sulla distinta responsabilità della struttura sanitaria pubblica o privata (sia essa parte del S.S.N. o una impresa privata non convenzionata), che è comunque di tipo “contrattuale” ex art. 1218 c.c. (sia che si ritenga che l’obbligo di adempiere le prestazioni per la struttura sanitaria derivi dalla legge istitutiva del S.S.N. sia che si preferisca far derivare tale obbligo dalla conclusione del contratto atipico di “spedalità” o “assistenza sanitaria” con la sola accettazione del paziente presso la struttura) Pertanto, l’azione per l’accertamento della responsabilità della struttura sanitaria in ordine al risarcimento del danno avanzato dal danneggiato, risponde ai canoni della responsabilità contrattuale e x art. 1218 c.c., il cui onere probatorio implica che il creditore che abbia provato la fonte del suo credito ed abbia allegato che esso sia rimasto totalmente o parzialmente insoddisfatto, non è altresì onerato di dimostrare l’inadempimento o l’inesatto adempimento del debitore,spettando a quest’ultimo la prova dell’esatto adempimento (Cass. Sez. Un., 30 ottobre 2001, n. 13533; Cass. 11 febbraio 2021, n. 3587). In particolare, con precipuo riferimento alle fattispecie di inadempimento delle obbligazioni professionali – tra le quali si collocano quelle di responsabilità medica – la Cassazione ha da tempo chiarito che è “onere del creditore-attore dimostrare, oltre alla fonte del suo credito (contratto o contatto sociale), l’esistenza del nesso causale, provando che la condotta del professionista è stata, secondo il criterio del più probabile che non (Cass. 7 dicembre 2017, n. 29315; Cass. 15 febbraio 2018, n. 3704; cass. 20 agosto 2018, n. 20812), mentre è onere del debitore dimostrare, in alternativa all’esatto adempimento, l’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l’inadempimento (o l’inesatto adempimento) è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l’ordinaria diligenza. Il concetto di imprevedibilità va inteso nel senso oggettivo della “non imputabilità ex art. 1218 c.c., in quanto la non prevedibilità dell’evento, che si traduce nell’assenza di negligenza, imprudenza o imperizia nella condotta dell’agente, è giudizio che appartiene alla sfera dell’elemento soggettivo dell’illecito, in funzione della sua esclusione, e che prescinde dalla configurabilità, sul piano oggettivo, di una relazione causale tra condotta ed evento dannoso.” (Cass. Civ. Sez. III sentenza n. 10050/2022).
  4. Nelle responsabilità per inadempimento delle obbligazioni professionali, l’evento di danno, consiste nella lesione dell’interesse finale del creditore, distinto dalla lesione dell’interesse strumentale di cui all’art. 1174 c.c., consistente nell’esecuzione della prestazione professionale secondo le leges artis ed il nesso di causalità materiale rientra nel tema di prova di spettanza del debitore, mentre il debitore, ove il primo abbia assolto il proprio onere, resta gravato da quello di dimostrare la causa imprevedibile ed inevitabile dell’impossibilità dell’esattaesecuzione della prestazione. Nel caso in cui, come quello in esame, si faccia valere la responsabilità del medico e della struttura sanitaria per i danni derivati al paziente da un intervento che si assume svolto in spregio alle leges artis, “l’attore è tenuto a provare, anche attraverso presunzioni, il nesso di causalità materiale intercorrente tra la condotta del medico e l’evento dannoso, consistente nella lesione della salute e nelle altre lesioni ad essa connesse; è invece onere del convenuto, ove ilpredetto nesso di causalità materiale sia stato dimostrato, provare o di avere eseguito la prestazione con la diligenza, la prudenza o la perizia richieste dal caso concreto, o che l’inadempimento (o l’inadempimento inesatto) è dipeso dall’impossibilità dieseguirla esattamente per causa ad essi non imputabile (Cass. 26 novembre 2020, n. 26907).” (Cass. Civ. Sez. III sentenza n. 10050/2022). Secondo i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità, la prova della sussistenza del nesso causale tra condotta ed evento dannoso assume connotazioni proprie e diverse rispetto a quelle che regolano l’accertamento causale nel processo penale, in virtù della diversa funzione svolta dal sistema della responsabilità civile: non già quella di sanzionare un comportamento colpevole a fronte della commissione di un reato, bensì, in primis, quella di riparare un danno. Sul punto varie pronunce hanno precisato che: “In tema di responsabilità civile, il nesso causale è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., per il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all’interno della serie causale, occorredar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano – ad una valutazione “ex ante” – del tutto inverosimili, ferma restando, peraltro, la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: nel senso che, nell’accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, mentre nel processo penale vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”. Ne consegue, con riguardo alla responsabilità professionale del medico, che, essendo quest’ultimo tenuto a espletare l’attività professionale secondo canoni di diligenza e di perizia scientifica, il giudice, accertata l’omissione di tale attività, può ritenere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissione sia stata causa dell’evento lesivo e che, per converso, la condotta doverosa, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito il verificarsi dell’evento stesso.” (Cass. civ. n. 16123/2010; cfr anche Cass. S.U. n. 576/2008).
  5. Da quanto esposto, discende la necessità di accertare la relazione tra la condotta, attiva o omissiva del danneggiante e l’evento dannoso, sulla base della regola del “più probabile che non”, che impone di considerare sussistente il nesso causale quando, attraverso un criterio necessariamente probabilistico, si possa ritenere che l’opera del medico, se correttamente e prontamente prestata, avrebbe avuto fondate probabilità di evitare l’evento dannoso, superiori a quelle opposte. Inoltre, l’attività del giudice deve tenere distinta la dimensione della causalità da quella dell’evento di danno e deve adeguatamente valutare il grado di incertezza dell’una e dell’altra, muovendo dalla previa e necessaria indagine sul nesso causale tra la condotta e l’evento, secondo il criterio civilistico del “piu’ probabile che non”, e procedendo, poi, all’identificazione dell’evento di danno. Provato il nesso causale rispetto ad un evento di danno accertato nella sua esistenza e nelle sue conseguenze dannose risarcibili, il risarcimento di quel danno sarà dovuto integralmente. Al contrario, l’incertezza del risultato sperato è posta alla base della risarcibilità della chance perduta (Cass., n. 12906 del 26/06/2020, a titolo esemplificativo). In particolare, con particolare riferimento alla domanda di risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale, la Suprema Corte (Sez. 3, Sentenza n. 28993 del 11/11/2019) ha elaborato i seguenti principi: – la domanda giudiziale che configuri una ipotesi di danno da perdita di chance di sopravvivenza (fatto valere dai congiunti della vittima iure hereditatis) e un danno da perdita di chance di godere del rapporto parentale fatto valere dai parenti iure proprio, ripete il suo autonomo fondamento (e la autonomia del conseguente petitum processuale) in ragione dell’incertezza sull’anticipazione dell’evento morte; – le stesse pretese si tramutano, di converso, in domanda di risarcimento tout court del danno da perdita anticipata del rapporto parentale, ove sia certo e dimostrabile, sul piano eventistico, che la condotta illecita abbia cagionato l’anticipazione dell’evento fatale,. L’evento di danno e’ costituito dalla perdita anticipata della vita e dall’impedimentoa vivere il tempo residuo in condizioni migliori e consapevoli. La medesima pronuncia (Cass. n. 28993/2019 cit.) ha poi enucleato le seguenti ipotesi: “A) La condotta (commissiva o piu’ spesso omissiva) colpevolmente tenuta dal sanitario ha cagionato la morte del paziente, mentre una diversa condotta (diagnosi corretta e tempestiva) ne avrebbe consentito la guarigione (…). In tal caso l’evento (conseguenza del concorso di due cause, la malattia e la condotta colpevole) sara’ attribuibile interamente al sanitario, chiamato a rispondere del danno biologico cagionato al paziente e del danno da lesione del rapporto parentale cagionato ai familiari. B) La condotta colpevole ha cagionato non la morte del paziente (che si sarebbe comunque verificata) bensì una significativa riduzione della durata della sua vita ed una peggiore qualità della stessa per tutta la sua minor durata (…). In tal caso il sanitario sarà chiamato a rispondere dell’evento di danno costituito dalla perdita anticipata della vita e dalla sua peggior qualita’, senza che tale danno integri una fattispecie di perdita di chance – senza, cioe’, che l’equivoco lessicale costituito dal sintagma “possibilita’ di un vita piu’ lunga e di qualita’ migliore” incida sulla qualificazione dell’evento, caratterizzato non dalla “possibilita’ di un risultato migliore”, bensi’ dalla certezza (o rilevante probabilita’) di aver vissuto meno a lungo, patendo maggiori sofferenze fisiche e spirituali. C) La condotta colpevole del sanitario non ha avuto alcuna incidenza causale sullo sviluppo della malattia, sulla sua durata e sull’esito finale, rilevando di converso, in pejus, sulla sola (e diversa) qualita’ ed organizzazione della vita del paziente (anche sotto l’aspetto del mancato ricorso a cure palliative): l’evento di danno (e il danno risarcibile) sara’ in tal caso rappresentato da tale (diversa e peggiore) qualita’ della vita (intesa altresi’ nel senso di mancata predisposizione e organizzazione materiale e spirituale del proprio tempo residuo), conseguente alla lesione del diritto di autodeterminazione, purche’ allegato e provato (senza che, ancora una volta, sia lecito evocare la fattispecie della chance). D) La condotta colpevole del sanitario non ha avuto alcuna incidenza causale sullo sviluppo della malattia, sulla sua durata, sulla qualita’ della vita medio tempore e sull’esito finale. La mancanza, sul piano eziologico, di conseguenze dannose della pur colpevole condotta medica impedisce qualsiasi risarcimento. E) La condotta colpevole del sanitario ha avuto, come conseguenza, un evento di danno incerto: le conclusioni della CTU risultano, cioe’, espresse in termini di insanabile incertezza rispetto all’eventualita’ di maggior durata della vita e di minori sofferenze, ritenute soltanto possibili alla luce delle conoscenze scientifiche e delle metodologie di cura del tempo. Tale possibilita’ – i.e. tale incertezza eventistica (la sola che consenta di discorrere legittimamente di chance perduta) – sara’ risarcibile equitativamente, alla luce di tutte le circostanze del caso, come possibilità perduta – se provato il nesso causale, secondo gli ordinari criteri civilistici tra la condotta e l’evento incerto (la possibilita’ perduta) – ove risultino comprovate conseguenze pregiudizievoli (ripercussioni sulla sfera non patrimoniale del paziente) che presentino la necessaria dimensione di apprezzabilita’, serieta’, consistenza”. Il CTU, nel caso di specie, ha previamente riportato la storia clinica del paziente, esponendo: ” il Sig. A.R., di anni 49, all’epoca dei fatti oggetto della presente valutazione ed affetto da encefalopatia familiare ed epilessia in trattamento farmacologico (con topiramato, dintoina e levetiracetam) dall’età di tre anni, accedeva presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale di Fossombrone a causa dell’insorgenza da alcuni giorni di iperpiressia (temperatura corporea 39 C) associata ad agitazione e difficoltà nel dormire. Previa somministrazione di terapia antibiotica ed antipiretica, il paziente era trasferito in ambulanza presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale di Urbino (22 luglio 2015), e da qui ricoverato in medesima giornata presso il Reparto di Medicina dell’Ospedale di Sassocorvaro con diagnosi di febbre ed epatite di ndd. La diagnosi di dimissione dall’Ospedale di Fossombrone era di ” iperpiressia persistente e resistente a terapia antipiretica, antibiotica ed antifungina ad ampio spettro in paziente con epilessia farmaco-resistente (in terapia con Topiramato, Levetiracetam e Difenilidantoina) su encefalopatia familiare, minimo versamentopleurico basale, anemia macrocitica, lieve piastrinopenia, lieve iponatriemia, steatosi epatica.” Durante la degenza presso il nosocomio di Fossombrone il consulente neurologo invitava a valutare l’ipotesi di una febbre iatrogena da Topiramato con il suggerimen-to di uno switch terapeutico graduale da Topiramato a Valproato e il trasferimento in un Reparto Neurologico.Dopo tre giorni di permanenza presso il suddetto nosocomio, in data 25 Luglio 2015, il paziente era quindi trasferito, iperpiretico, presso l’U.O. di Medicina dell’Ospedale di Fossombrone, ove permaneva fino al giorno 1 Agosto 2018, allor-quando era ulteriormente trasferito, ancora febbrile, presso l’U.O. di Medicina Genera-le e Lungodegenza dell’Ospedale di Urbino. Ivi permaneva, in condizioni cliniche in progressivo peggioramento, fino alle prime ore del giorno 9 Agosto 2015, allorquando ne era constatato il decesso. Eseguito riscontro diagnostico, era posta diagnosi di “prostatite acuta; ipertermia; insufficienza multiorgano; edema polmonare terminale”. In particolare, l’esame del cervello non presentava alterazioni macroscopiche e microscopiche di rilievo.
  6. È importante ricordare come il paziente avesse presentato una temperatura corporea superiore a 38 C persistente e resistente alle terapie praticate. Ciò significa che, alla luce del decorso clinico e del reperto autoptico, il caso può essere inquadrato in una F. (febbre di origine sconosciuta). Merita una sottolineatura, tuttavia, l’ipotesi patogenetica di una febbre centraleda un farmaco antiepilettico, il Topiramato che il paziente assumeva da lungo tempo, in associazione con altri antiepilettici, per una severa forma di epilessia. In letteratura sono certamente presenti segnalazioni della possibilità che il Topi-ramato sia responsabile di febbre centrale (Z., 2005), tuttavia, numerosi case-reports sottolineano come caratteristica la presenza di ipoidrosi in corso di iperpires-sia (D.C. 2003) , mentre durante l’accertamento peritale una congiunta del pa-ziente ha ribadito la occorrenza di sudorazione profusa da parte del paziente. Quanto sopra quindi ridimensiona anche l’ipotesi iatrogena formulata. Inoltre, in corso di degenza il signor A.R. veniva sottoposto a molte-plici indagini laboratoristiche e morfologiche (TAC ed ecografie) rivelatesi tutte incon-clusive in data 9 agosto 2015). Su tale scorta, richiamando la rassegna del B. best practice (ampliando quanto già chiaramente affermato nella precedente e citata rassegna del 2010) si apprende che “per i pazienti con F. in cui la diagnostica convenzionale non ha dato esito, la to-mografia ad emissione dipositroni con fluorodesossiglucosio dovrebbe essere considera-ta fra i primi strumenti diagnostici”. Tale assunto riprende, tra l’altro, la metanalisi sul valore della F.-PET/PET-CT nella valutazione della F. di Dong e coll. (2011), laddove gli Autori affermavano che la F.-PET possa essere un imaging più adatto degli imaging anatomico convenziona-le per la valutazione di F.. Inoltre l’integrazione tra F.-PET/CT permette un im-portante incremento di sensibilità e specificità nella diagnosi di F.. D’altra parte in letteratura già a partire dal 2007 (K. e coll. 2009, B. e coll, 2009 e c2010, V. 2010, H. e coll.2014,) si possono ritrovare lavori scientifici a favore di un ricorso precoce a questa metodica ad alta specificità e sensibilità, in caso di negati-vità della F. ai test diagnostici tradizionali. Va tuttavia anche detto che gli Scriventi CTU non sono a conoscenza di Linee Gui-da Regionali (nella fattispecie Regione Marche) o nazionali ufficialmente validate dalle Società S. che descrivano il percorso diagnostico terapeutico in caso di F., salvo ricordare una determina di AIFA (novembre 2012) che ha autorizzato specifi-camente l’uso del fluorodesossiglucosio per la diagnosi di F. in Italia in quanto tale diagnostica permetterebbe “l’individuazione di foci anomali che permettono la diagnosi eziologica in caso di febbre di origine sconosciuta”. Con riferimento pertanto al caso del Sig. A.R. si dà atto che il Pazien-te è stato sequenzialmente trasferito nei Reparti di Medicina Interna degli Ospedali di Sassocorvaro, Fossombrone ed Urbino fino al momento del decesso. Progressivamente si è fatta strada nei Sanitari la consapevolezza della gravità del quadro clinico, sempre più evidente malgrado la negatività di tutte le indagini espleta-te (intendendo per tutte quelle metodiche di indagine disponibili nelle sedi di ricove-ro, sedi da considerarsi periferiche in relazione alla complessità terapeutica del caso). Tuttavia non si è mai potuto fare accedere il paziente ad una Struttura Specialistica di Secondo Livello. Risultavano infatti inutili i contatti telefonici diretti con Reparti Spe-cialistici della Regione Marche per una asserita indisponibilità di posti letto nei Repar-ti interessati senza che fosse possibile elaborare una strategia d’urgenza per una pato-logia progressivamente ingravescente. Ciò ha fatto sì che una carente organizzazione a livello di A.V. N. 1 di A.M. abbia precluso al paziente la possibilità di accesso ad un più elevato livello di indagine, ricordando anche come presso il Policlinico di Ancona sia disponibile la me-todica di F.-PET/CT. In definitiva, una inadeguata gestione del caso clinico, sostenuta anche da un pale-se deficit di macroorganizzazione sanitaria dell’A.V. 1 di A.M. che di fatto ha precluso l’accesso ad una diagnostica efficace e disponibile all’interno dell’A. medesima,ha comportatouna concreta perdita di chances diagnostiche ed eventualmente anche terapeutiche per evitarne il decesso.” Il CTU pertanto concludeva che “emerge dall’indagine epicritica della storia clinicadel Sig. A.R. la sussistenza di un danno da perdita di chance di sopravvivenza rubricabile nell’ordine del 40%, in considerazione del tempo intercorso tra la possibile diagnosi ed il decesso.” In sede di osservazioni dei consulenti di parte, il CTU ha ribadito la sostanziale incertezza quanto all’evitabilità dell’evento in ragione della condotta alternativa, sebbene sottolineando la causalità del ritardo diagnostico in relazione alla morte del paziente :”totale della degenza”, quindi, è calcolabile nell’ordine di 18 giorni. Orbene, come ampiamente citato nella bibliografia di cui in CTU, affinché si possa ipotizzare in ottica ex ante la possibilità di una F. devono passare almeno 10 giorni di ricovero. Questo perché l’esecuzione di una specifica lista di indagini è da ammettersi dopo almeno 7 giorni di ricovero (cfr. pag. 15 della CTU) che nel caso di specie possono essere “allargati” ad almeno 10 giorni in quanto tra le ipotesi diagnostiche vi era anche la febbre centrale da Topiramato (farmaco assunto dal Degente) che prevedeva una osservazione clinica relativa alla sudorazione più attenta e prolungata. “Quanto sopra, ai fini di chiarezza tecnica, ci permette di rilevare come la condotta degli Specialisti dell’A.M. sia stata ineccepibile nei primi 10 giorni di sorveglianza clinico-assistenziale. Ciò significa che restano da giudicare eventi alternativi per i restanti 8 giorni di sopravvenuta (ipotetica) degenza presso il Policlinico di Ancona. Si è già scritto che “…Circa il 20% dei pazienti con F. documentata non hanno mai avuto una diagnosi certa, tuttavia, la prognosi è abitualmente favorevole: nella maggior parte dei casi la febbre si risolve spontaneamente in quattro o più settimane con necessi tà di un monitoraggio continuo ed attento fino al raggiungimento di una diagnosi o alla risoluzione spontanea della ipertermia…”. Continuando quindi nella nostra ipotetica ricostruzione il Sig. A.R. sarebbe arrivato presso il nosocomio di Ancona, laddove sarebbe stata formulata diagnosi di F. (sollecitata dal Dott. M.P. e dell’Avv. S. Leardini). Il problema di fondo rimane però il fatto che F. significa che siamo di fronte ad una patologia ancora non nota che esclude il riconoscimento della causa della febbre e la relativa terapia. Non ci vengono peraltro incontro le risultanze necroscopiche che parlano di edema polmonare ed insufficienza multi-organo, classici segni di collasso cardio-respiratorio terminale attribuibile – di fatto – a quasi tutte le patologie conosciute in ambito medico. In altri e più precisi termini, a circa 8 giorni dal decesso non si sarebbe ancora saputa la causa e/o l’origine della patologia (con relativo trattamento da praticarsi e sue eventuali possibilità curative). Trattasi, parafrasando la nota Sentenza della Corte di Cassazione, della “classica” condotta colpevole dei Sanitari che ha avuto, come conseguenza, un evento di danno incerto, da esprimesi in termini di insanabile incertezza, per quanto apprezzabile e consistente. D’altro canto la permanenza in una struttura ospedaliera di II livello per circa una settimana, pur essendo in presenza di patologia di media gravità (ricordando che la F. palesa nella maggior parte dei casi una evoluzione benigna anche in assenza di terapie mirate), fa ritenere con ragionevole attendibilità una perdita di chance di sopravvivenza di apprezzabile entità (da cui il Collegio ha derivato la percentuale del 40%). Si evidenzia che il CTU ipotizza che in caso di trasferimento in altra struttura sanitaria, il paziente avrebbe ricevuto cure adeguate, pur in carenza di Linee Guida regionali e nazionale. Tuttavia non si è mai potuto fare accedere il paziente ad una Struttura Specialistica di Secondo Livello. Risultavano infatti inutili i contatti telefonici diretti con Reparti Specialistici della Regione Marche per una asserita indisponibilità di posti letto nei Reparti interessati senza che fosse possibile elaborare una strategia d’urgenza per una patologia progressivamente ingravescente. Ciò ha fatto sì che una carente organizzazione a livello di A.V. N. 1 di A.M. abbia precluso al paziente la possibilità di accesso ad un più elevato livello di indagine, ricordando anche come presso il Policlinico di Ancona sia disponibile la metodica di F.-PET/CT. In definitiva, una inadeguata gestione del caso clinico, sostenuta anche da un palese deficit di macroorganizzazione sanitaria dell’A.V. 1 di A.M. che di fatto ha precluso l’accesso ad una diagnostica efficace e disponibile all’interno dell’A. medesima,ha comportato una concreta perdita di chances diagnostiche ed eventualmente anche terapeutiche per evitarne il decesso….”. Il paziente poteva essere comunque trasferito in altre strutture sanitarie, ed in ogni caso, visto che la condotta causale in termini di danno da perdita di chance è il ritardo diagnostico, l’azienda O.D.A., come dice il CTU a pag. 25 dell’elaborato peritale, è “deputata a questo tipo di indagini, che va chiaramente prevista ed inserita in un contesto diagnostico complessivo”.
  7. La condotta colpevole dei sanitari ha avuto come conseguenza un evento di danno incerto che è rappresentato dalla perdita di un’apprezzabile chance di sopravvivere in capo al paziente. La condotta medica ha presentato una significativa carenza, ovvero l’omesso trasferimento presso una struttura diagnostica di secondo livello per esami specifici in relazione alla patologia esistente, che avrebbero incrementato le chance di sopravvivenza del paziente, negli ultimi 8 giorni di degenza prima del decesso. Sebbene infatti sia stato constatato il corretto operato dei sanitari quanto ai primi dieci giorni di degenza, ed in ogni caso, la sostituzione del farmaco utilizzato sarebbe stata rischiosa in relazione allo sviluppo di ulteriori sintomi e patologie, una consulenza specialistica ed in particolare tramite la metodica di F.-PET/CT avrebbe aumentato le possibilità di successo quanto alla F., in relazione all’individuazione di specifiche terapie da adottare. Quindi, in ragione della conclusioni del CTU, è accertabile la lesione del diritto alla salute da responsabilità sanitaria, in relazione alla perdita di chances a carattere non patrimoniale consistente nella privazione della possibilità di un miglior risultato sperato, incerto ed eventuale (la maggiore durata della vita o la sopportazione di minori sofferenze) conseguente – secondo gli ordinari criteri di derivazione eziologica – alla condotta colposa del sanitario ed integra evento di danno risarcibile, da liquidare in via equitativa, soltanto ove la perduta possibilità sia apprezzabile, seria e consistente (Cassazione civile sez. III, 11/11/2019, n.28993).
  8. Esclusa la risarcibilità jure hereditatis di un danno da perdita della vita (Cass. SSUU 15350 del 2015), è diversamente configurabile e trasmissibile il danno subito dalla vittima nell’ipotesi in cui la morte sopravvenga dopo apprezzabile lasso di tempo dall’evento lesivo nella duplice componente di danno biologico “terminale”, cioè di danno biologico da invalidità temporanea assoluta (Cass. n. 26727 del 2018; Cass. n. 21060 del 2016; Cass. n. 23183 del 2014; Cass. n. 22218 del 2014) e di danno morale consistente nella sofferenza patita dalla vittima che lucidamente e coscientemente assiste allo spegnersi della propria vita (Cass. n. 13537 del 2014; Cass. n. 7126 del 2013; Cass. n. 2564 del 2012).
  9. Se va quindi esclusa la risarcibilità del danno da morte o “tanatologico” inteso come danno “da perdita della vita”, gli eredi possono invece chiedere ed ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale connesso alla lesione della salute quando la morte sia sopravvenuta dopo un apprezzabile lasso di tempo dalla lesione, tale da consentire il consolidamento dei postumi prima del decesso (lasso di tempo che di norma si ritiene sussistente per sopravvivenze superiori alle ventiquattro ore), con particolare apprezzamento della componente di sofferenza psichica (c.d. “danno morale catastrofale”) che deve ritenersi sussistente quando la vittima sia rimasta lucida e cosciente nell’intervallo (anche minimo) tra le lesioni e la morte, e sia stata dunque in condizione di percepire l’imminenza della propria fine (c.d. “lucidità agonica” o “formido mortis”: v. Cass. 18056/2019, Cass. 17577/2019, Cass. 16592/2019, Cass. 26727/2018, Cass. 21060/2016, Cass. 23183/2014, Cass. 22228/2014 e Cass. 15491/2014). La liquidazione del danno così enucleato può essere effettuata in via equitativa ex art. 1226 c.c. tenendo conto, per quanto riguarda la componente del danno biologico “terminale” dell’indennizzo da invalidità temporanea assoluta, e per il danno morale, della componente di personalizzazione che tenga conto dell’evoluzione della patologia e del grado di sofferenza patita. Invero, in tal senso, è noto che ” in tema di liquidazione del danno biologico jure successionis, il principio secondo cui l’ammontare del risarcimento deve essere parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato si applica nel solo caso in cui quest’ultimo sia deceduto per causa non ricollegabile alla menomazione conseguente all’illecito, mentre, laddove la morte sia intervenuta, dopo una temporanea sopravvivenza, in conseguenza dell’evento lesivo, la liquidazione va operata secondo le tecniche di valutazione probabilistica proprie del danno permanente (Cass. 32916/ 2022). Secondo l’orientamento espresso dalla Suprema corte di Cassazione, “la perdita di una persona cara implica necessariamente una sofferenza morale, la quale non costituisce un danno autonomo, ma rappresenta un aspetto – del quale tenere conto, unitamente a tutte le altre conseguenze, nella liquidazione unitaria ed omnicomprensiva – del danno non patrimoniale. Ne consegue che è inammissibile, costituendo una duplicazione risarcitoria, la congiunta attribuzione, al prossimo congiunto di persona deceduta in conseguenza di un fatto illecito costituente reato, del risarcimento a titolo di danno da perdita del rapporto parentale, del danno morale” (cassazione civile, Sez. III sentenza n. 12987/2022).
  10. Ciò detto, il danno parentale si configura anche in presenza di mera lesione del danno da perdita del rapporto parentale e che esso rappresenta un peculiare aspetto del danno non patrimoniale e consiste non già nella mera perdita delle abitudini e dei riti propri della quotidianità, bensì nello sconvolgimento dell’esistenza, rivelato da fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita, nonché nella sofferenza interiore derivante dal venir meno del rapporto e/o dall’inevitabile atteggiarsi di quel rapporto in modo differente (Cass. 28/09/2018, n. 23469 ); si tratta di danno non patrimoniale iure proprio del congiunto, il quale se ritenuto spettante in astratto, può essere allegato e dimostrato ricorrendo a presunzioni semplici, a massime di comune esperienza, al fatto notorio, dato che l’esistenza stessa del rapporto di parentela fa presumere la sofferenza del familiare (Cass. 30/08/2022, n.25541 ; Cass. 21/03/2022, n.9010; Cass. 24/04/2019, n.11212 , ex multis). (Cass. ordinanza n. 4571 del 14 febbraio 2023). Quindi il soggetto che chiede ” iure proprio” il risarcimento del danno subito in conseguenzadella uccisione di un congiunto per la definitiva perdita del rapporto parentale lamenta l’incisione di un interesse giuridico diverso sia dal bene salute, del quale è titolare (la cui tutela ex art. 32 Cost., ove risulti intaccata l’integrità psicofisica, si esprime mediante il risarcimento del danno biologico), sia dall’interesse all’integrità morale (la cui tutela, ricollegabileall’art. 2 Cost., ove sia determinata una ingiusta sofferenza contingente, si esprime mediante il risarcimento del danno morale soggettivo)”. Ciò detto, in termini di onere probatorio relativo alla perdita del rapporto parentale degli stretti congiunti, è insegnamento costante della Suprema Corte che il danno da perdita del rapporto parentale – quando si tratti del coniuge, del genitore, dei figli o dei fratelli – non necessiti di specifica prova da parte dei danneggiati, dovendo la liquidazione avvenire in base a valutazione equitativa che tenga conto dell’intensità del vincolo familiare, della convivenza e di ogni altra ulteriore circostanzaallegata. Sul punto, è stato condivisibilmente affermato che, “nel caso di morte di un prossimo congiunto (coniuge, genitore, figlio, fratello), l’esistenza stessa del rapporto di parentela deve far presumere, secondo l’id quod plerumque accidit, lasofferenza del familiare superstite, giacché tale conseguenza è per comune esperienza, di norma, connaturale all’essere umano. Naturalmente si tratterà pur sempre di u n a praesumptio hominis, con la conseguente possibilità per il convenuto di dedurre e provare l’esistenza di circostanze concrete dimostrative dell’assenza di un legame affettivo tra la vittima ed il superstite” (Cass. Civ., Sez. VI, 15/02/2018 – ud. 14/12/2017, n. 3767; Cass. Civ., Sez. III, 24/09/2019, n. 23632)”.
  11. Esclusa la risarcibilità del danno tanatologico (ed anche quello terminale, in considerazione dell’incertezza relativa al nesso causale con l’evento morte), l’unica voce che vapresa in considerazione, rispetto a quanto accertato dal CTU, è il danno da perdita di chance relativa alla sopravvivenza Il paziente al momento della morte aveva 49 anni; la vita media di un uomo, nel 2015 era di 80 anni; pertanto si calcola un’aspettativa di vita di altri 31 anni. Tuttavia, l’aspettativa di vita per un uomo affetto da epilessia può essere ridotta fino a dieci anni, per cui la soglia deve essere ridotta a 21. Al fine di individuare un parametro equitativo per stabilire il valore di un anno di vita del defunto si ritiene di poter utilizzare le Tabelle di Milano per la liquidazione della inabilità temporanea totale: si considera il valore massimo tabellare giornaliero relativo ad inabilità temporanea assoluta incrementato del 50% in ragione del fatto che il bene salute ed il bene vita non risultano sovrapponibili, pertanto è corretto differenziare un giorno di vita perduto da un giorno trascorso nell’inabilità (euro 99+49,5); il valore ottenuto (148,50) viene moltiplicato per il giorni di vita perduti (148,5 Euro x 7665 gg) = Euro 1.138.252,5. Poiché la condotta colpevole dei sanitari non ha determinato il decesso dell’A. bensì la perdita di chance di sopravvivenza dello stesso, la somma riconosciuta a titolo risarcitorio non può essere superiore al 50% dell’importo calcolato come sopra (Euro 569.126,25), atteso che una misura superiore presupporrebbe un’incidenza causale certa della condotta medica sulla riduzionedella vita.
  12. Posto che nel caso concreto, tenuto conto delle omissioni riscontrate e della natura delle patologie dell’A., è stata ritenuta sussistente una chance di sopravvivenza del 40%, il risarcimento è liquidabile per Euro 227.650,50 (40% di Euro 569.126,25) Sul danno da violazione del consenso per carenza di informazioni sulla possibilità di essere trasferito in altre strutture, esso rientra già nella liquidazione precedente in quanto, per il principio dell’onnicomprensività della liquidazione del danno, tale voce attiene in ogni caso alla possibilità della chance di successo di sopravvivenza per la medesima condotta contestata. Il danno non patrimoniale subito dalla madre per la perdita della possibilità di proseguire il rapporto parentale con il figlio va liquidato applicando i parametri tabellari previsti dalle Tabelle di Milano 2024 (poi devalutati alla data dell’evento e rivalutati), opportunamente decurtati in considerazione della natura meramente potenziale di tale rapporto, per ragioni non riconducibili all’operato dei sanitari. Posto che il risarcimento da perdita del rapporto parentale che spetterebbe all’attrice è pari ad Euro 308.969,00, il danno da perdita di chance di proseguire il rapporto parentale con il congiunto, calcolato secondo il criterio sopra indicato, può essere liquidato in Euro 61.793,80 Il danno patrimoniale per perdita del contributo al mantenimento, tenuto conto che nel caso di specie il reddito netto ammonta a circa 16.500 Euro annui, la quota può essere determinata in circa il 70% (considerato che trattasi di madre convivente già percettrice di pensione) = Euro 4.950, moltiplicato per un coefficiente del 9,12 (considerato che la danneggiata aveva 74 anni) = Euro 45.144. Effettuato il calcolo in proporzione alla percentuale riconosciuta, la somma da liquidare è Euro 9.028,80 (40% del 50% come da criterio di calcolo sopra indicato) A questi importi vanno aggiunte le spese funerarie per Euro 1.800,00 ed Euro 1.220,00 quale rimborso della spesa sostenuta per la consulenza medico legale del Prof. T., per complessivi Euro 3.020,00 ed in percentuale Euro 604,00 Le spese legali seguono la soccombenza e vengono liquidate in ragione della percentuale riconosciuta. Sono poste per intero, a carico di parte soccombente, le spese di CTU, liquidate con separato provvedimento.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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