Corte di cassazione, Sez. Unite Civili, sentenza 11 marzo 2025 n. 6439
PRINCIPIO DI DIRITTO
Si impone all’avvocato di ispirare la propria condotta all’osservanza dei doveri di probità, dignità e decoro anche quando la stessa sia posta in essere in qualità diversa da quella professionale.
Allo scopo di individuare la legge applicabile pro tempore sulla prescrizione dell’azione disciplinare, occorre rapportarsi alla data della commissione del fatto e non a quella dell’incolpazione se l’illecito disciplinare integra una violazione deontologica di carattere istantaneo che si consuma e si esaurisce nel momento in cui l’illecito viene realizzato; se invece la violazione è caratterizzata dalla protrazione nel tempo, la decorrenza del termine inizia dalla data di cessazione della condotta e dell’illecito.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- La prima censura è inammissibile, ex art. 360 bis n. 1 c.p.c.
[…]Anche la sentenza di questa Corte richiamata in ricorso (Cass. SU n. 4994/2018, che riguardava un caso nel quale erano contestate frasi gratuitamente offensive proferite dall’incolpato) ha precisato che l’«art. 5 del previgente Codice Deontologico imponeva all’avvocato di ispirare la propria condotta all’osservanza dei doveri di probità, dignità e decoro anche quando la stessa sia posta in essere in qualità diversa da quella professionale» e si è sottolineato che il «nuovo Codice Deontologico, all’art. 2, individua l’ambito di applicazione soggettiva del professionista e stabilisce che esso si estende anche ai comportamenti della vita privata del professionista, quando ne risulti Ric. 2017 n. […] sez. SU – ud. 20-06-2017 -3- compromessa la reputazione personale o l’immagine dell’avvocatura; all’art. 9 … fa riferimento all’osservanza da parte dell’avvocato dei doveri di probità, dignità e decoro nella salvaguardia della propria reputazione e della immagine della professione forense; l’art. 63 …, al primo comma, prescrive che l’avvocato, anche al di fuori dell’esercizio del suo ministero, deve comportarsi, nei rapporti interpersonali, in modo tale da non compromettere la dignità della professione e l’affidamento dei terzi; al secondo comma la norma recita che “l’avvocato deve tenere un comportamento corretto e rispettoso nei confronti dei propri dipendenti, del personale giudiziario e di tutte le persone con le quali venga in contatto nell’esercizio della professione». Di conseguenza, la qualità di avvocato «lungi dall’essere una attenuante del comportamento posto in essere, costituisce una aggravante del comportamento deontologicamente scorretto». E si è concluso che l’illecito disciplinare in argomento rimane invero integrato in ogni ipotesi di violazione da parte dell’avvocato dell’obbligo deontologico di probità, dignità e decoro: sia quando agisca «in qualità diversa da quella professionale», sia – ed a fortiori – nell’esercizio del suo ministero.
La lettura restrittiva del comma 3 dell’art. 3 della legge n. n. 274/2012, invocata dal ricorrente, non emerge peraltro dalla stessa disposizione, che, ai commi 2 e 3, prevede: «2. La professione forense deve essere esercitata con indipendenza, lealtà, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza, tenendo conto del rilievo sociale della difesa e rispettando i principi della corretta e leale concorrenza. 3. L’avvocato esercita la professione uniformandosi ai principi contenuti nel codice deontologico emanato dal CNF ai sensi degli articoli 35, comma 1, lettera d), e 65, comma 5. Il codice deontologico stabilisce le norme di comportamento che l’avvocato è tenuto ad osservare in via generale e, specificamente, nei suoi rapporti con il cliente, con la controparte, con altri avvocati e con altri professionisti. Il codice deontologico espressamente individua fra le norme in esso contenute quelle che, rispondendo alla tutela di un pubblico interesse al corretto esercizio della professione, hanno rilevanza disciplinare. Tali norme, per quanto possibile, devono essere caratterizzate dall’osservanza del principio della tipizzazione della condotta e devono contenere l’espressa indicazione della sanzione applicabile».
La norma della nuova legge professionale, pertanto, rinvia al Codice deontologico per la disciplina generale dei comportamenti che l’avvocato è tenuto ad osservare e il Codice ha disciplinato i profili dei comportamenti rilevanti tenuti nella vita privata e nei confronti di terzi.
Questa Corte, essendo l’illecito disciplinare dell’avvocato atipico, non può sostituirsi all’organo disciplinare nel valutare se una determinata condotta rientri o meno in una previsione disciplinare di portata generale (quale è, per l’appunto, quella che sanziona gli atti lesivi «del decoro e della dignità» professionali), potendo solo sindacare, sotto il profilo della violazione di legge, la ragionevolezza con cui l’organo disciplinare ha ricavato, dalla previsione deontologica generale, il precetto da applicare al caso concreto (così, Cass. SU n. 19705 del 2012: poiché la norma deontologica non fornisce, «per sua intrinseca natura, elementi tassativi per la definizione delle condotte disciplinarmente illecite, il sindacato di legittimità deve tener conto del fatto che la categoria normativa impiegata finisce con l’attribuire agli organi disciplinari forensi un compito di individuazione delle condotte sanzionabili, nel quale non può ammettersi una sostituzione da parte dal giudice di legittimità»).
Da ultimo, queste Sezioni unite (Cass. SU n. 26369/2024) hanno ribadito che «Nei procedimenti disciplinari a carico di avvocati, la concreta individuazione delle condotte costituenti illecito disciplinare definite dalla legge mediante una clausola generale (nella specie, atti lesivi del decoro e della dignità professionali) è rimessa all’ordine professionale e il controllo di legittimità sull’applicazione di tali norme non consente alla S.C., se non nei limiti della valutazione di ragionevolezza, di sostituirsi al Consiglio Nazionale Forense, tramite una riformulazione o ridefinizione delle condotte esaminate, nell’enunciazione delle ipotesi di illecito».
Nel caso di specie, il ricorrente, tenuto conto della gravità dei comportamenti a lui contestati, neppure censura in alcun modo la sentenza impugnata, sotto il profilo della violazione del principio di ragionevolezza.
- Anche la seconda doglianza è inammissibile.
Invero, la nuova disciplina della prescrizione non può trovare applicazione, dal momento che gli illeciti disciplinari indicati nei capi di incolpazione risultano incontestabilmente commessi negli anni 2004-2005, durante la vigenza della disciplina di cui al R.D.L. n. 1578/1933.
Nella sentenza impugnata, inoltre, si è evidenziata l’interruzione della prescrizione dal 3.5.2005 al 14.12.2015, data in cui è divenuta irrevocabile la sentenza penale avente ad oggetto i medesimi fatti ed i successivi atti interruttivi.
In tema di prescrizione, va richiamato l’insegnamento univoco di queste Sezioni Unite per cui, allo scopo di individuare la legge applicabile pro tempore sulla prescrizione dell’azione disciplinare, occorre rapportarsi alla data della commissione del fatto e non a quella dell’incolpazione (Cass. S.U. 23746/2020; Cass. 20383/2021). Ciò se l’illecito disciplinare integra una violazione deontologica di carattere istantaneo che si consuma e si esaurisce nel momento in cui l’illecito viene realizzato; se invece la violazione è caratterizzata dalla protrazione nel tempo, la decorrenza del termine inizia dalla data di cessazione della condotta e dell’illecito (fra le altre, Cass. S.U. n. 13379/2016, Cass. S.U. 8946/2023).
Il tutto, in quanto le sanzioni disciplinari contenute nel codice deontologico forense hanno natura amministrativa sicché, per un verso, con riferimento alla disciplina della prescrizione, non trova applicazione lo jus superveniens, ove più favorevole all’incolpato, restando limitata l’operatività del principio di retroattività della lex mitior alla fattispecie incriminatrice e alla pena, mentre, per altro verso, il momento di riferimento per l’individuazione del regime della prescrizione applicabile, nel caso di illecito punibile solo in sede disciplinare, rimane quello della commissione del fatto e non quello della incolpazione.
Pertanto, nel caso in esame il regime di prescrizione applicabile è, ratione temporis, quello della previgente disciplina di cui al R.D.L. n. 1578/1933.
- Per tutto quanto sopra esposto, va dichiarato il ricorso inammissibile.
Non v’è luogo a provvedere sulle spese, non avendo l’intimato svolto attività difensiva.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento – ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, se dovuto.