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Home Diritto Civile

Licenziamento disciplinare e limiti del potere del datore di lavoro

by Dott. Alessio Alfieri
20 Marzo 2025
in Diritto Civile
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Corte di Cassazione, Sezione lavoro, ordinanza 10 marzo 2025, n. 6317

PRINCIPIO DI DIRITTO

Posto che il canone del rispetto dell’immediatezza della contestazione nel procedimento disciplinare assume carattere “relativo”, che impone una valutazione caso per caso, secondo un risalente insegnamento giurisprudenziale, la valutazione della tempestività della contestazione costituisce una indagine di fatto demandata al giudice del merito.

TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE

  1. I primi due motivi di ricorso, nonché il quarto motivo, che concernono la mancata consegna al datore di lavoro della sentenza penale, non definitiva, di primo grado (del 2020) ed i relativi comportamenti oggetto del provvedimento del giudice di primo grado (provvedimento modificato in sede di appello e annullato in sede di legittimità), sono inammissibili.
  2. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, in tema di ricorso per cassazione, qualora la decisione impugnata si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte ed autonome e singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, l’omessa impugnazione di tutte le “rationes decidendi” rende inammissibili, per esistenza del giudicato sulla ratio decidendi non censurata, le censure relative alle singole ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime, quand’anche fondate, non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre non impugnate, all’annullamento della decisione stessa (ex multis, Cass. S.U. n. 7931 del 2013; Cass. n. 15399 del 2018; Cass. n. 13880 del 2020).
  3. Nel caso di specie, il ricorrente ha a lungo argomentato sulla reiterazione del rifiuto di consegna (della sentenza penale di condanna del 2020) da parte del lavoratore e sulla gravità delle condotte oggetto del provvedimento penale (con riflessi anche nell’ambiente di lavoro e, quindi, suscettibile di rilevanza), ma nulla ha dedotto sulle ragioni del rigetto, ritenute anch’esse decisive dalla Corte territoriale, ossia sull’accertamento della tempestiva informazione fornita dal lavoratore (con riguardo al rinvio a giudizio, nel 2017, e alla trasmissione di alcuni documenti del procedimento penale) e sulla insussistenza di un obbligo, del dipendente, di consegnare detto provvedimento (pagg. 7 e 8 della sentenza impugnata) nonché sull’ampiezza della riforma, in sede di legittimità, di detta sentenza di primo grado e sulla carenza di prove in ordine ad un’autonoma valutazione e ripercussione negativa (anche di natura mediatica) nell’ambiente di lavoro di dette condotte.
  4. Il terzo motivo di ricorso è inammissibile.
  5. Posto che il canone del rispetto dell’immediatezza della contestazione nel procedimento disciplinare assume carattere “relativo”, che impone una valutazione caso per caso, secondo un risalente insegnamento giurisprudenziale, la valutazione della tempestività della contestazione costituisce una indagine di fatto demandata al giudice del merito (Cass. n. 14113 del 2006; Cass. n. 29480 del 2008; Cass. n. 5546 del 2010; Cass. n. 20719 del 2013; Cass. n. 1247 del 2015; Cass. n. 14324 del 2015; Cass. n. 16841 del 2018).

Pertanto, come ogni accertamento di fatto può essere sottoposto al sindacato di questa Corte di legittimità nei ristretti limiti in cui può esserlo ogni quaestio facti, nella vigenza del novellato n. 5 dell’art. 360, primo comma, c.p.c. così come rigorosamente interpretato dalle Sezioni unite di questa Corte con le sentenze nn. 8053 e 8054 del 2014.

  1. Nel caso di specie, la sentenza impugnata fornisce una congrua motivazione e un apprezzamento di fatto sui tempi e sulle modalità di conoscenza della sentenza di patteggiamento del 2014 da parte del datore di lavoro.
  2. Il quinto motivo non è fondato.
  3. La Corte territoriale, conformemente alla valutazione di insussistenza dell’addebito disciplinare imputato al lavoratore, ha applicato il regime sanzionatorio dettato dal comma 4 dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 (come novellato dalla legge n. 92 del 2012), che prevede sia la reintegrazione nel posto di lavoro sia il risarcimento del danno limitato ad un massimo di dodici mensilità.
  4. In conclusione, il ricorso va rigettato e le spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 cod. proc. civ.
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