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Home Diritto Penale

* Penale – Furto – Privata dimora – Colpo commesso in sagrestia, è furto in privata dimora

by Dott.ssa Margherita Lovascio
12 Maggio 2025
in Diritto Penale
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Corte di Cassazione, Sez. IV pen., 30 aprile 2025, n. 16366

PRINCIPIO DI DIRITTO

“La sagrestia, in quanto funzionale allo svolgimento di attività complementari a quelle di culto, servente non solo l’edificio sacro ma altresì la casa canonica, deve ritenersi luogo destinato in tutto o in parte a “privata dimora”, essendone l’ingresso di terze persone selezionato ad iniziativa di chi ne abbia la disponibilità (cfr., in questi termini, Sez. 4, n. 13492 del 21/01/2020, Anselmo, Rv. 279002- 01; Sez. 4, n. 40245 del 30/09/2008, Aljmi, Rv. 241311-01). […]

Ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art. 624- bis cod. pen., rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale (così, espressamente, Sez. U, n. 31345 del 23/03/2017, D’Amico, Rv. 270076-01)”.

TESTO RILEVANTE DELLA PRONUNCIA

  1. Il ricorso è manifestamente infondato e deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile.
  2. In primo luogo priva di ogni fondamento è l’introduttiva censura, considerato che, per come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, la sagrestia, in quanto funzionale allo svolgimento di attività complementari a quelle di culto, servente non solo l’edificio sacro ma altresì la casa canonica, deve ritenersi luogo destinato in tutto o in parte a “privata dimora”, essendone l’ingresso di terze persone selezionato ad iniziativa di chi ne abbia la disponibilità (cfr., in questi termini, Sez. 4, n. 13492 del 21/01/2020, Anselmo, Rv. 279002- 01; Sez. 4, n. 40245 del 30/09/2008, Aljmi, Rv. 241311-01).

Ciò si conforma al generale principio espresso dal Supremo Collegio di questa Corte, per cui, ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art. 624- bis cod. pen., rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale (così, espressamente, Sez. U, n. 31345 del 23/03/2017, D’Amico, Rv. 270076-01).

Accertato l’indicato aspetto, e ritenuto comprovato come la disponibilità della sagrestia e del relativo jusexcludendi dei terzi perteneva, in via esclusiva, alla persona del parroco, deve essere osservato come da ciò non possa essere inferito, come invece auspicato da parte della ricorrente, il conseguente esonero della sua responsabilità penale, sul presupposto che la sottrazione del bene sarebbe stato effettuata, in danno di una terza persona, e non già del parroco.

Si tratta, infatti, di un evidente errore prospettico, considerato che la nozione di privata dimora, di rilievo ai sensi dell’art. 624-bis cod. pen., ha una natura esclusivamente obiettiva, riferendosi unicamente al luogo fisico, e non già alla persona del derubato. Non è richiesto, cioè, quale necessario presupposto, che la persona offesa coincida con lo stesso soggetto cui pertenga la disponibilità del luogo, con potere di escluderne l’eventuale accesso a terzi.

Una volta che, come nel caso di specie, venga concesso alla terza persona di accedere al luogo di privata dimora, l’eventuale illecita sottrazione di un bene di proprietà del terzo non fa venir meno la qualificazione del reato come furto in abitazione, in quanto perpetrato in un luogo che, per l’appunto, secondo i canoni interpretativi indicati dalla giurisprudenza di legittimità, si connota certamente quale luogo di privata dimora.

Ne consegue il riconoscimento della corretta qualificazione giuridica del reato contestato sub 1) quale furto in abitazione, con conseguente affermazione della manifesta infondatezza del contrario motivo previsto da parte della ricorrente.

  1. Del pari manifestamente infondata è la seconda censura, con cui la L.S. ha lamentato la mancata concessione in suo favore delle circostanze attenuanti generiche, in particolar modo lamentando carenza motivazionale rispetto all’analoga istanza avanzata nell’atto di appello.

Il Collegio rileva, in termini antitesi, come la doglianza eccepita in appello avesse un contenuto particolarmente generico, essendosi limitata a lamentare l’erroneità della decisione con cui il primo giudice aveva negato il riconoscimento del beneficio ex art. 62-bis cod. pen. sulla mera sussistenza di taluni precedenti a suo carico, laddove, invece, la concessione delle generiche «avrebbe consentito di meglio adeguare la pena alla gravità del fatto».

In ragione di tale aspetto, allora, deve trovare applicazione, in termini troncanti, il principio espresso da parte di questa Suprema Corte per cui il giudice di appello non è tenuto a motivare il diniego delle circostanze attenuanti generiche sia quando nei motivi di impugnazione si ripropongano, ai fini del riconoscimento, gli stessi elementi già sottoposti all’attenzione del giudice di primo grado e da quest’ultimo disattesi, sia quando – come nella specie – si insista per quel riconoscimento senza addurre alcuna particolare ragione (così, espressamente, Sez. 1, n. 33951 del 19/05/2021, Avallane, Rv. 281999-02).

  1. Ne deriva la declaratoria di inammissibilità del ricorso, con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali ed alla somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende, non ravvisandosi ragioni di esonero (Corte Cost., sent. n. 186/2000).
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