Corte Europea Diritti dell’Uomo, Sez. I, Sentenza 25 settembre 2025 n. 36551 (causa 36551/22, 36926/22 e 37907/22), I. ed altri /Stato Italiano
PRINCIPIO DI DIRITTO
Va ritenuto violato l’art. 1 del protocollo n. 1 dalle decisioni dei giudici nazionali che non abbiano rispettato le limitazioni stabilite dal diritto interno per quanto riguarda l’identificazione dei reati che producono introiti illeciti; la delimitazione temporale dei beni che potevano essere legittimamente oggetto di confisca e l’identificazione dei beni che, benché ufficialmente di proprietà di terzi, erano considerati a disposizione della persona di cui trattasi; oltre al fatto che il procedimento sia stato avviato molti anni dopo gli ultimi reati e che le autorità nazionali non abbiano dimostrato alcun nesso tra le attività criminose del primo ricorrente e i beni confiscati.
Va ritenuto non raggiunto il necessario giusto equilibrio tra gli obiettivi legittimi di interesse generale perseguiti dalla misura in questione e i diritti individuali dei ricorrenti, vale a dire che la confisca dei beni dei ricorrenti costituiva un’ingerenza sproporzionata nei loro diritti ai sensi dell’articolo 1 del protocollo n. 1.
Inoltre, va ribadito che una sentenza con la quale la CEDU constata una violazione impone allo Stato convenuto l’obbligo giuridico di porre fine alla violazione e di risarcire le sue conseguenze in modo tale da ripristinare, per quanto possibile, la situazione esistente prima della violazione
La Corte rileva inoltre che, nei casi in cui ha ordinato la restituzione di beni illegittimamente espropriati dallo Stato, ha dichiarato che, in caso di impossibilità di restituzione, lo Stato deve versare ai ricorrenti una somma corrispondente al valore dei beni nel momento in cui il ricorrente ne ha perso la proprietà.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
[…]
Motivi della decisione
- PRESENTAZIONE DELLE DOMANDE
- Alla luce dell’oggetto analogo dei ricorsi, la Corte ritiene opportuno esaminarli congiuntamente in un’unica sentenza.
- PRESUNTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 1 DEL PROTOCOLLO N. 1
- I ricorrenti hanno lamentato ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione la “confisca preventiva” dei loro beni, sostenendo che le decisioni dei tribunali nazionali non avevano rispettato le condizioni stabilite dal diritto e dalla giurisprudenza nazionali per l’imposizione della misura controversa.
- Essendo padrone della qualificazione giuridica dei fatti di causa (si vedano R. e altri c. Croazia [GC], nn. 37685/10 e 22768/12, §§ 114 e 126, 20 marzo 2018, e Y.Y. c. Türkiye [GC], n. 15669/20, § 217, 26 settembre 2023), la Corte ritiene che le censure dei ricorrenti debbano essere esaminate esclusivamente ai sensi dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 della Convenzione (v., v., per lo stesso approccio, T. e a. c. Bulgaria, nn. 50705/11 e altri 6, § 129, 13 luglio 2021; Y. e altri c. Bulgaria, nn. 265/17 e 26473/18, § 69, 26 settembre 2023; e M. e altri c. Bulgaria, nn. 57002/11 e altri 4, § 78, 21 maggio 2024), che recita come segue:
“Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al pacifico godimento dei suoi beni. Nessuno può essere privato dei suoi beni se non per motivi di pubblica utilità e alle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.
Le disposizioni che precedono, tuttavia, non pregiudicano in alcun modo il diritto di uno Stato di applicare le leggi che ritiene necessarie per controllare l’uso della proprietà in conformità con l’interesse generale o per assicurare il pagamento di tasse o altri contributi o sanzioni.
- Ricevibilità
- La Corte rileva che i ricorsi non sono né manifestamente infondati né irricevibili per gli altri motivi elencati all’articolo 35 della Convenzione. Esse devono pertanto essere dichiarate ricevibili.
- Meriti
- Sull’esistenza di un’ingerenza e sulla norma applicabile di cui all’articolo 1 del protocollo n. 1
- L’articolo 1 del Protocollo n. 1, che garantisce sostanzialmente il diritto di proprietà, comprende tre norme distinte. Il primo, che è espresso nella prima frase del primo paragrafo, stabilisce il principio del pacifico godimento della proprietà in generale. La seconda norma, contenuta nella seconda frase dello stesso paragrafo, riguarda la privazione dei beni e la subordina a determinate condizioni.
Il terzo, contenuto nel secondo comma, riconosce che gli Stati contraenti hanno il diritto, tra l’altro, di controllare l’uso della proprietà in conformità all’interesse generale. La seconda e la terza norma, che riguardano casi particolari di ingerenza nel diritto al pacifico godimento della proprietà, devono essere interpretate alla luce del principio generale enunciato nella prima norma (si vedano, tra le molte altre autorità, Immobiliare S. c. Italia [GC], n. 22774/93, § 44, CEDU 1999-V; si veda anche T. e altri, § 179, e Y. e a., § 97, entrambi sopra citati).
- La Corte rileva anzitutto che le parti non hanno contestato che la confisca dei beni dei ricorrenti costituisse un’ingerenza nel loro diritto al pacifico godimento dei beni garantito dall’articolo 1 del Protocollo n. 1. La Corte non vede alcun motivo per ritenere il contrario.
- In alcuni casi di confisca (si vedano, ad esempio, P. c. Regno Unito, n. 41087/98, § 51, CEDU 2001-VII; S. c. Austria, n. 69917/01, § 86, 18 dicembre 2008; B. e altri c. Italia, n. 4514/07, § 42, 5 gennaio 2010; e T. e V. c. Romania, n. 47911/15, § 72, 26 giugno 2018), la Corte ha ritenuto che l’ingerenza nei diritti dei ricorrenti rientrasse nell’ambito di applicazione dell’articolo 1, secondo comma, del Protocollo n. 1, che consente, in particolare, agli Stati contraenti di controllare l’uso della proprietà conformemente all’interesse generale.
In particolare, la Corte ha osservato che, qualora una misura di confisca sia stata imposta indipendentemente dall’esistenza di una condanna penale, ma piuttosto a seguito di un procedimento giudiziario “civile” distinto (ai sensi dell’articolo 6 § 1 della Convenzione) volto al recupero di beni ritenuti acquisiti illegittimamente, tale misura, anche se si trattava della confisca irrevocabile dei beni, costituiva comunque il controllo dell’uso della proprietà ai sensi del secondo comma dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 (si vedano, tra le molte altre autorità, A.C. c. Regno Unito, 5 maggio 1995, § 34, Serie A n. 316-A; R. e altri c. Italia (dec.), n. 52439/99 del 4 settembre 2001; S. c. Russia, n. 31004/02, § 25, 5 febbraio 2009; S. c. Lituania, n. 20496/02, § 62, 10 aprile 2012; V. c. Estonia, n. 12951/11, § 70, 15 gennaio 2015; e G. e altri c. Georgia, n. 36862/05, § 94, 12 maggio 2015).
- In altri casi di confisca, la Corte ha ritenuto che misure analoghe costituissero privazione di beni ai sensi dell’articolo 1, primo comma, seconda frase, del Protocollo n. 1 (si vedano, ad esempio, A. c. ex Repubblica jugoslava di Macedonia, n. 16225/08, § 30, 17 settembre 2015; S.C. S.B.C. S.R.L. c. Romania, n. 58045/11, § 30, 4 luglio 2017; e Y. c. Romania, n. 64863/13, § 49, 26 novembre 2019).
- Tuttavia, secondo la Corte, non è necessario stabilire in base a quale delle tre norme dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 debba essere esaminata la causa, poiché i principi che disciplinano la questione della giustificazione sono sostanzialmente gli stessi (si vedano T. e a., § 182, e Y. e a., § 98, entrambi sopra citati; si veda anche D. e M. c. Russia, n. 16903/03, § 55, 1 aprile 2010).
- Sulla giustificazione dell’ingerenza
- Affinché un’ingerenza sia compatibile con l’articolo 1 del protocollo n. 1, essa deve essere lecita, di interesse generale e proporzionata, ossia deve garantire un “giusto equilibrio” tra le esigenze dell’interesse generale della comunità e le esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’individuo (v., tra le molte altre autorità, The J.P.G.T. e altri c. Italia, n. 35271/19, § 281, 2 maggio 2024, con ulteriori riferimenti).
- a) Argomenti delle parti
- i) Sulle ricorrenti
- I ricorrenti hanno sostenuto che le decisioni dei giudici nazionali non avevano rispettato le condizioni stabilite dal diritto e dalla giurisprudenza nazionali per l’imposizione della misura controversa.
- Esse hanno osservato che il primo ricorrente aveva commesso reati contro il patrimonio tra il 1980 e il 1998 ma, dopo tale momento, aveva commesso un tentativo di furto solo nel 2008, reato che, per definizione, non produceva alcun reddito illecito e, pertanto, non poteva in alcun modo giustificare la presunzione di provenienza illecita dei beni confiscati.
- Basandosi sulla giurisprudenza della Corte di cassazione e della Corte costituzionale, i ricorrenti hanno sottolineato che la dichiarazione secondo cui il primo ricorrente aveva rappresentato un pericolo per la società, ai sensi dell’articolo 1 paragrafo 1, lettera b), del decreto n. 159/2011, presupponeva la commissione “abituale”, per un periodo di tempo significativo, di reati che producono introiti illeciti, e ha ritenuto che tale condizione non fosse stata soddisfatta dopo il 1998.
- Inoltre, i ricorrenti hanno sottolineato che, mentre il primo ricorrente era stato considerato un individuo che rappresentava un pericolo per la società nel periodo compreso tra il 1980 e il 2008, i beni confiscati erano stati acquistati nel 2010, 2014, 2016 e 2018.
A loro avviso, le decisioni dei giudici nazionali avevano manifestamente violato il principio di correlazione temporale tra il periodo in cui la persona in questione rappresentava un pericolo per la società e l’acquisto dei beni da confiscare, come stabilito dalla giurisprudenza nazionale in materia. A tal riguardo, essi hanno rilevato che l’avvocato generale della Corte di cassazione aveva riconosciuto una violazione di tale principio.
- ii) Il governo
- Il governo ha sostenuto che la misura controversa era stata imposta nel rispetto dei criteri stabiliti dal diritto interno, come interpretati nella pertinente giurisprudenza della Corte di cassazione e della Corte costituzionale.
- In particolare, il Governo ha sostenuto che i giudici nazionali avevano correttamente valutato l’esistenza delle seguenti condizioni:
- a) la commissione, da parte del primo ricorrente, di reati idonei a generare profitto (nove condanne per numerosi reati contro il patrimonio, come furto, ricettazione e rapina aggravata, commessi nell’ambito dell’appartenenza a organizzazioni criminali costituite per commettere tali reati);
- b) il carattere abituale della commissione di tali reati per un periodo di tempo significativo, in particolare tra il 1980 e il 1998 e di nuovo, dopo aver scontato una pena detentiva tra il 1998 e il 2006, nel 2008;
- c) la generazione di utili che costituiscono o hanno costituito, per un determinato periodo di tempo, l’unica componente del reddito personale del primo richiedente o una componente significativa di tale reddito, in particolare, tra il 1980 e il 1998 e di nuovo nel 2008.
- Il governo ha sottolineato che la misura in questione era stata imposta nei confronti di beni acquistati con i proventi illeciti imputabili al primo ricorrente, in quanto, a suo avviso, essi derivavano dalla ricchezza accumulata durante il periodo in cui era stato accertato che egli rappresentava un pericolo per la società.
- Secondo il Governo, la decisione di imporre la misura controversa si era basata su una valutazione ragionevole e motivata, idonea a suffragare la presunzione di provenienza illecita dei beni confiscati. In particolare, i giudici di grado inferiore avevano individuato i reati per i quali il primo ricorrente era stato condannato, per un periodo superiore a vent’anni, e avevano rilevato che tali reati avevano consentito al primo ricorrente e alla sua famiglia di accumulare risorse economiche che erano state reinvestite in beni immobili.
L’ultimo reato, commesso nel 2008, ha confermato che il primo ricorrente continuava a rappresentare un pericolo per la società. Il governo ha attribuito particolare rilevanza al fatto che il primo ricorrente non aveva commesso reati tra il 1998 e il 2008 per il solo fatto di essere stato detenuto in tale periodo in esecuzione di una pena detentiva.
- Hanno inoltre sottolineato che il ricorrente non aveva fornito alcuna spiegazione ragionevole per la provenienza dei beni confiscati, mentre la perizia ordinata dal tribunale aveva dimostrato che i ricorrenti non avevano avuto alcun reddito legale in grado di giustificare l’acquisto dei beni confiscati.
Pertanto, l’unica spiegazione ragionevole era che tali attivi erano stati acquistati reinvestendo gli utili accumulati durante il periodo in cui il primo ricorrente aveva commesso i reati che avevano portato alla constatazione che egli costituiva un pericolo per la società.
Secondo il Governo, i tribunali nazionali avevano dimostrato che tali risorse erano il risultato della rivendita di proprietà acquisite con mezzi illeciti.
- Il Governo ha inoltre sostenuto che le decisioni dei giudici nazionali rispettavano il principio, sancito dalla giurisprudenza interna, della necessaria correlazione temporale tra il periodo in cui la persona in questione rappresentava un pericolo per la società e l’acquisizione dei beni da confiscare.
A loro avviso, i tribunali nazionali avevano dimostrato che i beni confiscati erano stati acquisiti utilizzando risorse economiche derivate dalla rivendita di beni acquistati con mezzi illeciti.
- Il Governo ha inoltre ritenuto che la misura controversa fosse proporzionata all’obiettivo legittimo perseguito, vale a dire l’eliminazione dalla circolazione economica dei beni che erano stati acquisiti illegalmente.
Esse hanno sottolineato, in particolare, che la misura era stata imposta ai ricorrenti nell’ambito di un procedimento che aveva offerto molteplici garanzie procedurali e non aveva imposto loro un onere eccessivo.
- Essi hanno sottolineato che l’onere di provare l’esistenza delle condizioni per l’imposizione della misura controversa incombeva al pubblico ministero, mentre i ricorrenti erano legittimati a fornire prove che dimostrassero l’origine lecita dei beni di cui trattasi o che essi non erano stati effettivamente a disposizione della persona in questione. Un siffatto onere non era particolarmente oneroso, in quanto era sufficiente dimostrare l’esistenza di fatti, situazioni o eventi che, in modo ragionevole e plausibile, dimostravano la provenienza lecita dei beni.
- Il Governo ha inoltre sottolineato che i ricorrenti avevano beneficiato, nel procedimento che aveva portato all’imposizione della misura, di diverse garanzie procedurali, quali la possibilità di tenere un’udienza pubblica, l’esame incrociato delle prove pertinenti dinanzi ai giudici a tre livelli e la possibilità di presentare prove, documenti, testimoni e perizie. Hanno inoltre osservato che i tribunali nazionali competenti avevano ordinato una perizia ed esaminato le argomentazioni e le prove fornite dai ricorrenti.
- b) Osservazioni del terzo
- L’associazione Unione delle Camere Penali Italiane ha ritenuto che il sistema italiano di imposizione di misure preventive in materia patrimoniale non offrisse ai singoli interessati una ragionevole possibilità di far valere i loro argomenti dinanzi ai giudici nazionali conformemente al principio del contraddittorio.
- L’associazione ha inoltre osservato che, ai sensi del diritto interno, un livello di prova molto basso era imposto al fine di dimostrare che la persona in questione rappresentava un pericolo per la società e che i beni da confiscare costituivano i proventi di attività illecite.
In particolare, era sufficiente una valutazione sulla base di motivi probabili e sostanzialmente presuntivi.
Il sistema di presunzioni applicabile pone l’onere della prova a carico della persona in questione e dei terzi interessati, i quali sono tenuti a dimostrare l’origine lecita dei loro beni anche quando sono stati acquistati molti anni prima dell’adozione della misura controversa.
- Secondo il terzo interveniente, la disposizione nazionale applicabile, come interpretata dalla giurisprudenza interna, poneva un onere eccessivo ai singoli interessati e rendeva ontologicamente iniquo il procedimento per l’imposizione di misure preventive in materia di proprietà.
- c) Valutazione della Corte
- i) Sulla conformità dell’atto al principio di liceità
- La Corte ribadisce che il primo e più importante requisito dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 è che qualsiasi interferenza da parte di un’autorità pubblica con il pacifico godimento dei beni dovrebbe essere lecita: la seconda frase del primo paragrafo autorizza la privazione dei beni solo “alle condizioni previste dalla legge” e il secondo paragrafo riconosce che gli Stati hanno il diritto di controllare l’uso della proprietà applicando le “leggi”. Inoltre, lo Stato di diritto, uno dei principi fondamentali di una società democratica, è inerente a tutti gli articoli della Convenzione (si veda L. c. Slovenia [GC], n. 36480/07, § 94, 11 dicembre 2018).
- L’esistenza di una base giuridica nel diritto interno non è sufficiente, di per sé, a soddisfare il principio di legalità. Inoltre, la base giuridica deve avere una certa qualità, vale a dire che deve essere sufficientemente accessibile, precisa e prevedibile nella sua applicazione e nelle sue conseguenze (si veda C.E. 7 S.r.l. e D.S. c. Italia [GC], n. 38433/09, § 187, CEDU 2012), compatibile con lo Stato di diritto e fornire sufficienti garanzie procedurali contro l’arbitrarietà (si vedano V. e P. c. Lettonia [GC], n. 71243/01, § 96, 25 ottobre 2012).
Il requisito della liceità richiede anche il rispetto delle pertinenti disposizioni del diritto interno (si veda E.W.A. Limited c. Ucraina, n. 19336/04, § 167, 23 gennaio 2014; D. c. Bulgaria, n. 12655/09, § 44, 3 marzo 2015; e Z., spol. S r.o. c. Bulgaria, n. 57785/00, §§ 97-98, 15 giugno 2006).
- Nel caso di specie, la Corte rileva anzitutto che le parti non hanno contestato il fatto che la misura controversa avesse un fondamento nel diritto interno, in particolare l’articolo 24 § 1 del decreto n. 159/2011, e che fosse accessibile.
- Il disaccordo tra le parti riguardava, piuttosto, il rispetto delle condizioni e delle limitazioni imposte dal diritto interno, come interpretate nella pertinente giurisprudenza interna, al fine di applicare la confisca controversa, con particolare riguardo:
- i) alla natura e alla gravità dei reati la cui commissione giustificava l’accertamento che la persona in questione aveva rappresentato un pericolo per la società, che implica una presunzione che i beni acquisiti durante tale periodo fossero proventi di attività illecite e, dall’altro, la delimitazione temporale dei beni che, nella misura in cui sono stati acquisiti durante il periodo in cui la persona in questione ha commesso reati, potevano essere confiscati.
- La Corte ritiene che, nel caso di specie, la questione se la misura controversa sia stata imposta conformemente alle condizioni e ai limiti stabiliti dal diritto e dalla giurisprudenza nazionali, e se essa fosse quindi compatibile con il principio di legalità, è strettamente connessa alla questione se la misura fosse proporzionata a qualsiasi obiettivo legittimo perseguito.
Di conseguenza, essa esaminerà congiuntamente tali questioni.
- ii) Sul fatto che la misura sia stata adottata nell’ambito di un atto di interesse pubblico o di interesse generale
- Indipendentemente dalla norma applicabile dell’articolo 1 del protocollo n. 1, qualsiasi ingerenza da parte di un’autorità pubblica nel pacifico godimento dei beni può essere giustificata solo se serve un legittimo interesse generale.
Il principio del “giusto equilibrio” inerente all’articolo 1 del Protocollo n. 1 presuppone l’esistenza di un interesse generale della comunità (si veda il G.P.G.T. e altri, sopra citata, § 335, con ulteriori riferimenti).
- In altre cause relative alla confisca, in assenza di una condanna penale, di beni che si presume siano stati acquisiti indebitamente, la Corte ha ritenuto che la misura in questione fosse stata attuata in conformità con l’interesse generale a garantire che l’uso del bene in questione non procurasse un vantaggio ai ricorrenti a danno della collettività (v. sentenze G. e a., sopra citato, § 103, e T. e V., sopra citato, § 74).
Per quanto riguarda specificamente la misura di “confisca preventiva” prevista dalla legge italiana, la Corte ha già constatato che essa aveva lo scopo di garantire che il reato non pagasse e di prevenire l’arricchimento senza causa, privando l’interessato e i terzi che non avessero un valido diritto sul bene da confiscare dei proventi delle attività criminose, ed era, pertanto, essenzialmente di natura riparatoria e non punitiva (si veda G. e altri c. Italia (dec.), nn. 47269/18 e altri 3, § 134, 21 gennaio 2025).
- Nel caso di specie, la Corte è convinta che il regime italiano di confisca non basata sulla condanna perseguisse uno scopo legittimo di interesse generale, vale a dire evitare l’arricchimento senza causa derivante da reati, privando gli interessati di profitti illeciti (v. sentenze G. e a., cit., § 133; T. e a., cit., § 186).
iii) Sulla proporzionalità della misura allo scopo perseguito
(α) Principi generali
- La Corte ribadisce che la preoccupazione di raggiungere un “giusto equilibrio” tra le esigenze dell’interesse generale della comunità e le esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’individuo si riflette nella struttura dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 nel suo complesso, indipendentemente dai paragrafi interessati in ciascun caso, e comporta la necessità di un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo che si vuole raggiungere (si veda, tra le altre autorità, The J.P.G.T. e altri, sopra citata, § 374).
L’equilibrio necessario non sarà raggiunto se le persone interessate hanno dovuto sopportare un onere eccessivo (v. T. e a., sopra citata, § 187).
- La Corte ribadisce inoltre che, sebbene l’articolo 1 del Protocollo n. 1 non contenga requisiti procedurali espliciti, è stato il suo costante requisito che i procedimenti interni offrissero alla persona lesa una ragionevole possibilità di presentare le proprie ragioni alle autorità competenti al fine di impugnare efficacemente le misure che interferiscono con i diritti garantiti da tale disposizione.
Nell’accertare se questa condizione sia stata soddisfatta, deve essere adottata una visione globale delle procedure applicabili (si veda R. c. Estonia, n. 63362/09, § 104, 15 gennaio 2015).
- La Corte ha già riconosciuto la compatibilità, in linea di principio, con la Convenzione delle procedure di confisca dei beni in assenza di una condanna che accerti la colpevolezza degli imputati, qualora tali beni fossero connessi alla presunta commissione di vari reati gravi che comportano un arricchimento senza causa.
In quanto tale, ha ritenuto che le domande fossero manifestamente infondate o che non vi fosse stata violazione in casi riguardanti reati di mafia (vedi R. c. Italia, 22 febbraio 1994, §§ 16-30, serie A n. 281-A; A. e altri c. Italia (dec.), n. 52024/99, CEDU 2001-VII; e M. e altri c. Italia (dec.), n. 58572/00, CEDU 7 giugno 2005), traffico di stupefacenti (v. B. c. Regno Unito (dec.), n. 41661/98, 27 giugno 2002; W. c. Regno Unito (dec.), n. 56054/00, 10 febbraio 2004; e S. c. Austria, n. 69917/01, §§ 87-91, 18 dicembre 2008), corruzione nei servizi pubblici (v. G. e a., cit., §§ 103-14), criminalità organizzata (v. S., cit., §§ 60-70), o riciclaggio di denaro (si vedano B. c. San Marino, nn. 20319/17 e 21414/17, §§ 89-95, 8 ottobre 2019, e Z. c. San Marino, n. 3405/21, §§ 60-71, 11 maggio 2023).
La Corte ha anche chiarito che la confisca non dovrebbe essere utilizzata per perseguire ulteriori scopi che sono specificamente perseguiti da altri strumenti, contenenti le loro garanzie procedurali (si veda T. e altri, sopra citata, § 203).
- Riassumendo l’approccio seguito in tali cause, la Corte ha rilevato, in primo luogo, che si poteva affermare l’esistenza di norme giuridiche comuni europee e persino universali che incoraggiavano la confisca di beni connessi a reati gravi come la corruzione, il riciclaggio di capitali e i reati di droga, senza che fosse prevenuta una condanna penale.
In secondo luogo, l’onere di provare l’origine lecita di un bene che si presume sia stato acquisito illecitamente potrebbe essere legittimamente trasferito ai convenuti in tale procedimento di confisca non penale, compresi i procedimenti civili in rema.
In terzo luogo, le misure di confisca potrebbero essere applicate non solo ai proventi diretti di reato, ma anche ai beni, compresi i redditi e gli altri benefici indiretti, ottenuti convertendo o trasformando i proventi diretti di reato o mescolandoli con altri beni, eventualmente leciti.
Infine, le misure di confisca potrebbero essere applicate non solo alle persone direttamente sospettate di reati, ma anche a qualsiasi terzo che detenesse diritti di proprietà senza la necessaria buona fede al fine di dissimulare il loro ruolo illecito nell’accumulo dei beni in questione (v. G. e a., §§ 105 e 107, nonché T. e V., § 76, entrambi citati sopra).
- Nel valutare se le misure di confisca fossero compatibili con le garanzie sancite dall’articolo 1 del protocollo n. 1, la Corte ha valutato, in primo luogo, la natura dei reati presupposto e, in particolare, la loro gravità e la questione se si potesse presumere che essi generassero redditi illeciti (v. sentenza T. e a., cit., § 200, e, in particolare, Y. e a., cit., § 115, quest’ultimo riguardante una confisca non basata sulla condanna simile a quella di cui trattasi nel caso di specie).
La Corte ha espresso serie preoccupazioni in merito alla legislazione nazionale che prevede che le procedure per l’imposizione di misure analoghe possano essere avviate non solo da reati particolarmente gravi, come quelli connessi alla criminalità organizzata, al traffico di stupefacenti, alla corruzione nella pubblica amministrazione o al riciclaggio di denaro, o da altri reati che si presume generino sempre introiti, ma anche da una serie di altri reati, oltre ad alcuni illeciti amministrativi (v., in particolare, Y. e a., § 115, e T. e a., § 200, entrambi sopra citati).
Inoltre, sebbene la Corte abbia ritenuto legittimo che le autorità nazionali competenti emettessero provvedimenti di confisca sulla base di una preponderanza di prove che suggerivano che i redditi legittimi dei convenuti non avrebbero potuto essere sufficienti per acquisire il bene in questione (si vedano G. e altri, § 107; T. e V., § 68; e B., § 91, tutti sopra citati), ha chiarito che la possibilità di imporre le misure dovrebbe essere subordinata alla necessità di individuare discrepanze “significative” tra il reddito legale accertato di una persona e i beni da essa posseduti (si veda T. e altri, sopra citata, § 204).
- In secondo luogo, la Corte ha chiarito che era necessario che le autorità nazionali stabilissero un nesso tra i beni da confiscare e i reati presupposto che erano stati presumibilmente commessi dalla persona in questione (v. T. e a., sopra citata, § 212, relativo a una confisca prorogata successiva alla condanna, e Y. e a., sopra citata, § 124, anch’esso relativo a una confisca non basata sulla condanna).
Tale approccio è stato sviluppato dalla Corte nelle cause T. e a. e Y. e a. sulla base della precedente giurisprudenza della Corte. In particolare, la Corte ha rilevato che, in casi precedenti, essa aveva preso in considerazione la questione se le autorità nazionali che avevano disposto la confisca avessero accertato la provenienza criminale dei beni di cui trattasi.
Ad esempio, in G.I.E.M. S.R.L. e altri c. Italia ([GC], nn. 1828/06 e altri 2, § 301, 28 giugno 2018) ha rilevato nella sua analisi di proporzionalità il grado di colpevolezza o negligenza da parte dei ricorrenti. In altri casi, come P. (sopra citato, § 53), V. (sopra citato, § 74) e S. (sopra citato, § 68), aveva cercato di assicurarsi che l’origine illecita o criminale dei beni da confiscare fosse stata accertata nel procedimento interno, anche se non secondo un livello di prova penale.
Per contro, la Corte ha riscontrato violazioni delle disposizioni della Convenzione in alcuni altri casi di confisca in cui le autorità nazionali non avevano dimostrato che i beni confiscati erano proventi di reato o non avevano intrapreso alcuna valutazione dei beni esatti che avrebbero potuto essere ottenuti con il crimine (si veda G. c. Paesi Bassi, n. 30810/03, § 47, 1 marzo 2007, e R., sopra citato, § 107).
- Di conseguenza, la Corte ha dichiarato che, nel determinare se il giusto equilibrio richiesto dall’articolo 1 del Protocollo n. 1 fosse stato raggiunto nei casi di confisca di beni presumibilmente derivanti da attività illecite, essa doveva valutare se i giudici nazionali avessero fornito alcuni dettagli in merito alla presunta condotta criminosa da cui i beni da confiscare avevano presumibilmente avuto origine, e ha dimostrato in modo motivato che tali beni avrebbero potuto essere i proventi della condotta criminosa di cui si presume l’esistenza o la presunta esistenza (v. T. e a., § 215, e Y. e a., § 124, entrambi sopra citati).
- Per quanto riguarda, in particolare, la misura di “confisca preventiva” prevista dal diritto italiano, nella sentenza G. e a. (sopra citata), la Corte ha dichiarato che essa non poteva essere considerata una pena, ai sensi dell’articolo 7 della Convenzione, a causa di una serie di limitazioni previste dal diritto e dalla giurisprudenza nazionali applicabili e, in particolare, il fatto che la confisca in questione potesse essere applicata esclusivamente nei confronti di beni che si presumeva avessero avuto origine da attività illecite, a causa della mancanza di prove che dimostrassero la loro provenienza lecita (ibid., § 129);
che la misura poteva essere giustificata solo nella misura in cui i reati presumibilmente commessi dall’individuo interessato erano fonte di profitti illeciti, in un importo ragionevolmente congruente con il valore dei beni da confiscare (ibid., § 130);
che la misura poteva essere applicata solo in relazione ai beni acquisiti dall’interessato durante il periodo in cui egli aveva presumibilmente commesso reati che comportavano profitti illeciti, dimostrando così che tale misura mirava a prevenire l’arricchimento senza causa sulla base della commissione di reati (ibidem, § 131);
e che doveva essere applicato solo in relazione ai profitti illeciti derivanti dai reati presumibilmente commessi dall’individuo interessato, senza estendersi al prodotto del reato (ibid., § 132).
- In terzo luogo, per quanto riguarda le garanzie procedurali e, in particolare, il livello di prova imposto alle autorità nazionali, ogniqualvolta una decisione di confisca è stata il risultato di un procedimento relativo ai proventi di reato derivanti da reati gravi, la Corte non ha richiesto la prova “al di là di ogni ragionevole dubbio” dell’origine illecita dei beni nell’ambito di tale procedimento. Invece, la prova basata su un equilibrio di probabilità o su un’alta probabilità di origini illecite, combinata con l’incapacità del proprietario di dimostrare il contrario, è stata ritenuta sufficiente ai fini del test di proporzionalità ai sensi dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 (vedi S., §§ 60-70; B., § 91; T. e V., § 68; e Z., § 62, tutti citati sopra).
Tuttavia, la Corte ha chiarito che l’ordinamento giuridico interno dovrebbe limitare il periodo di tempo durante il quale i beni in questione possono essere confiscati, al fine di non rendere eccessivamente oneroso per l’interessato fornire la prova del reddito lecito o della provenienza lecita di beni acquisiti molti anni prima dell’apertura del procedimento di confisca (v. sentenza T. e a., § 201-02, e Y. e a., §§ 116-17, entrambi sopra citati).
- Inoltre, la Convenzione ha concesso alle autorità nazionali un margine di manovra per applicare le misure di confisca non solo alle persone direttamente accusate di reati, ma anche ai loro familiari e ad altri parenti stretti che si presume posseggano e gestiscano i beni “illeciti” in modo informale per conto dei presunti autori del reato, o che altrimenti non avevano il necessario status in buona fede (v. G. e a., sopra citato, § 107, e T. e V., sopra citato, § 68, con ulteriori riferimenti).
La Corte ha ritenuto ragionevole che i richiedenti che si presumeva avessero beneficiato indebitamente dei proventi dei reati commessi dai familiari fossero tenuti ad assolvere la loro parte dell’onere della prova confutando i sospetti fondati del pubblico ministero circa l’origine illecita dei loro beni (si vedano B., § 91, e T. e V., § 77, entrambi sopra citati).
Tuttavia, la Corte ha richiesto alle autorità nazionali di dimostrare la prova di un nesso tra il bene in questione e i reati commessi dal presunto autore del reato, senza basarsi sulla mera discrepanza tra le entrate e le spese della persona che possiede il bene (si veda T. e altri, sopra citata, § 221).
- Fintantoché l’analisi relativa al nesso tra i beni da confiscare e i reati presupposto è stata effettuata, la Corte si rimetterà generalmente alla valutazione dei giudici nazionali, a meno che i ricorrenti non abbiano dimostrato che tale valutazione è arbitraria o manifestamente irragionevole (v. sentenza Y. e a., sopra citata, § 125, con ulteriori riferimenti).
β) Applicazione dei principi di cui sopra al caso di specie
- Alla luce dei principi generali sopra ricordati e tenendo conto delle censure dei ricorrenti, la Corte ritiene che, nel caso di specie, essa sia tenuta a valutare se i giudici nazionali abbiano dimostrato in modo motivato e sulla base di una valutazione obiettiva dei fatti e delle prove che si poteva presumere che i beni confiscati fossero stati acquistati con i proventi di reati gravi che generavano introiti illeciti (v. punto 74 supra). In tale contesto, la Corte ha imposto alle autorità nazionali di fornire almeno alcune precisazioni relative all’asserito comportamento illecito che avrebbe portato all’acquisizione dei beni da confiscare e di stabilire un nesso tra tali beni e il comportamento illecito (sentenza T. e a., cit., §§ 220 e 238), in particolare da un punto di vista temporale. La Corte sottolinea che una siffatta valutazione è richiesta non solo dalla sua giurisprudenza, ma anche dalla giurisprudenza nazionale pertinente (v. punti 23-32 supra).
- Nel caso di specie, la Corte rileva che le autorità nazionali hanno osservato che il primo ricorrente aveva commesso diversi reati tra il 1980 e il 1998 – tra cui rapine e tentate rapine nel 1980, 1993, 1994, 1995 e 1998, furto aggravato nel 1980, estorsione nel 1987, associazione per delinquere finalizzata a commettere una rapina tra il 1990 e il 1995 e ricettazione nel 1995, e hanno inoltre notato che aveva commesso un altro furto nel 2008 (si veda il paragrafo 7 sopra).
Il Tribunale rileva che, secondo il casellario giudiziale del ricorrente, quest’ultimo reato era un tentativo di furto (si veda il paragrafo 8 supra). Il procedimento di confisca è iniziato nel 2018 con la richiesta del questore e si è concluso nel 2022 con la sentenza definitiva della Corte di Cassazione che ha confermato la decisione del giudice di merito sulla confisca (si vedano i paragrafi 5 e 19 supra).
- In primo luogo, la Corte rileva di aver già espresso serie preoccupazioni quando ha constatato che le autorità nazionali avevano confiscato beni acquisiti molti anni dopo la commissione dei reati presupposto su cui si era basata la misura controversa (v. sentenze T. e a., cit., §§ 219 e 237, e, mutatis mutandis, D., sopra citata, § 46).
Nel caso di specie, la Corte rileva che non vi è alcuna ragione apparente per cui le autorità abbiano atteso dieci anni dopo la scadenza del periodo in cui il primo ricorrente aveva rappresentato un pericolo per la società (dal 1980 al 2008) per avviare il procedimento di confisca (v. punti 5 e 7 supra).
Inoltre, la Corte sottolinea che, secondo i giudici nazionali, il primo ricorrente ha rappresentato per la prima volta un pericolo per la società nel 1980, ossia trentotto anni prima (v. punto 7 supra).
- In secondo luogo, per quanto riguarda i dettagli della condotta criminosa che avrebbe potuto generare i presunti proventi di reato e la capacità di tali reati di generare introiti nel caso in esame, la Corte osserva quanto segue: le autorità nazionali si sono limitate a fare riferimento al fatto che il primo ricorrente era stato condannato per diversi reati (v. punti 7 e 13 supra).
Ciò senza effettuare alcuna valutazione sulla questione se i reati presupposti avessero nelle circostanze specifiche del caso di specie, un notevole vantaggio finanziario, in particolare in considerazione del fatto che il ricorrente è stato condannato in molti casi per tentati reati; che in un’occasione i tribunali nazionali hanno applicato le circostanze attenuanti, definite dall’articolo 62 § 6 del codice penale come “la riparazione integrale del danno prima del processo, sia attraverso il risarcimento o, ove possibile, attraverso la restituzione; [e] eliminare o mitigare le conseguenze dannose o pericolose del reato”.
Per quanto riguarda più specificamente il periodo compreso tra il 1998 e il 2008, il Tribunale rileva che il ricorrente, dopo aver trascorso un lungo periodo in carcere, ha commesso un tentativo di furto nel 2008 (v. punti 7 e 8 supra) e che le autorità non hanno fornito alcuna motivazione in merito al modo in cui tale reato avrebbe potuto generare introiti illeciti.
Inoltre, nella maggior parte dei casi, i giudici penali hanno emesso un provvedimento di confisca di beni non specificati al momento della condanna (si veda il paragrafo 8 supra). Tuttavia, il ragionamento dei giudici non affronta tali precedenti confische penali o il loro potenziale impatto sulla confisca preventiva dei beni dei richiedenti.
- Alla luce di quanto precede, e tenendo conto della citata giurisprudenza nazionale che impone di commettere “attività criminose (…) producano redditi illeciti” (si vedano i paragrafi 23-24 supra), la Corte ritiene che i giudici nazionali non abbiano dimostrato in modo motivato che si potesse presumere che il primo ricorrente avesse commesso abitualmente reati idonei a produrre redditi illeciti.
- In terzo luogo, per quanto riguarda il fatto che i beni confiscati avrebbero potuto essere proventi di una condotta criminosa, la Corte rileva che essi sono stati acquistati nel 2010, nel 2016 e nel 2018 (v. punto 6 supra), vale a dire – ad eccezione dell’acquisto nel 2010 – molti anni dopo la fine del periodo durante il quale si riteneva che il ricorrente avesse rappresentato un pericolo per la società (2008) e ancora più a lungo dopo che egli aveva commesso reati idonei di reddito illecito (1998).
- La Corte osserva che, nel caso di specie, i giudici nazionali hanno presunto l’esistenza di un nesso tra tali beni e il comportamento illecito contestato al primo ricorrente, per il solo motivo che i redditi legittimi dei ricorrenti erano insufficienti a giustificare il loro patrimonio (v. punti 9 e 13 supra).
La Corte osserva che, secondo la Corte d’Appello, il rapporto sproporzionato tra il patrimonio posseduto e il reddito potrebbe costituire l’unico indizio dell’origine illecita di tali beni (v. punto 13 supra).
Inoltre, la Corte di Cassazione ha precisato che per giustificare la provenienza dei beni oggetto di confisca, fornire “giustificazione per ogni singola operazione [era] parimenti irrilevante dato che il confronto tra risorse legittimamente disponibili e singoli acquisti [non poteva] essere effettuato in modo isolato, avulso dal contesto complessivo delle operazioni finanziarie e dei movimenti di beni effettuati all’interno delle stesse, un periodo di tempo limitato, ma [doveva] essere effettuato alla luce di una considerazione globale dei movimenti di beni durante il periodo di cui trattasi e della destinazione globale di tutte le risorse economiche disponibili” (v. punto 19 supra).
- Tuttavia, la Corte ha già dichiarato che, indipendentemente dal periodo di acquisto dei beni confiscati, il semplice riferimento alla discrepanza tra entrate e spese non è sufficiente a stabilire un nesso tra i reati presupposto e i beni confiscati (v. sentenza T. e a., sopra citata, § 221).
Pertanto, la Corte ritiene che il ragionamento dei giudici nazionali sia carente per quanto riguarda l’esistenza di un nesso tra i beni che possono essere confiscati e il comportamento illecito.
Inoltre, la Corte rileva che la Corte di cassazione ha precisato che, in linea di principio, era possibile confiscare solo i beni acquisiti durante il periodo di tempo in cui la persona di cui trattasi aveva rappresentato un pericolo per la società (v. punto 25 supra) e che, pertanto, i beni acquisiti al di fuori di tale periodo non potevano essere confiscati, indipendentemente dal fatto che il loro valore fosse sproporzionato rispetto al reddito lecito dell’individuo (v. punto 27 supra).
La giurisprudenza successiva ha precisato che i beni acquistati dopo tale periodo potevano essere confiscati, a condizione che fossero attuate alcune garanzie (v. punto 29 supra), che richiedevano, in particolare, che il giudice competente fornisse la prova dell’esistenza di molteplici elementi di fatto idonei a dimostrare che le acquisizioni di beni provenienti dalle ricchezze accumulate nel periodo in cui erano state commesse attività criminose, e con la precisazione che tali elementi di fatto dovevano essere dimostrati in modo più rigoroso e inequivocabile, tanto maggiore era il lasso di tempo trascorso dalla cessazione del pericolo per la società rappresentato dall’individuo in questione (v. punto 30 supra).
Inoltre, la Corte osserva che con la sentenza del 16 aprile 2020 la Corte di cassazione ha chiarito che, a determinate condizioni specifiche, la confisca preventiva potrebbe essere imposta anche in relazione a beni acquistati dopo il periodo durante il quale l’interessato aveva rappresentato un pericolo per la società.
Esso osserva inoltre che sia la richiesta del pubblico ministero di sequestro dei beni del ricorrente (v. punto 5 supra) sia la sentenza del Tribunale di Palermo che dispone tale sequestro (v. punto 6 supra) sono anteriori alla citata sentenza della Corte di cassazione.
- Inoltre, la Corte rileva inoltre che i giudici nazionali si sono basati anche sul fatto che il primo ricorrente aveva acquistato un immobile nel 1994, nel periodo in cui aveva commesso i reati che lo avevano portato a essere dichiarato un individuo che rappresentava un pericolo per la società, e ha osservato che tale bene era stato successivamente venduto, l’avvio di una catena di operazioni che, a loro avviso, ha portato alla fine all’acquisto dei beni confiscati nel caso di specie (v. punto 11 supra).
- Sulla base delle considerazioni che precedono (v. punti da 85 a 86 supra), la Corte osserva che le carenze individuate hanno viziato la valutazione di tale bene da parte dei giudici nazionali. Inoltre, oltre a limitarsi a fare riferimento alla discrepanza tra le entrate e le spese dei ricorrenti, i giudici nazionali non si sono impegnati in una valutazione rigorosa della catena di reinvestimenti che ha portato alla fine all’acquisto dei beni confiscati, mancando di fornire elementi specifici (si vedano i paragrafi 11, 13 e 19 supra).
A titolo di esempio, la Corte osserva che le autorità nazionali hanno confiscato i conti bancari aperti sei e otto anni dopo la fine del periodo in cui il primo ricorrente aveva rappresentato un pericolo per la società sulla base della mera discrepanza tra le entrate e le spese della famiglia e senza valutare in alcun modo le operazioni bancarie al fine di risalire all’origine del denaro.
A tal riguardo, occorre rilevare che la loro valutazione non soddisfaceva neppure il livello di prova ridotto richiesto dalla giurisprudenza della Corte per l’imposizione di misure analoghe (v. punto 76 supra).
Secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, la confisca di beni acquisiti dopo un considerevole lasso di tempo dal momento in cui la persona in questione è stata considerata un pericolo per la società era “subordinata alla presenza di elementi specifici che consentissero di ricondurre in modo rigoroso e inequivocabile l’acquisto in questione al reinvestimento diretto di capitali precedentemente accumulati in modo illecito” (v. punto 30 supra).
La Corte osserva che l’avvocato generale della Corte di cassazione non ha ritenuto che le decisioni dei giudici nazionali contenessero una siffatta motivazione (v. punto 18 supra).
Pertanto, la Corte ritiene che il ragionamento dei giudici nazionali non abbia soddisfatto il requisito di un collegamento temporale tra i beni confiscati e i reati che avrebbero generato il reddito illecito.
- Prima di concludere, la Corte rileva altresì che nessuno dei beni confiscati nel caso di specie era ufficialmente di proprietà del primo ricorrente, che era il destinatario dell’atto impugnato, ma era piuttosto di proprietà del secondo e del terzo ricorrente (v. punto 6 supra), i quali non erano stati riconosciuti dalle autorità nazionali come individui che rappresentavano un pericolo per la società.
Tuttavia, le decisioni dei tribunali nazionali non includevano alcun tipo di motivazione sul motivo per cui i beni confiscati potessero essere considerati a disposizione del primo richiedente, come richiesto dal diritto nazionale (si veda il paragrafo 22 supra). Essi si sono limitati a basarsi sul fatto che il secondo e il terzo ricorrente non disponevano di redditi legali sufficienti per giustificare l’acquisto dei beni confiscati (v. punto 9 supra).
I tribunali nazionali hanno quindi ipotizzato l’esistenza di un nesso tra i beni confiscati e le attività criminali del primo ricorrente e che si trattasse quindi di proventi di reato, dopo aver constatato che il secondo e il terzo ricorrente non avevano fornito la prova di un reddito legale sufficiente (si veda T. e altri, sopra citata, § 246).
- La Corte ritiene pertanto che le decisioni dei giudici nazionali non abbiano fornito alcuna motivazione che dimostrasse che i beni confiscati, acquistati nel 2010, 2016 e 2018 dal secondo e dal terzo ricorrente, potessero essere considerati acquisiti con i proventi dei reati commessi tra il 1980 e il 1998 dal primo ricorrente, e che fossero a sua disposizione.
Esse non hanno quindi dimostrato in modo motivato e sulla base di una valutazione obiettiva dei fatti e delle prove che si potesse presumere che i beni confiscati fossero stati acquistati con i proventi dei reati commessi dal primo ricorrente.
(γ) Conclusioni
- Alla luce di quanto precede, e ribadendo che il suo potere di controllo sul rispetto del diritto interno è limitato ai casi di applicazione manifestamente errata delle disposizioni giuridiche in questione o di conclusioni arbitrarie (v. punto 78 supra; v. anche B.P., spol. s r.o. c. Repubblica ceca, n. 33908/04, § 97, 24 febbraio 2011, e B.H., a.s. c. Slovacchia, n. 55617/17, § 65, 30 giugno 2022), la Corte ritiene che le carenze nelle decisioni dei tribunali nazionali fossero così gravi e manifestamente incompatibili con molte delle limitazioni e delle garanzie stabilite dal diritto e dalla giurisprudenza nazionali pertinenti che la misura deve essere considerata imposta in modo arbitrario o manifestamente irragionevole.
In particolare, la Corte ritiene che le decisioni dei giudici nazionali non abbiano rispettato le limitazioni stabilite dal diritto interno per quanto riguarda l’identificazione dei reati che producono introiti illeciti (si veda il paragrafo 82 supra), la delimitazione temporale dei beni che potevano essere legittimamente oggetto di confisca (si veda il paragrafo 86 supra) e l’identificazione dei beni che, benché ufficialmente di proprietà di terzi, erano considerati a disposizione della persona di cui trattasi (v. punto 89 supra).
- In ogni caso, e anche supponendo che le limitazioni stabilite dal diritto interno non siano state così gravemente violate, il fatto che il procedimento sia stato avviato molti anni dopo gli ultimi reati (v. punto 81 supra) e che le autorità nazionali non abbiano dimostrato alcun nesso tra le attività criminose del primo ricorrente e i beni confiscati (v. punti 82, 86, 88 e 90 supra) è sufficiente perché la Corte dichiari che non è stato raggiunto il necessario giusto equilibrio tra gli obiettivi legittimi di interesse generale perseguiti dalla misura in questione e i diritti individuali dei ricorrenti, vale a dire che la confisca dei beni dei ricorrenti costituiva un’ingerenza sproporzionata nei loro diritti ai sensi dell’articolo 1 del protocollo n. 1.
- Di conseguenza, vi è stata una violazione dell’articolo 1 del protocollo n. 1.
III. APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE
- L’articolo 41 della Convenzione prevede quanto segue:
“Se la Corte constata che vi è stata una violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli, e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente interessata consente solo una riparazione parziale, la Corte, se necessario, accorda la giusta soddisfazione alla parte lesa”.
- Danni
- Argomenti delle parti
- I ricorrenti hanno chiesto al Tribunale di ordinare la restituzione dei beni confiscati o, in subordine, di concedere un risarcimento pecuniario basato sul valore dei beni confiscati al momento del loro acquisto, come stabilito nella decisione del giudice di primo grado.
- Il Governo ha sostenuto che l’affermazione dei ricorrenti era generica e infondata.
- Valutazione della Corte
- La Corte ribadisce che una sentenza con la quale la Corte constata una violazione impone allo Stato convenuto l’obbligo giuridico di porre fine alla violazione e di risarcire le sue conseguenze in modo tale da ripristinare, per quanto possibile, la situazione esistente prima della violazione [v. K. e a. c. Slovenia (equa soddisfazione) [GC], n. 26828/06, § 79, CEDU 2014 e M.S. c. Grecia (giusta soddisfazione) [GC], n. 20452/14, § 32, 18 giugno 2020).
Gli Stati contraenti parti di una controversia sono, in linea di principio, liberi di scegliere i mezzi con cui conformarsi a una sentenza in cui la Corte ha accertato una violazione.
Tale margine di discrezionalità per quanto riguarda le modalità di esecuzione di una sentenza riflette la libertà di scelta connessa all’obbligo primario degli Stati contraenti, ai sensi della Convenzione, di assicurare i diritti e le libertà garantiti (articolo 1 della Convenzione).
Se la natura della violazione consente la restitutio in integrum, spetta allo Stato convenuto effettuarla, senza che la Corte abbia né il potere né la possibilità pratica di farlo essa stessa. Se, d’altro canto, il diritto nazionale non consente – o consente solo parzialmente – di risarcire le conseguenze della violazione, l’articolo 41 autorizza la Corte a concedere alla parte lesa la soddisfazione che le sembra appropriata (si veda G.I.E.M. S.r.l. e altri c. Italia (giusta soddisfazione) [GC], nn. 1828/06 e altri 2, § 37, 12 luglio 2023, con ulteriori riferimenti).
- Nei casi di presunto danno patrimoniale derivante dalla confisca di beni immobili in violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 della Convenzione, i fattori rilevanti da prendere in considerazione per stabilire l’entità del danno includono in particolare il valore dei terreni e/o delle costruzioni prima della loro confisca, l’esistenza o meno dell’esistenza di un terreno edificabile in tale data, l’uso previsto del terreno in questione ai sensi della legislazione e dei piani regolatori pertinenti, la durata dell’impossibilità di utilizzare il terreno e la perdita di valore causata dalla confisca, detraendo, se del caso, il costo della demolizione di eventuali edifici illegali (ibidem, § 40).
- Pertanto, la Corte ritiene opportuno imporre allo Stato convenuto di garantire, con mezzi adeguati e senza indebito ritardo, che i beni in questione (v. punto 6 supra) siano restituiti ai ricorrenti.
- La Corte rileva inoltre che, nei casi in cui ha ordinato la restituzione di beni illegittimamente espropriati dallo Stato, ha dichiarato che, in caso di impossibilità di restituzione, lo Stato doveva versare ai ricorrenti una somma corrispondente al valore dei beni nel momento in cui il ricorrente ne ha perso la proprietà [v. G.G. c. Italia (giusta soddisfazione) [GC], n. 58858/00, § 103, 22 dicembre 2009, V. e P., sopra citato, § 111).
- Nel caso di specie, i ricorrenti hanno chiesto, in alternativa alla restituzione, il rimborso del valore dei beni al momento della loro acquisizione, come determinato nella decisione del giudice di primo grado.
- La Corte ritiene che, qualora la restituzione dei beni confiscati fosse impossibile a causa di eventuali danni o distruzioni dei beni in questione che potrebbero essersi verificati nel frattempo, lo Stato convenuto deve rimborsare il valore di tali beni (v., mutatis mutandis, A.G. c. Azerbaijan, n. 30352/11, § 73, 2 febbraio 2023) come stabilito nella decisione del giudice di primo grado (v. punti 6 e 7 supra).
- Infine, si deve rilevare che le ricorrenti non hanno presentato alcuna domanda di risarcimento di un danno morale. La Corte ritiene pertanto che non sussista alcuna chiamata a concedere loro alcuna somma neppure per questo motivo.
- Costi e spese
- Le ricorrenti hanno chiesto il rimborso delle spese e delle spese sostenute nel corso del procedimento, senza fornire alcuna precisazione.
- Il Governo ha sostenuto che l’affermazione dei ricorrenti era generica e priva di fondamento.
- Secondo la giurisprudenza della Corte, un ricorrente ha diritto al rimborso delle spese solo nella misura in cui sia stato dimostrato che esse sono state effettivamente e necessariamente sostenute e sono ragionevoli quanto al loro quantum.
Vale a dire che il richiedente deve averli pagati, o essere tenuto a pagarli, in forza di un obbligo legale o contrattuale, e devono essere stati inevitabili al fine di prevenire le violazioni constatate o di ottenere un risarcimento.
La Corte richiede bollette e fatture dettagliate e sufficientemente dettagliate da consentirle di determinare in che misura i requisiti di cui sopra siano stati soddisfatti (si veda G.G. c. Italia, n. 10794/12, § 152, 22 giugno 2023).
Nel caso di specie, il Tribunale rileva che i ricorrenti non hanno presentato alcun elemento di prova (fatture o fatture) in merito ai costi e alle spese sostenute, né che dimostrino di essere tenuti a pagarli per legge o per contratto. Pertanto, tale argomentazione deve essere respinta per mancanza di fondamento.
P.Q.M.
1) dichiara ricevibili i ricorsi a maggioranza.
- Dichiara, con sei voti contro uno, che vi è stata violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 della Convenzione;
- dichiara, con sei voti contro uno, che lo Stato convenuto garantisce, con i mezzi appropriati e senza indebito ritardo, che i beni in questione (cfr. paragrafo 6 supra) siano restituiti ai richiedenti o, qualora tale restituzione sia impossibile, che il loro valore, come determinato nella decisione del tribunale di primo grado, sia rimborsato ai richiedenti;
4) Per il resto, la domanda di equa soddisfazione dei ricorrenti è respinta.