Corte Costituzionale, sentenza 8 luglio 2025 n. 103
PRINCIPIO DI DIRITTO
Il legislatore gode di ampia discrezionalità, nei limiti della proporzionalità, nella determinazione delle pene applicabili a chi abbia commesso reati, con argomentazioni estensibili anche alle sanzioni amministrative. Queste ultime «condividono, infatti, con le pene il carattere reattivo rispetto a un illecito, per la cui commissione l’ordinamento dispone che l’autore subisca una sofferenza in termini di restrizione di un diritto […] che trova, dunque, la sua “causa giuridica” proprio nell’illecito che ne costituisce il presupposto. Allo stesso modo che per le pene […] anche per le sanzioni amministrative si prospetta, dunque, l’esigenza che non venga manifestamente meno un rapporto di congruità tra la sanzione e la gravità dell’illecito sanzionato; evenienza nella quale la compressione del diritto diverrebbe irragionevole e non giustificata» […] Nel caso di specie, la misura della sanzione, quantunque significativa, non è tale da connotare la scelta del legislatore come irragionevole o arbitraria. Si è osservato, infatti, che la condotta sanzionata è munita di particolare disvalore, poiché l’omesso versamento delle ritenute da parte del datore di lavoro si traduce nella distrazione di somme delle quali egli ha la disponibilità, benché le stesse facciano già ontologicamente parte della retribuzione del lavoratore e siano destinate all’erogazione di prestazioni essenziali e attinenti a beni irrinunciabili.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
1.– Con due ordinanze del 14 agosto 2024 e del 3 ottobre 2024, iscritte rispettivamente ai numeri 178 e 195 del reg. ord. 2024, il Tribunale di Brescia ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1-bis, del decreto-legge n. 463 del 1983, come convertito, nel testo modificato dall’art. 23, comma 1, del decreto-legge n. 48 del 2023, come convertito, in riferimento all’art. 3 Cost.
2.– La norma, censurata nella parte in cui prevede che, in caso di omesso versamento, da parte del datore di lavoro, delle ritenute previdenziali ed assistenziali sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, «[s]e l’importo omesso non è superiore a euro 10.000 annui, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da una volta e mezza a quattro volte l’importo omesso», sarebbe in contrasto con il canone di ragionevolezza, in quanto dispone l’applicazione di una sanzione sproporzionata rispetto al fatto, attesa la non graduabilità del minimo edittale in relazione alle condizioni soggettive del trasgressore.
Da ciò deriverebbe una disparità nel trattamento sanzionatorio dei trasgressori, poiché l’individualizzazione della sanzione sarebbe consentita solo per le violazioni più gravi e non per quelle più lievi, attesa l’inderogabilità del minimo edittale; quest’ultimo, poi, sarebbe manifestamente sproporzionato nei casi in cui l’omesso versamento sia dipeso «da circostanze esterne sulle quali non sempre può incidere il comportamento dell’autore».
Infine, un ulteriore profilo di irragionevolezza sarebbe desumibile dal fatto che l’importo oggetto di sanzione amministrativa, in molti casi, risulterebbe più elevato di quello che si determina per effetto della conversione della pena detentiva prevista dalla legge per l’ipotesi, costituente reato, in cui l’omesso versamento superi la soglia di euro 10.000 annui.
3.– I due giudizi vanno riuniti, poiché hanno ad oggetto la medesima disposizione, censurata in riferimento allo stesso parametro.
4.– L’esame della questione implica lo svolgimento di alcune considerazioni preliminari sull’evoluzione della disciplina sanzionatoria oggetto di scrutinio.
4.1.– L’art. 2, comma 1, del d.l. n. 463 del 1983, come convertito, fa obbligo al datore di lavoro di versare le ritenute previdenziali e assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti.
Si tratta, in particolare, di contributi posti a carico del lavoratore e finalizzati all’erogazione di prestazioni che gli assicurano una copertura da rischi connessi alla sua attività; il relativo versamento, tuttavia, avviene tramite ritenuta alla fonte da parte del datore di lavoro, tenuto a versare periodicamente l’importo dovuto all’ente di gestione previdenziale.
4.2.– Al fine di contrastare l’evasione contributiva, la stessa norma, nel testo originario, prevedeva che l’omesso versamento costituisse reato e fosse punito «con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a L. 2.000.000 [a euro 1.032]».
In seguito, con il d.lgs. n. 8 del 2016, nel contesto di un più ampio intervento di depenalizzazione di reati di minore gravità, il legislatore ha limitato la rilevanza penale del fatto all’omesso versamento di ritenute per un importo superiore a euro 10.000 annui, con applicazione, al di sotto di tale soglia, di una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 a euro 50.000.
La sanzione amministrativa applicabile è quella tipicamente prevista per gli illeciti depenalizzati, tant’è che l’art. 6 del d.lgs. n. 8 del 2016 dispone, in merito al relativo procedimento, che «si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni delle sezioni I e II del capo I della legge 24 novembre 1981, n. 689».
Infine, la misura della sanzione è stata modificata dall’art. 23, comma 1, del d.l. n. 48 del 2023, come convertito, che ha sostituito le parole «da euro 10.000 a euro 50.000» con le parole «da una volta e mezza a quattro volte l’importo omesso».
5.– Poste tali premesse, si possono esaminare le eccezioni di inammissibilità sollevate dal Presidente del Consiglio dei ministri, secondo il quale, anzitutto, il rimettente non avrebbe offerto una soluzione costituzionalmente adeguata per l’ipotesi in cui le questioni fossero accolte; in particolare, la misura prospettata – ovvero la determinazione di un ammontare minimo per le sanzioni amministrative pecuniarie, pari ad euro 10 come disposto dall’art. 10 della legge n. 689 del 1981 – comporterebbe un trattamento troppo mite rispetto alle violazioni alle quali si riferisce.
Inoltre, la questione di cui all’ordinanza n. 195 del 2024 sarebbe inammissibile per difetto di rilevanza, perché gli argomenti del rimettente sull’eccessività della sanzione non sono riferiti al minimo edittale di legge, ma all’ammontare degli importi richiesti nel caso concreto.
5.1.– Entrambe le eccezioni sono non fondate.
Quanto alla prima, questa Corte ha più volte affermato che le soluzioni costituzionalmente adeguate a ricondurre a legittimità una disciplina in materie riservate alla discrezionalità del legislatore, quale è certamente il trattamento sanzionatorio di illeciti depenalizzati, possono essere «tratte da discipline già esistenti, che si inseriscano nel tessuto normativo coerentemente con la logica perseguita dal legislatore», sì da consentire l’adozione di un «rimedio nell’immediato al vulnus riscontrato, senza creare insostenibili vuoti di tutela degli interessi tutelati dalla norma incriminatrice» (sentenza n. 138 del 2024; nello stesso senso, in precedenza, sentenze n. 46 del 2024, n. 95 e n. 28 del 2022, n. 233 e n. 222 del 2018).
Tale requisito appare soddisfatto dall’indicazione del rimettente, che ha ad oggetto una misura reperita nel sistema delle sanzioni amministrative delineato dalla legge n. 689 del 1981, al quale, come si è detto, fa esplicito riferimento la disciplina in esame.
Peraltro, il rinvenimento di soluzioni adeguate spetta a questa Corte, che non è in alcun modo vincolata alla formulazione del petitum, sicché, ove il rimettente non offra soluzioni, non resta compromessa l’ammissibilità della questione (sentenze n. 90 del 2024, n. 221 del 2023 e n. 59 del 2021).
5.2.– Quanto alla seconda eccezione, non è condivisibile l’assunto in base al quale il rimettente avrebbe svolto considerazioni solo sulla sanzione concretamente irrogata, e non sul minimo edittale.
Il rimettente, infatti, ha argomentato circa l’irragionevolezza della norma censurata con riferimento alla cornice edittale stabilita, osservando che, anche ove ridotta in misura corrispondente al minimo, la sanzione irrogata appare eccessiva rispetto all’illecito cui si riferisce.
6.– Nel merito, la questione non è fondata.
6.1.– Circa l’irragionevolezza della previsione sanzionatoria per intrinseca sproporzione rispetto alle condotte illecite, questa Corte ha costantemente affermato che il legislatore gode di ampia discrezionalità, nei limiti della proporzionalità, nella determinazione delle pene applicabili a chi abbia commesso reati (ex multis, sentenze n. 48 del 2024, n. 207 del 2023 e n. 117 del 2021), con argomentazioni estensibili anche alle sanzioni amministrative.
Queste ultime «condividono, infatti, con le pene il carattere reattivo rispetto a un illecito, per la cui commissione l’ordinamento dispone che l’autore subisca una sofferenza in termini di restrizione di un diritto (diverso dalla libertà personale, la cui compressione in chiave sanzionatoria è riservata alla pena); restrizione che trova, dunque, la sua “causa giuridica” proprio nell’illecito che ne costituisce il presupposto. Allo stesso modo che per le pene – pur a fronte dell’ampia discrezionalità che al legislatore compete nell’individuazione degli illeciti e nella scelta del relativo trattamento punitivo – anche per le sanzioni amministrative si prospetta, dunque, l’esigenza che non venga manifestamente meno un rapporto di congruità tra la sanzione e la gravità dell’illecito sanzionato; evenienza nella quale la compressione del diritto diverrebbe irragionevole e non giustificata» (sentenze n. 95 del 2022 e n. 185 del 2021; in senso conforme, sentenze n. 112 del 2019 e n. 22 del 2018).
Tale congruità, chiarisce la prima delle menzionate decisioni, dev’essere verificata in relazione al grado di disvalore dell’illecito sanzionato, mediante un raffronto fra il bene protetto dalla norma che lo prevede e il bene inciso dalla misura sanzionatoria.
6.2.– Nel caso di specie, la misura della sanzione, quantunque significativa, non è tale da connotare la scelta del legislatore come irragionevole o arbitraria.
Si è osservato, infatti, che la condotta sanzionata è munita di particolare disvalore, poiché l’omesso versamento delle ritenute da parte del datore di lavoro si traduce nella distrazione di somme delle quali egli ha la disponibilità, benché le stesse facciano già ontologicamente parte della retribuzione del lavoratore e siano destinate all’erogazione di prestazioni essenziali e attinenti a beni irrinunciabili.
In relazione a tale illecito, del resto, questa Corte – seppure al fine di valutare la congruità delle conseguenze sotto profili diversi da quelli qui in esame – ha affermato che esso «determina un rischio di pregiudizio del lavoro e dei lavoratori, la cui tutela è assicurata da un complesso di disposizioni costituzionali contenute nei principi fondamentali e nella parte I della Costituzione (artt. 1,4,35,38 della Costituzione)» (sentenza n. 139 del 2014; ordinanza n. 206 del 2003).
Pertanto, la misura della sanzione minima appare giustificata, in quanto commisurata al rango del bene protetto dalla norma.
6.3.– Gli ulteriori rilievi del rimettente non incidono su tali considerazioni.
Il fatto che l’omesso versamento per un ammontare modesto sia punito con la sanzione minima è coessenziale a tutte le sanzioni per le quali l’ordinamento prevede una cornice edittale, proprio al fine di adeguare la sanzione alle particolarità della fattispecie concreta (sentenze n. 185 del 2021, n. 112 e n. 88 del 2019).
Non si pone, invece, un problema di sproporzione della sanzione in relazione all’ipotesi, evocata dal giudice a quo, in cui l’omesso versamento sia dipeso «da circostanze esterne sulle quali non sempre può incidere il comportamento dell’autore»; ove sussistenti, infatti, tali circostanze non rilevano ai fini della graduazione della sanzione ma, piuttosto, valgono a escludere la responsabilità, ben potendo l’illecito essere escluso dalla mancanza dell’elemento soggettivo, secondo quanto previsto dall’art. 3 della legge n. 689 del 1981.
6.4.– Infine, la denunziata irragionevolezza non sussiste neppure al cospetto della comparazione, sul piano effettuale, della responsabilità in questione con quella conseguente a violazioni che superano la soglia di rilevanza penale.
Il rimettente, al riguardo, opera un raffronto di tipo puramente aritmetico, rappresentando la possibilità che la pena detentiva per il fatto di reato, ove convertita in pena pecuniaria, abbia un importo inferiore a quello della sanzione amministrativa.
6.5.– Un tale modus procedendi non risulta rispettoso del canone di necessaria omogeneità che deve presiedere alla valutazione comparativa di due fattispecie, nella prospettiva di una possibile diseguaglianza o irragionevolezza per disparità di trattamento.
Il rimettente, infatti, non tiene conto delle ontologiche diversità, strutturali e di contenuto, che sussistono fra responsabilità penale e responsabilità amministrativa.
La prima può essere accertata soltanto in sede giudiziale e, per tale ragione, è connotata da un’ampia portata afflittiva, che trascende la dimensione della sola pena concretamente irrogata e non trova riscontro nella responsabilità amministrativa.
Contribuiscono al carattere maggiormente afflittivo della responsabilità penale il fatto che il trasgressore viene sottoposto a indagini ed eventualmente a giudizio, e gli effetti che l’ordinamento ricollega a tali vicende, come, ad esempio, le restrizioni in termini di capacità di contrattare alle quali può soggiacere l’imprenditore.
Anche sul piano meramente sanzionatorio, poi, il rimettente trascura di considerare che il fatto di reato è punito anche con una sanzione pecuniaria e che, quantomeno in linea generale, una condanna in sede penale può arrecare ulteriori conseguenze a carico del responsabile, come le pene accessorie o l’obbligo di risarcire il danneggiato.
Infine, il giudice a quo muove dal presupposto dell’automatica convertibilità della pena detentiva in pena pecuniaria, senza considerare il fatto che non si tratta di un automatismo, ma del frutto di una valutazione operata dal giudice nel caso concreto, sulla base di specifici presupposti, e con la possibilità che, ove la pena convertita resti ineseguita, sia disposta la revoca del beneficio con applicazione di una diversa sanzione sostitutiva.
Pertanto, la sola astratta possibilità che, sul piano aritmetico e a prescindere dalla correttezza del criterio di conguaglio utilizzato, si verifichi l’evenienza paventata dal rimettente non è significativa di una maggiore afflittività della sanzione amministrativa e, di conseguenza, non vale a far ritenere irragionevole la previsione sanzionatoria censurata.