Corte Costituzionale, sentenza 03 luglio 2025 n. 94
PRINCIPIO DI DIRITTO
Va dichiarata, a decorrere dal giorno successivo alla pubblicazione di questa sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 16, della legge n. 335 del 1995, nella parte in cui non esclude, dal divieto di applicazione delle disposizioni sull’integrazione al minimo, l’assegno ordinario d’invalidità liquidato interamente con il sistema contributivo.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
1.– La Corte di cassazione, sezione lavoro, dubita della compatibilità con gli artt. 3 e 38, secondo comma, Cost., dell’art. 1, comma 16, della legge n. 335 del 1995, il quale, «in combinato disposto» con l’art. 1, comma 3, della legge n. 222 del 1984, nell’escludere l’integrazione al minimo per tutte le pensioni liquidate esclusivamente con il sistema contributivo, non ne consente la corresponsione anche per l’assegno ordinario di invalidità che sia calcolato interamente con tale criterio.
2.– Per il giudice a quo, l’integrazione al minimo dell’assegno ordinario di invalidità svolge la funzione tipica delle prestazioni previdenziali, consistente nel garantire al percettore mezzi adeguati alle «esigenze di vita», secondo la previsione dell’art. 38, secondo comma, Cost.
Rispetto a tale presidio costituzionale, quindi, non avrebbe alcuna incidenza il sistema di computo adottato in base alla disciplina tempo per tempo vigente, risultando irragionevole e discriminatorio – e perciò in contrasto anche con l’art. 3 Cost. – distinguere tra i criteri retributivo e contributivo, per consentire l’integrazione al minimo solo dell’assegno ordinario d’invalidità liquidato in base al primo.
Neppure potrebbe soccorrere, in questa prospettiva, l’eventuale fruibilità di altre prestazioni di natura assistenziale (ad esempio, come nel caso di specie, l’assegno per l’invalidità civile), per la chiara distinzione tra i «mezzi necessari per vivere» e i «mezzi adeguati alle […] esigenze di vita», che l’art. 38 Cost. riserva, rispettivamente, a tutti i cittadini inabili al lavoro e sprovvisti di risorse sufficienti, ai sensi del primo comma, e ai lavoratori colpiti dagli eventi indicati nel secondo comma.
Più in generale, il rimettente osserva che l’esclusione dell’integrazione al minimo sarebbe stata compensata, per tutti gli altri trattamenti pensionistici, dalla possibilità (riconosciuta dall’art. 1, comma 20, della legge n. 335 del 1995) di acquisire il relativo diritto con un montante contributivo ridotto rispetto al passato, in quanto «raccolto in soli 5 anni di assicurazione».
Per l’assegno ordinario d’invalidità, invece, non sarebbe stata prevista alcuna misura idonea «a rendere sostenibile e giustificato il sacrificio imposto dalla legge».
3.– Così ricostruite le censure, la decisione delle questioni sollevate richiede un breve inquadramento degli istituti coinvolti.
3.1.– La giurisprudenza di legittimità è ferma nel qualificare l’assegno ordinario d’invalidità come trattamento pensionistico (tra le più recenti, Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 22 agosto 2024, n. 23040 e n. 23041; ordinanza 17 agosto 2023, n. 24751), legato al sopraggiungere di uno stato di compromissione fisica o mentale.
Nondimeno, devono sin da ora essere rimarcate le indubbie peculiarità dell’assegno in esame (di cui si dirà ampiamente infra, punto 11), che hanno indotto questa Corte, sin da risalenti pronunce (sentenza n. 644 del 1988), a riconoscergli natura «parzialmente assistenziale» (e dunque «almeno mista»), in affiancamento alla funzione previdenziale che il giudice a quo – con argomenti non estranei pure alla giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 218 del 1995 e n. 436 del 1988) – ritiene svolta ai sensi del secondo comma dell’art. 38 Cost.
3.2.– L’assegno ordinario di invalidità è disciplinato dalla legge n. 222 del 1984 e spetta al lavoratore che, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, vede diminuita a meno di un terzo la sua capacità di prestare un’attività lavorativa confacente alle proprie attitudini (art. 1, comma 1).
L’assegno spetta senza limiti d’età, ma, al compimento di quella stabilita per il diritto a pensione di vecchiaia, si trasforma, «in presenza dei requisiti di assicurazione e di contribuzione», in pensione di vecchiaia (art. 1, comma 10).
Ai fini del perfezionamento del diritto, il successivo art. 4, attraverso una serie di richiami normativi, richiede che il lavoratore abbia versato contributi per almeno cinque anni, di cui tre nel quinquennio precedente la data di presentazione della domanda amministrativa.
Ricorrendo entrambi i requisiti – medico-legale e assicurativo – l’assegno è calcolato secondo le norme in vigore nell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti, ovvero nelle gestioni speciali dei lavoratori autonomi; qualora esso risulti inferiore al trattamento minimo delle singole gestioni, l’assegno è integrato, «nel limite massimo del trattamento minimo, da un importo a carico del fondo sociale pari a quello della pensione sociale». Così ancora si esprime l’art. 1, comma 3, della medesima legge, con riferimenti oggi da intendersi operati, rispettivamente, alla gestione degli interventi assistenziali e di sostegno alle gestioni previdenziali (in seguito: GIAS) e all’assegno sociale che l’art. 3, comma 6, della legge n. 335 del 1995 ha introdotto, in luogo della pensione sociale, con effetto dal 1° gennaio 1996.
4.– Ne consegue che il sistema di computo dell’assegno ordinario di invalidità può essere diverso, a seconda della disciplina alla quale è assoggettato il lavoratore per effetto delle riforme del sistema pensionistico succedutesi nel tempo.
Tra queste, importanza centrale riveste quella operata dalla legge n. 335 del 1995, la quale, come questa Corte ha ricordato di recente con la sentenza n. 112 del 2024, ha comportato il graduale passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo di computo del trattamento pensionistico, introducendo distinzioni tra i lavoratori sulla base dell’anzianità assicurativa dai medesimi maturata al 31 dicembre 1995.
In particolare, oggi risultano interamente soggetti al regime contributivo i lavoratori che – come nel caso oggetto dell’odierno scrutinio – si siano iscritti a una gestione previdenziale solo successivamente alla data da ultimo indicata.
4.1.– Nell’ambito del sistema retributivo, divenuto ormai residuale, la base di calcolo è costituita dalla media delle retribuzioni percepite in un periodo di riferimento predeterminato dalla legge (cosiddetta retribuzione pensionabile), generalmente collocato in una fase – più o meno ampia, a seconda della disciplina di riferimento – anteriore alla data del pensionamento.
Il sistema contributivo, invece, è ispirato a una logica di corrispettività tra contribuzione versata e prestazione pensionistica: quest’ultima viene determinata in base alla contribuzione corrisposta nel corso dell’intera vita lavorativa (il cosiddetto montante contributivo individuale), che viene rivalutata periodicamente e rapportata alla speranza di vita media residua (stimata con criteri statistico-attuariali via via aggiornati nel tempo), mediante l’applicazione di un coefficiente di trasformazione che tiene conto dell’età del singolo pensionando.
L’applicazione dell’uno o dell’altro criterio di computo è suscettibile di restituire risultati diversi, di norma ben più favorevoli nell’ambito del regime retributivo, ormai in via di definitivo superamento.
5.– Ciò premesso, va in primo luogo scrutinata l’eccezione d’inammissibilità sollevata dall’INPS, secondo cui, quand’anche fosse rilevato un contrasto con i parametri evocati dal giudice a quo, la scelta tra le «molteplici modalità» idonee ad assicurare «una tutela aggiuntiva al lavoratore invalido» esulerebbe dai poteri di questa Corte, venendo in rilievo un’opzione destinata a incidere su un complesso normativo «caratterizzato da estrema tecnicità», oltre che condizionato delle risorse disponibili.
L’eccezione deve essere respinta.
Il rimettente auspica un intervento che consenta di applicare la regola che ancora è prevista nell’ordinamento dall’art. 1, comma 3, della legge n. 222 del 1984 proprio per l’assegno ordinario d’invalidità, sebbene ora limitatamente a quello calcolato con il sistema retributivo.
Il petitum, puntuale e univoco, consente dunque di fare applicazione del principio, ormai costantemente enunciato dalla giurisprudenza costituzionale (tra le ultime, sentenze n. 31 del 2025, n. 138 e n. 128 del 2024), secondo cui, una volta accertato un vulnus a un principio o a un diritto riconosciuti dalla Costituzione, non può essere di ostacolo all’esame nel merito l’assenza di un’unica soluzione a “rime obbligate”, ancorché si versi in materie riservate alla discrezionalità del legislatore.
È sufficiente, infatti, «la presenza nell’ordinamento di una o più soluzioni “costituzionalmente adeguate”» (ex multis, sentenza n. 95 del 2022) e tale è certamente quella indicata dal rimettente.
6.– Ancora in via preliminare, va precisamente definito il thema decidendum.
Dalla lettura combinata di motivazione e dispositivo dell’ordinanza di rimessione si desume con certezza che – nulla disponendo l’art. 1, comma 3, della legge n. 222 del 1984 sull’esclusione dell’integrazione al minimo in relazione a particolari modalità di computo del trattamento – oggetto delle questioni è unicamente l’art. 1, comma 16, della legge n. 335 del 1995, nella parte in cui include l’assegno ordinario d’invalidità nel divieto di applicazione delle disposizioni sull’integrazione al minimo ai trattamenti pensionistici liquidati esclusivamente con il sistema contributivo.
7.– La Corte di cassazione ha puntualmente assolto anche all’onere di preventiva esplorazione di una interpretazione costituzionalmente orientata, giungendo alla conclusione che essa non è praticabile, in considerazione dell’inequivoco tenore letterale della disposizione censurata, applicabile a tutti i trattamenti pensionistici, nel cui novero il diritto vivente, condiviso dal giudice a quo, ricomprende anche l’assegno in parola.
Per costante giurisprudenza costituzionale, ai fini dell’ammissibilità della questione incidentale, è sufficiente che il rimettente motivi – come qui ha fatto – sulle ragioni di impraticabilità dell’interpretazione adeguatrice (tra le ultime, sentenza n. 23 del 2025).
8.– Tanto premesso, le censure formulate dal rimettente sollecitano questa Corte ad operare uno scrutinio sia “per linee interne” alla disciplina dell’assegno in esame, sia attraverso un confronto di quest’ultima con le regole che governano la liquidazione degli altri trattamenti pensionistici.
8.1.– Nel primo senso si muovono gli argomenti per i quali, qualunque sia il sistema di calcolo adottato, resterebbe identica la necessità di garantire i mezzi adeguati alle esigenze di vita, quando l’assegno ordinario d’invalidità risulti «inferiore a un minimo predeterminato dal legislatore»: sarebbe irragionevole e discriminatorio, afferma il giudice a quo, consentire l’integrazione al minimo solo nel caso di calcolo dell’assegno con il sistema retributivo, tanto più che il criterio contributivo «è tendenzialmente meno favorevole e più restrittivo».
In questa prospettiva, e citando giurisprudenza costituzionale, la Corte rimettente pone l’accento, più che sui principi di eguaglianza e ragionevolezza, soprattutto sull’affermato radicamento dell’integrazione al minimo nella previsione del secondo comma dell’art. 38 Cost.
È bene, tuttavia, fare un’ulteriore precisazione.
Le sentenze richiamate dal giudice a quo sono riferite all’integrazione al minimo dei trattamenti pensionistici in generale.
Esse sono state rese nell’ambito di un sistema pensionistico governato dal criterio di liquidazione retributivo (sentenze n. 240 del 1994, n. 31 del 1986 e n. 263 del 1976) e in un’epoca (sentenze n. 18 del 1998, n. 127 e n. 119 del 1997; ordinanza n. 173 del 2003) in cui ancora non era stato necessario misurarsi direttamente con gli effetti della riforma pensionistica operata dalla legge n. 335 del 1995, portatrice, come osservato dall’Avvocatura generale dello Stato, di un «cambiamento fondamentale […] del sistema previdenziale italiano».
Come si vedrà (infra, punto 13), di tale mutamento di paradigma costituisce espressione, tra le altre, anche la scelta di escludere l’integrazione al minimo per (tutti) i trattamenti da liquidarsi interamente con il sistema contributivo.
8.2.– Diversa è la prospettiva che guida la contestazione con la quale il giudice a quo rimprovera al legislatore della riforma del 1995 di non aver introdotto misure per rendere «sostenibile e giustificato il sacrificio imposto» dalla disposizione censurata, a differenza di quanto previsto per altri trattamenti previdenziali come le pensioni di vecchiaia.
Da questa angolazione, nell’ambito della disciplina che risulta dal riordino del sistema pensionistico, la Corte rimettente chiede di operare un confronto, al lume dei principi presidiati dall’art. 3 Cost., tra le regole che oggi governano, da un lato, l’assegno ordinario d’invalidità, e, dall’altro, gli altri trattamenti pensionistici coinvolti nella generale previsione dell’art. 1, comma 16, della legge n. 335 del 1995.
9.– Rispetto ai due profili di censura appena illustrati – il primo incentrato soprattutto sulla violazione dell’art. 38 Cost. e il secondo, invece, esclusivamente sulla violazione dell’art. 3 Cost. –, questa Corte ritiene che le peculiarità della disciplina dell’assegno ordinario d’invalidità e del meccanismo, pure speciale, della sua integrazione al minimo rendano opportuno anzitutto un esame condotto al fine di verificare, al metro dell’art. 3 Cost., se il trattamento in questione sia o meno suscettibile di essere accomunato alle altre pensioni, nella sottoposizione alla regola generale somministrata dalla disposizione censurata.
10.– La questione è fondata.
11.– La tendenziale corrispettività tra provvista finanziaria (il cosiddetto montante) e misura del trattamento previdenziale liquidato è una caratteristica essenziale del sistema contributivo.
Secondo la principale tesi difensiva dell’INPS e dell’Avvocatura generale dello Stato, essa impedirebbe la sopravvivenza di un istituto che, come l’integrazione al minimo, risulta derogatorio del «principio di proporzionalità della pensione ai contributi versati a vantaggio del principio di solidarietà» (come riconosciuto dalla sentenza n. 119 del 1997).
Tale argomento, tuttavia, perde consistenza proprio con riferimento alla tutela pensionistica per l’invalidità, collegata a uno stato di bisogno del tutto peculiare, in cui la persona che la richiede ha perso in larga parte la capacità lavorativa.
Non a caso, in un contesto governato dalle regole retributive di liquidazione di tutti i trattamenti pensionistici, la legge n. 222 del 1984 aveva già previsto, per il conseguimento del diritto all’assegno ordinario d’invalidità, un regime agevolato: sin dall’origine, infatti, è stato ritenuto sufficiente un periodo di contribuzione di soli cinque anni e si è imposto esclusivamente l’accertamento di una sorta di “contiguità assicurativa” rispetto all’evento protetto (tre anni di contribuzione nel quinquennio anteriore alla presentazione della domanda).
Il particolare favor per il trattamento di cui si discute è stato poi confermato anche in occasione del generale passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo.
L’art. 1, comma 14, della legge n. 335 del 1995, infatti, prevede che l’assegno ordinario d’invalidità, ove calcolato – per intero o pro quota – con il sistema contributivo, è determinato «assumendo il coefficiente di trasformazione relativo all’età di 57 anni nel caso in cui l’età dell’assicurato all’atto dell’attribuzione dell’assegno sia ad essa inferiore». In sostanza, si equipara ex lege l’età del percettore dell’assegno a quella che, all’epoca, costituiva la soglia anagrafica da raggiungere per conseguire la pensione di vecchiaia interamente liquidata con il sistema contributivo, secondo quanto prevedevano i commi 19 e 20 del citato art. 1.
Si tratta delle medesime disposizioni con le quali il legislatore della riforma previdenziale del 1995 ha ridotto a soli cinque anni il requisito di anzianità contributiva ai fini del conseguimento di tutte le pensioni di vecchiaia, in tal modo equiparando il presupposto contributivo minimo a quello già previsto per l’assegno ordinario di invalidità. Tuttavia, per quest’ultimo ha rinunciato ad applicare la rigida corrispondenza attuariale tra montante contributivo individuale e speranza di vita, che vale per il sistema pensionistico in generale. E ciò ha fatto, evidentemente, proprio per mantenere vivo quel regime differenziato, da sempre giustificato dalla peculiarità dello stato di bisogno sotteso alla relativa tutela “mista” (assistenziale e previdenziale) accordata, in quanto considerato meritevole di una maggiore valorizzazione del principio di solidarietà.
11.1.– A questo proposito, è peraltro opportuno evidenziare che, per effetto delle modifiche – altrettanto profonde – apportate al sistema pensionistico dall’art. 24 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, la generale età pensionabile è stata, ad oggi, elevata fino a sessantasette anni. Ciò ridimensiona il carattere favorevole della previsione di cui all’art. 1, comma 14, della legge n. 335 del 1995, il quale non è stato a sua volta aggiornato alla nuova soglia.
Le differenze tra assegno ordinario d’invalidità e restanti trattamenti pensionistici, sotto altro profilo, sono diventate invece più marcate. In particolare, mentre la riforma di cui al d.l. n. 201 del 2011, come convertito, ha elevato, in generale, a venti anni il minimo di contribuzione necessario ad accedere alla pensione di vecchiaia – rendendo del tutto residuale l’ipotesi della valorizzazione della contribuzione solo quinquennale, perché ormai riservata, oggi, agli ultrasettantunenni (art. 24, comma 7) –, per l’assegno ordinario d’invalidità non è stato intaccato il requisito contributivo “ridotto” di cui all’art. 4 della legge n. 222 del 1984, ancora una volta in ossequio alla peculiarità dello stato di bisogno da fronteggiare.
12.– Da altra angolatura, va rilevato che la ratio della generale soppressione dell’integrazione al minimo per tutti i trattamenti pensionistici – come confermato dall’INPS e dall’Avvocatura – è da mettere in relazione con la necessità di contenimento della spesa previdenziale, che del resto è dichiaratamente (art. 1, commi 1, 3 e 5, della legge n. 335 del 1995) alla base del complessivo intervento riformatore, come riconosciuto dalla stessa giurisprudenza costituzionale (ordinanza n. 400 del 1999).
Ancora una volta, però, si tratta di un argomento che non può essere validamente speso con riferimento all’integrazione al minimo dell’assegno ordinario d’invalidità, la cui disciplina è a sua volta affatto diversa da quella dettata per l’integrazione degli altri trattamenti pensionistici.
L’art. 1, comma 3, della legge n. 222 del 1984, in particolare, prevede che, qualora l’assegno risulti inferiore al trattamento minimo INPS – e sempreché non siano superati i limiti di reddito previsti dal successivo comma 4 –, esso è integrato «nel limite massimo del trattamento minimo, da un importo a carico del fondo sociale pari a quello della pensione sociale»: nei fatti, l’importo “a calcolo”, maggiorato della somma oggi corrispondente alla misura dell’assegno sociale, potrebbe anche restituire un risultato inferiore al trattamento minimo INPS.
Inoltre, come riconosciuto nelle stesse difese dell’ente previdenziale, non è prevista l’integrazione parziale della prestazione né la cosiddetta “cristallizzazione”, ossia il mantenimento dell’assegno nella misura precedentemente goduta qualora vengano superati i limiti di reddito (come invece è previsto per le altre pensioni integrate al trattamento minimo, dall’art. 6, comma 7, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463, recante «Misure urgenti in materia previdenziale e sanitaria e per il contenimento della spesa pubblica, disposizioni per vari settori della pubblica amministrazione e proroga di taluni termini», convertito, con modificazioni, nella legge 11 novembre 1983, n. 638).
In stretta connessione con questa speciale regolamentazione, la legge n. 222 del 1984 aveva già allocato l’intero onere economico della peculiare integrazione al minimo di cui si tratta al di fuori dalla gestione che eroga l’assegno ordinario d’invalidità, ponendolo a carico del fondo sociale (art. 1, comma 3).
La scelta all’epoca operata è stata poi confermata dalla legge 9 marzo 1989, n. 88 (Ristrutturazione dell’Istituto nazionale della previdenza sociale e dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro), il cui art. 37 ha posto l’onere finanziario delle integrazioni al minimo dei soli assegni ordinari di invalidità interamente a carico della neoistituita – in sostituzione appunto del fondo sociale – GIAS (comma 3, lettera b).
Ne deriva che il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo di computo delle prestazioni è del tutto indifferente rispetto al finanziamento dell’integrazione al minimo dell’assegno ordinario d’invalidità, che già era prima, ed è rimasta poi, l’unica interamente sostenuta dalla fiscalità generale.
13.– Privo di efficacia persuasiva, sempre rispetto all’assegno ordinario d’invalidità, risulta anche un ulteriore argomento difensivo speso dalla parte pubblica e dall’interveniente.
L’INPS e l’Avvocatura sostengono che, all’esito del rovesciamento di impostazione operato dalla riforma del 1995, l’esistenza di altre provvidenze assistenziali, di cui i titolari di pensioni interamente contributive potrebbero usufruire (tra cui, in primo luogo, l’assegno sociale), escluderebbe qualsiasi vulnus ai principi evocati.
Tuttavia, ulteriore peculiarità dell’assegno ordinario d’invalidità è rappresentata dal fatto che di tale trattamento il lavoratore può aver bisogno anche prima del raggiungimento dell’età prevista per poter godere dell’assegno sociale, che attualmente viene erogato solo ai cittadini ultrasessantasettenni.
Prima di tale momento, potrebbe verificarsi il caso di un lavoratore diventato invalido che: a) percepisca un assegno ordinario d’invalidità di importo modesto (perché frutto dell’anzianità minima quinquennale, nel contesto di un computo esclusivamente contributivo); b) sia privo dei requisiti per ricevere anche l’assegno d’invalidità civile (salve limitate eccezioni, generalmente non cumulabile con il primo, ai sensi dell’art. 1, comma 10, della legge n. 222 del 1984); c) non abbia una composizione familiare oppure una situazione reddituale o personale che gli consenta di usufruire di ulteriori sostegni, come l’assegno unico e universale (che, per effetto del decreto legislativo 29 dicembre 2021, n. 230, recante «Istituzione dell’assegno unico e universale per i figli a carico, in attuazione della delega conferita al Governo ai sensi della legge 1° aprile 2021, n. 46», ha preso il posto delle precedenti provvidenze a favore della famiglia e della natalità) oppure l’assegno di inclusione (disciplinato dal decreto-legge 4 maggio 2023, n. 48, recante «Misure urgenti per l’inclusione sociale e l’accesso al mondo del lavoro», convertito, con modificazioni, nella legge 3 luglio 2023, n. 85); e d) non abbia la possibilità di trovare altre «occupazioni confacenti alle sue attitudini» (come recita l’art. 1, comma 1, della legge n. 222 del 1984), nonostante le misure di cui alla legge 12 marzo 1999, n. 68 (Norme per il diritto al lavoro dei disabili).
Alla luce di quanto appena esposto, appare evidente che il soggetto in età attiva bisognoso della tutela di cui si discute, in ragione della significativa riduzione della sua capacità lavorativa conseguente all’invalidità, può essere esposto al rischio di rimanere, anche per lungo tempo, privo di qualsiasi ulteriore supporto economico.
Si tratta di una prospettiva dissonante nello scenario disegnato dal legislatore, che, come contraltare della scelta operata con la disposizione censurata, ha affidato proprio al sistema assistenziale la tutela aggiuntiva eventualmente necessaria.
Nella logica del sistema contributivo, l’art. 1, comma 16, della legge n. 335 del 1995 costituisce anche il risvolto di un giudizio di disvalore espresso dall’ordinamento nei confronti della fuoriuscita anticipata dal mercato del lavoro del soggetto che, pur ancora in possesso di capacità lavorativa, non abbia tuttavia accumulato una provvista finanziaria idonea a garantirgli, in vecchiaia, un importo del trattamento pensionistico adeguato alla funzione previdenziale che quest’ultimo deve svolgere.
Si tratta, però, di una ragione che non appare affatto coerente con il trattamento per l’invalidità qui in esame, destinato a sopperire a situazioni in cui il lavoratore perde una rilevante percentuale della sua capacità lavorativa e, quindi, la possibilità di accumulare un montante contributivo adeguato.
Pure sotto tale profilo, dunque, la scelta di assimilare l’assegno ordinario d’invalidità agli altri trattamenti pensionistici liquidati con il solo sistema contributivo, assoggettando anche il primo alla previsione di inapplicabilità delle disposizioni sull’integrazione al minimo, viola l’art. 3 Cost.
14.– Né può dirsi che l’accoglimento della questione crei la disarmonia di sistema prospettata dalla difesa dell’INPS e dall’Avvocatura, in relazione alla trasformazione automatica – prevista dal primo periodo del comma 10 dell’art. 1 della legge n. 222 del 1984 – dell’assegno ordinario d’invalidità in pensione di vecchiaia, per la quale continuerebbe a essere esclusa l’integrazione al minimo. La stessa disposizione appena citata, infatti, nell’ultimo periodo, ha cura di precisare che l’importo della pensione di vecchiaia «non potrà, comunque, essere inferiore a quello dell’assegno di invalidità in godimento al compimento dell’età pensionabile».
Ancora una volta, la peculiarità dello stato di bisogno che fonda l’assegno in parola esclude qualsiasi discriminazione rispetto al lavoratore che non sia afflitto da analoga invalidità e rende giustificata la scelta discrezionale operata dal legislatore.
Quanto al periodo successivo al compimento dell’età pensionabile, invece, tutti i pensionati restano soggetti alla medesima disciplina dettata dall’art. 3, comma 6, ultimo periodo, della legge n. 335 del 1995, secondo cui, agli effetti del riconoscimento dell’assegno sociale, non concorre a formare reddito la pensione (qualunque tipo di pensione) liquidata secondo il sistema contribuivo, «in misura corrispondente ad un terzo della pensione medesima e comunque non oltre un terzo dell’assegno sociale».
14.1.– Neppure varrebbe a determinare un’ingiustificata disparità di trattamento – in tesi ancora una volta conseguente all’accoglimento della questione – la possibilità per il percettore dell’assegno in parola di continuare a svolgere attività lavorativa, ovviamente nei limiti delle sue ormai ridotte capacità.
La legge n. 222 del 1984 si limitava a prevedere, per queste ipotesi, l’applicabilità dell’ordinaria disciplina del cumulo tra pensione e retribuzione (art. 1, comma 11, che richiama appunto l’art. 20 della legge 30 aprile 1969, n. 153, recante «Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale», che di tale cumulo si occupa).
L’art. 1, comma 42, della legge n. 335 del 1995, senza incidere su tale assetto, ha poi previsto, in caso di svolgimento di attività lavorativa, una riduzione del rateo dell’assegno, correlato all’importo di quest’ultimo e all’ammontare complessivo dei redditi da lavoro (dipendente, autonomo o di impresa).
Le eventuali somme riconosciute a titolo di integrazione al minimo, quindi, sarebbero comunque coinvolte nella riduzione percentuale del trattamento.
15.– L’INPS ha depositato in udienza un prospetto dal quale risulta che una decisione di accoglimento provvista, come d’ordinario, di effetti ex tunc sarebbe suscettibile di determinare, per l’anno in corso, un ingente e improvviso aggravio a carico della finanza pubblica, in gran parte connesso al recupero degli arretrati che potrebbero essere reclamati dai percettori degli assegni ordinari d’invalidità liquidati esclusivamente con il sistema contributivo.
Premesso che l’onere finanziario riguarderà solo assegni diretti (essendo esclusa, come detto, la reversibilità della prestazione), la maggior spesa a carico dello Stato, che la presente decisione comporta, non si pone in contrasto – come in sostanza prospetta l’INPS – con l’art. 81 Cost., perché sarà compito del legislatore «provvedere tempestivamente alla copertura degli oneri derivanti dalla pronuncia, nel rispetto del vincolo costituzionale dell’equilibrio di bilancio in senso dinamico», come già chiarito nella sentenza n. 152 del 2020.
Questa Corte, tuttavia, reputa necessario seguire il solco tracciato dalla pronuncia da ultimo citata e così, «nella prospettiva, appunto, del “contemperamento dei valori costituzionali” – che viene qui in rilievo non già nel contesto dello scrutinio di costituzionalità della norma denunciata ed al fine dell’esito dello stesso, bensì nella fase successiva relativa alla delimitazione diacronica degli effetti della decisione – […] ritiene, in questo caso, di graduare gli effetti temporali del decisum, facendoli decorrere (solo) dal giorno successivo a quello di pubblicazione della sentenza sulla Gazzetta Ufficiale».
Anche in questo frangente, del resto, come nella vicenda scrutinata dal citato precedente, il riconoscimento solo pro futuro dell’integrazione al minimo dell’assegno ordinario d’invalidità non contrasta con la logica del giudizio incidentale, poiché l’accoglimento ex nunc «risponde comunque all’interesse della parte che ha attivato il processo principale ed è dunque rilevante al fine della decisione che dovrà adottare il giudice rimettente».
16.– Va anche in questa occasione ribadito che resta ovviamente ferma la possibilità per il legislatore di rimodulare, ed eventualmente di coordinare in un quadro di sistema, la disciplina vigente, purché sia idonea a garantire, ai titolari di assegno ordinario d’invalidità liquidato interamente con il sistema contributivo, l’effettività dei diritti loro riconosciuti dalla Costituzione.
17.– In conclusione va dichiarata, a decorrere dal giorno successivo alla pubblicazione di questa sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 16, della legge n. 335 del 1995, nella parte in cui non esclude, dal divieto di applicazione delle disposizioni sull’integrazione al minimo, l’assegno ordinario d’invalidità liquidato interamente con il sistema contributivo.
18.– Restano assorbiti altri profili o questioni.