Corte Costituzionale – sentenza 20 maggio 2025 n. 66
PRINCIPIO DI DIRITTO
Va rilevato che la <<procedura medicalizzata>>, di cui all’art. 1 della legge n. 219 del 2017, è infatti funzionale a garantire che l’accesso al suicidio assistito avvenga nell’ambito di una seria assistenza medica; in sua assenza la patologia non può essere inquadrata in modo adeguato e la prospettiva della morte come unica via di uscita potrebbe essere frutto di un irrimediabile abbaglio. In questo contesto assume grande importanza la concreta messa a disposizione di un percorso di cure palliative, che configura «un pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente» (sentenza n. 242 del 2019 e ordinanza n. 207 del 2018).
TESTO RILEVANTE DELLE DECISIONE
- Con l’ordinanza indicata in epigrafe il GIP del Tribunale di Milano ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 580 cod. pen., in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 32, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, «nella parte in cui prevede la punibilità della condotta di chi agevola l’altrui suicidio nella forma di aiuto al suicidio medicalmente assistito di persona non tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale affetta da una patologia irreversibile fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili che abbia manifestato la propria decisione, formatasi in modo libero e consapevole, di porre fine alla propria vita». In sostanza, il giudice a quo ripropone a questa Corte i dubbi – già dichiarati non fondati dalla sentenza n. 135 del 2024, pubblicata successivamente al deposito dell’ordinanza di rimessione – relativi alla compatibilità costituzionale del requisito della dipendenza del paziente da un trattamento di sostegno vitale, indicato dalla sentenza n. 242 del 2019 come una delle condizioni in presenza delle quali la condotta di aiuto al suicidio non può essere ritenuta punibile. Rispetto però a quella che ha dato luogo alla sentenza n. 135 del 2024, l’ordinanza ora esaminata muove dallo specifico presupposto interpretativo secondo cui il requisito in parola non sarebbe integrato nella situazione in cui il paziente rifiuti l’attivazione di un trattamento di sostegno vitale, pur in presenza di una indicazione medica in tal senso, allorché lo stesso paziente ritenga tale trattamento «futile o inutile in quanto espressivo di accanimento terapeutico».Ad avviso del rimettente, questa limitazione della possibilità di accesso al suicidio assistito contrasterebbe con il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., irragionevolmente escludendo i pazienti che, essendo affetti da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, ed essendo ancora capaci di assumere decisioni libere e consapevoli, abbiano deciso di non sottoporsi a trattamenti di sostegno vitale. Inoltre, il requisito in parola violerebbe il diritto all’autodeterminazione nelle scelte terapeutiche, riconosciuto dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendo al paziente «un’unica modalità di congedo [dalla] vita»: quella di iniziare un trattamento sanitario di sostegno vitale al solo scopo di poterlo poi interrompere. Infine, esso comprimerebbe senza adeguata giustificazione il diritto, riconosciuto dall’art. 8 CEDU, all’autodeterminazione del paziente, realizzando al contempo – in contrasto con l’art. 14 CEDU – una discriminazione tra pazienti basata su una condizione personale del tutto accidentale, dipendente dalla tipologia della malattia di cui il singolo paziente soffre.
- Va anzitutto ribadita l’ammissibilità degli interventi di D. M., P. F., M.L. R. e L. M., per le ragioni indicate nell’ordinanza letta all’udienza del 26 marzo 2025, allegata alla presente sentenza.
- Quanto all’ammissibilità delle questioni, va rilevato quanto segue. a quo
3.1. L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce il difetto di rilevanza delle questioni, dal momento che lo stesso giudice rimettente dà atto che nel caso sottoposto al suo esame non è stata seguita la “procedura medicalizzata” di cui alla legge n. 219 del 2017, il cui rispetto è indicato nella sentenza n. 242 del 2019 come indispensabile presupposto per la non punibilità delle condotte di aiuto al suicidio. Da ciò conseguirebbe che, quand’anche le questioni di legittimità costituzionale fossero ritenute fondate, il giudice non potrebbe comunque pervenire all’archiviazione del procedimento penale. Osservazioni analoghe sono svolte da vari amici curiae . L’eccezione è tuttavia infondata, per le medesime ragioni che hanno condotto questa Corte, nella sentenza n. 135 del 2024, a disattendere l’identica eccezione già sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato. L’accoglimento delle odierne questioni, infatti, inciderebbe quantomeno sull’iter motivazionale della decisione che il rimettente è chiamato ad assumere (punto 3.1. del Considerato in diritto riferimenti alla giurisprudenza della Corte, cui adde , e ivi puntuali , ora, sentenza n. 52 del 2025, punto 4.1. del Considerato in diritto a contrario e, , sentenza n. 43 del 2025, punto 6 del Considerato in diritto ). Infatti, il GIP non potrebbe rigettare la richiesta di archiviazione, come ora ritiene di dover fare, in ragione dell’insussistenza di una delle condizioni sostanziali della non punibilità, ma semmai unicamente per il mancato rispetto delle condizioni procedurali fissate dalla sentenza n. 242 del 2019. amici curiae.
3.2. La difesa degli intervenienti privati eccepisce – sulla base di argomenti condivisi anche da due – l’irrilevanza delle questioni prospettate in ragione dell’incompetenza per territorio del giudice a quo , che sarebbe riscontrabile ictu oculi . Poiché, infatti, l’indagato avrebbe accompagnato in automobile in Svizzera entrambi i pazienti, egli avrebbe compiuto in Italia una parte soltanto della condotta, con conseguente applicazione dell’art. 10, comma 3, cod. proc. pen. Quest’ultima disposizione rinvia, per la determinazione del giudice competente, ai precedenti artt. 8 e 9. Stante l’inapplicabilità dell’art. 8 cod. proc. pen., sarebbe in questo caso pertinente l’art. 9, comma 1, cod. proc. pen., a tenore del quale sarebbe competente «il giudice dell’ultimo luogo in cui è avvenuta una parte dell’azione», intendendosi per tale un «luogo» che sia parte del territorio italiano: e dunque il luogo in cui è avvenuto l’attraversamento della frontiera.Nemmeno questa eccezione è fondata. Non può in effetti ritenersi implausibile la competenza del Tribunale di Milano, in applicazione delle regole suppletive indicate dall’art. 9, commi 2 e 3, cod. proc. pen., non emergendo con evidenza dagli atti di causa l’ultimo luogo in cui sarebbe avvenuta una parte dell’azione ai sensi dell’art. 9, comma 1, cod. proc. pen. Non può pertanto affermarsi che il difetto di competenza del giudice a quo sia rilevabile ictu oculi da questa Corte, come sarebbe invece necessario ai fini della dichiarazione di inammissibilità delle questioni sollevate (negli stessi termini, sentenza n. 135 del 2024 e precedenti ivi citati).
- Ai fini dell’esame del merito delle questioni prospettate, occorre anzitutto precisarne l’oggetto.
4.1. La difesa della parte ha, in particolare nella memoria illustrativa e nella discussione orale, argomentato che l’odierna ordinanza di rimessione porrebbe problemi giuridici nuovi e, comunque, diversi da quelli già affrontati nelle precedenti sentenze n. 242 del 2019 e n. 135 del 2024. Essi si riferirebbero alla specifica situazione di pazienti «con prognosi infausta a breve termine» ai sensi dell’art. 2, comma 2, della legge n. 219 del 2017, rispetto ai quali non sarebbero (ancora) medicalmente indicati trattamenti di sostegno vitale, né la sedazione palliativa profonda continua (che presuppone, ai sensi del secondo periodo dello stesso art. 2, comma 2, della legge n. 219 del 2017, la presenza di «sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari»). Tali pazienti, tra i quali si annoverano quelli affetti da patologie oncologiche in stato avanzato, potrebbero ormai – secondo la difesa della parte – essere trattati soltanto attraverso terapie palliative, stante tra l’altro il divieto – posto dalla citata disposizione – di «ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure» e di «ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati». Sarebbe quindi irragionevole costringere tali pazienti ad attendere, per accedere al suicidio assistito, il momento in cui l’avanzare della malattia renda indicata l’attivazione di trattamenti di sostegno vitale. Conseguentemente, la medesima ratio che sorregge la sentenza n. 242 del 2019 dovrebbe indurre questa Corte a riconoscere una nuova e diversa ipotesi di non punibilità dell’aiuto al suicidio, caratterizzata dalla presenza, oltre che dei requisiti “procedurali”, dei tre requisiti sostanziali della patologia irreversibile, delle sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili e della capacità di assumere decisioni libere e consapevoli, di un ulteriore requisito alternativo rispetto all’essere il paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, rappresentato – per l’appunto – dalla «prognosi infausta a breve termine». In questa situazione, infatti, il paziente avrebbe il diritto di rifiutare le terapie palliative, unicamente finalizzate a lenire i sintomi della malattia, e di decidere invece di concludere subito la vita secondo la propria visione della dignità personale.
4.2. La prospettazione appena riferita non corrisponde, tuttavia, a quella articolata nell’ordinanza di rimessione: la quale non auspica che al requisito dell’essere il paziente tenuto in vita da un trattamento di sostegno vitale sia affiancato quello, alternativo, della prognosi infausta a breve termine; ma argomenta, invece, nel senso della necessità di eliminare tout court il requisito della dipendenza da trattamento di sostegno vitale. Ciò in quanto tale requisito non consentirebbe – irragionevolmente, a giudizio del rimettente– l’accesso al suicidio assistito di pazienti che abbiano rifiutato un trattamento di sostegno vitale, ritenendolo inutile o sproporzionato. Questa Corte è tenuta, dunque, a fornire risposta unicamente alle censure formulate nell’ordinanza di rimessione, che sono del resto assai precise nell’individuazione del requisito relativo al trattamento di sostegno vitale, risultante dall’integrazione dell’art. 580 cod. pen. operata dalla precedente sentenza n. 242 del 2019, del quale si chiede la radicale ablazione.
- Tali censure ruotano attorno al presupposto interpretativo secondo cui l’area di non punibilità sancita dalla sentenza n. 242 del 2019 non si estenderebbe alla situazione in cui il paziente rifiuti l’attivazione di un trattamento di sostegno vitale, pur in presenza di una indicazione medica in tal senso, in quanto da lui ritenuto «futile» o comunque «espressivo di accanimento terapeutico». Questo presupposto ermeneutico, tuttavia, non è corretto, alla luce di quanto espressamente argomentato nella sentenza n. 135 del 2024.
5.1. Al punto 7.2. del Considerato in diritto di tale pronuncia, questa Corte ha in effetti replicato a un argomento dell’allora rimettente, il quale già lamentava che il requisito in parola condizionasse «in modo perverso» l’esercizio del diritto all’autodeterminazione del paziente, inducendolo «ad accettare di sottoporsi a trattamenti di sostegno vitale, magari anche fortemente invasivi, che altrimenti avrebbe rifiutato, al solo fine di creare le condizioni per l’accesso al suicidio assistito». origine «In senso contrario» si è osservato, in quell’occasione, che «il diritto fondamentale scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., di fronte al quale questa Corte ha ritenuto non giustificabile sul piano costituzionale un divieto assoluto di aiuto al suicidio, comprende anche – prima ancora del diritto a interrompere i trattamenti sanitari in corso, benché necessari alla sopravvivenza – quello di rifiutare ab l’attivazione dei trattamenti stessi. Dal punto di vista costituzionale, non vi può essere, dunque, distinzione tra la situazione del paziente già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, di cui può pretendere l’interruzione, e quella del paziente che, per sopravvivere, necessiti, in base a valutazione medica, dell’attivazione di simili trattamenti, che però può rifiutare: nell’uno e nell’altro caso, la Costituzione e, in ossequio ad essa, la legge ordinaria (art. 1, comma 5, della legge n. 219 del 2017) riconoscono al malato il diritto di scegliere di congedarsi dalla vita con effetti vincolanti nei confronti dei terzi». Di qui la conclusione: «[n]on c’è dubbio, pertanto, che i principi affermati nella sentenza n. 242 del 2019 valgano per entrambe le ipotesi. Sarebbe, del resto, paradossale che il paziente debba accettare di sottoporsi a trattamenti di sostegno vitale solo per interromperli quanto prima, essendo la sua volontà quella di accedere al suicidio assistito».
5.2. Queste affermazioni meritano, oggi, integrale conferma. Conseguentemente, nella misura in cui sussista una indicazione medica di necessità dell’attivazione di un trattamento di sostegno vitale – nel senso precisato dalla sentenza n. 135 del 2024, al punto 8 del Considerato in diritto–, il paziente può rifiutarlo e accedere al suicidio assistito, ovviamente laddove sussistano tutti gli altri requisiti sostanziali e procedurali indicati dalla sentenza n. 242 del 2019. Spetterà dunque al giudice a quo valutare se la situazione descritta sussistesse rispetto ai due pazienti il cui suicidio sarebbe stato agevolato dall’indagato.
- Ciò precisato, le censure del rimettente debbono essere ritenute infondate, sostanzialmente per le medesime ragioni poste a base della sentenza n. 135 del 2024, che questa Corte ritiene di dovere qui integralmente confermare.
6.1. A proposito dell’asserita lesione del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., il rimettente considera irragionevole la disparità di disciplina tra il paziente che abbia accesso al suicidio assistito, essendo già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, e quello che invece tali trattamenti abbia rifiutato, nonostante un’indicazione medica in tal senso, ritenendoli comunque futili o espressivi di accanimento terapeutico. In realtà, la lamentata disparità non sussiste, ove si consideri che anche nella seconda situazione il paziente ben può rifiutare il trattamento indicato quale clinicamente necessario per l’espletamento delle sue funzioni vitali, trovandosi così anch’egli nella condizione di avere accesso al suicidio assistito.Laddove invece il paziente non si trovi in tale condizione e decida di rifiutare trattamenti (terapeutici o palliativi) che non possono essere considerati «necessar[i] ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente» – in quanto l’omissione o interruzione degli stessi non «determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo» – la diversità di disciplina rispetto ai pazienti che hanno accesso al suicidio assistito dovrà essere considerata non irragionevole, per le medesime considerazioni già esplicitate da questa Corte nella sentenza n. 135 del 2024 (punto 7.1. del Considerato in diritto censura di violazione dell’art. 3 Cost. allora formulata. ) in riferimento alla In assenza di un trattamento di sostegno vitale in atto, o almeno di un’indicazione medica relativa alla necessità di attivare un simile trattamento, il paziente non si trova ancora nella condizione di poter optare per la propria morte sulla base della legge n. 219 del 2017, rifiutando (rispettivamente) la prosecuzione o la stessa attivazione di un tale trattamento. Pertanto, la sua situazione non è assimilabile a quella di un paziente la cui vita dipenda, ormai, dal trattamento in questione; il che rende costituzionalmente non censurabile, al metro dell’art. 3 Cost., la diversa disciplina prevista per le due ipotesi.
6.2. Quanto all’asserita lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente fondato sugli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., essa parimenti sussisterebbe – nella prospettazione del giudice a quo– in relazione alla circostanza che la disciplina oggi vigente costringerebbe il paziente a sottoporsi al trattamento di sostegno vitale al solo scopo di poterlo poi legittimamente rifiutare e accedere, così, al suicidio assistito; ciò che finirebbe per imporre al paziente un’unica modalità di congedarsi dalla vita. Anche in questo caso, l’argomento è in radice viziato dall’erroneo presupposto di cui si è detto, non essendo affatto necessario – ai fini dell’accesso al suicidio assistito – che il paziente inizi il trattamento di sostegno vitale giudicato necessario dal medico, per poi chiedere di interromperlo. In assenza di una tale indicazione medica, non possono in questa sede che reiterarsi le considerazioni già svolte dalla sentenza n. 135 del 2024 (punto 7.2. del Considerato in diritto ) in relazione al significativo margine di discrezionalità che questa Corte ha riconosciuto al legislatore nel bilanciamento tra il dovere di tutela della vita umana, discendente dall’art. 2 Cost., e il principio dell’«autonomia» del paziente «nelle decisioni che coinvolgono il proprio corpo, e che è a sua volta un aspetto del più generale diritto al libero sviluppo della propria persona». Tale margine di discrezionalità rende costituzionalmente non obbligata la scelta – non preclusa, in ipotesi, al legislatore, laddove appresti le necessarie garanzie contro i rischi di abuso e di abbandono del malato di cui meglio si dirà più innanzi – di consentire l’accesso al suicidio assistito anche a pazienti capaci di assumere decisioni libere e responsabili, affetti da patologie irreversibili che cagionino loro sofferenze intollerabili, ma le cui funzioni vitali non dipendano da trattamenti di sostegno vitale.
6.3. Infine, quanto alle censure concernenti la lamentata violazione, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., degli artt. 8 e 14 CEDU, esse, per un verso, devono essere dichiarate non fondate nella misura in cui assumono a presupposto l’impossibilità di equiparare l’effettiva sottoposizione a un trattamento medico di sostegno vitale al rifiuto dello stesso, pur in presenza di una valutazione medica relativa alla sua necessità nel caso concreto. Per altro verso, nella misura in cui le censure in parola mirino a estendere la non punibilità dell’aiuto al suicidio oltre tale ultima ipotesi, esse devono essere giudicate non fondate sulla base della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, 13 giugno 2024, Dániel Karsai, contro Ungheria: pronuncia non esaminata dal rimettente, ma ampiamente ripresa da questa Corte nella sentenza n. 135 del 2024 (punto 7.4. del Considerato in diritto ). In tale pronuncia – da cui questa Corte non ha ritenuto, nella sentenza n. 135 del 2024, di discostarsi – la Corte EDU riconosce agli Stati parte un considerevole margine di apprezzamento nel bilanciare il diritto alla vita privata – necessariamente coinvolto dalla decisione su come e quando morire– e le ragioni di tutela della vita umana, anche in ragione della persistente assenza di un consenso in materia tra gli Stati membri del Consiglio d’Europa.«Né, infine», si è parimenti rilevato nella sentenza n. 135 del 2024, con considerazioni che qui non possono che reiterarsi, «può essere ravvisato un contrasto con il divieto di discriminazione ai sensi dell’art. 14 CEDU. Per le medesime ragioni già illustrate a proposito della censura formulata in riferimento all’art. 3 Cost. […], non può infatti ritenersi irragionevole la limitazione della liceità dell’aiuto al suicidio ai soli pazienti che abbiano già la possibilità, in forza del diritto costituzionale, di porre fine alla loro esistenza rifiutando i trattamenti di sostegno vitale».
6.4. Da tutto ciò discende la non fondatezza delle questioni prospettate.
- Appare, peraltro, anche in questa occasione opportuno ribadire il carattere essenziale che rivestono i requisiti e le condizioni procedurali per la non punibilità dell’aiuto al suicidio cui ha fatto riferimento la giurisprudenza di questa Corte. Essi, nella perdurante assenza di una legislazione che disciplini la materia, sono funzionali a creare una “cintura di protezione” per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio assistito «subiscano interferenze di ogni genere» (ordinanza n. 207 del 2018, punto 6 del Considerato in diritto-tractus ). Anche nel contesto del pluralismo etico che caratterizza una democrazia liberale, solo «una concezione astratta dell’autonomia individuale» (ordinanza n. 207 del 2018) del soggetto, nel senso etimologico di abs (ovvero tratto fuori, in forza di una visione individualistica assoluta, dal contesto sociale), può rivelarsi insensibile a questa preoccupazione: se l’autodeterminazione, infatti, è costretta o comunque condizionata dalle circostanze, allora non è più tale. Considerato in diritto È proprio la tutela della libertà di autodeterminazione a giustificarne, innanzitutto affinché sia genuina e responsabile, il bilanciamento con il dovere dello Stato di tutela della vita, la quale «si colloca in posizione apicale nell’ambito dei diritti fondamentali della persona» (sentenze n. 135 del 2024, punto 5.1. del , e n. 50 del 2022, punto 5.2. del Considerato in diritto , la quale precisa, poi, al punto 5.3.: «[q]uando viene in rilievo il bene della vita umana, dunque, la libertà di autodeterminazione non può mai prevalere incondizionatamente sulle ragioni di tutela del medesimo bene, risultando, al contrario, sempre costituzionalmente necessario un bilanciamento che assicuri una sua tutela minima»). Si tratta dunque di una prospettiva radicalmente diversa da quella che animava la ratio originaria della punizione dell’aiuto al suicidio prevista dall’art. 580 cod. pen., rivolta a «tutelare la vita umana intesa come bene indisponibile, anche in funzione dell’interesse che la collettività riponeva nella conservazione della vita dei propri cittadini» (ordinanza n. 207 del 2018, punto 6 del Considerato in diritto ratio ). Dal principio personalista di cui all’art. 2 Cost. non si ricava quindi il dovere di vivere cui si rifaceva l’originaria dell’art. 580 cod. pen., bensì, rovesciando la prospettiva, il preciso «dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo» (ordinanza n. 207 del 2018, punto 5 del Considerato in diritto ). In definitiva, se l’autodeterminazione della persona «evoca l’idea secondo cui ciascun individuo debba poter compiere da sé le scelte fondamentali che concernono la propria esistenza, incluse quelle che concernono la propria morte», tale nozione deve essere sottoposta «a un bilanciamento a fronte del contrapposto dovere di tutela della vita umana; bilanciamento nell’operare il quale il legislatore deve poter disporre, ad avviso di questa Corte, di un significativo margine di apprezzamento» (sentenza n. 135 del 2024, punto 7.3. del Considerato in diritto ). Del resto, l’affermazione del dovere dello Stato di tutelare la vita umana è stata alla base anche della recente decisione di inammissibilità di un referendum abrogativo che mirava a rendere lecito l’omicidio del consenziente (sentenza n. 50 del 2022), «il cui esito positivo sarebbe stato quello di lasciare la vita umana in una situazione di insufficiente protezione, in contrasto con gli obblighi costituzionali e convenzionali menzionati» (sentenza n. 135 del 2024, punto 5.1. del Considerato in diritto ).È proprio in tale prospettiva che la giurisprudenza di questa Corte ha sviluppato, su un duplice livello, le condizioni per accedere al suicidio assistito, dato che se questo, per un verso, «amplia gli spazi riconosciuti all’autonomia della persona nel decidere liberamente sul proprio destino», «crea – al tempo stesso – rischi che l’ordinamento ha il dovere di evitare, in adempimento del dovere di tutela della vita umana che, esso pure, discende dall’art. 2 Cost.» (sentenza n. 135 del 2024, punto 7.2. del Considerato in diritto ).
7.1. Appare, peraltro, anche in questa occasione opportuno ribadire il carattere essenziale che rivestono i requisiti e le condizioni procedurali per la non punibilità dell’aiuto al suicidio cui ha fatto riferimento la giurisprudenza di questa Corte. Essi, nella perdurante assenza di una legislazione che disciplini la materia, sono funzionali a creare una “cintura di protezione” per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio assistito «subiscano interferenze di ogni genere» (ordinanza n. 207 del 2018, punto 6 del Considerato in diritto-tractus ). Anche nel contesto del pluralismo etico che caratterizza una democrazia liberale, solo «una concezione astratta dell’autonomia individuale» (ordinanza n. 207 del 2018) del soggetto, nel senso etimologico di abs (ovvero tratto fuori, in forza di una visione individualistica assoluta, dal contesto sociale), può rivelarsi insensibile a questa preoccupazione: se l’autodeterminazione, infatti, è costretta o comunque condizionata dalle circostanze, allora non è più tale. Considerato in diritto È proprio la tutela della libertà di autodeterminazione a giustificarne, innanzitutto affinché sia genuina e responsabile, il bilanciamento con il dovere dello Stato di tutela della vita, la quale «si colloca in posizione apicale nell’ambito dei diritti fondamentali della persona» (sentenze n. 135 del 2024, punto 5.1. del , e n. 50 del 2022, punto 5.2. del Considerato in diritto , la quale precisa, poi, al punto 5.3.: «[q]uando viene in rilievo il bene della vita umana, dunque, la libertà di autodeterminazione non può mai prevalere incondizionatamente sulle ragioni di tutela del medesimo bene, risultando, al contrario, sempre costituzionalmente necessario un bilanciamento che assicuri una sua tutela minima»). Si tratta dunque di una prospettiva radicalmente diversa da quella che animava la ratio originaria della punizione dell’aiuto al suicidio prevista dall’art. 580 cod. pen., rivolta a «tutelare la vita umana intesa come bene indisponibile, anche in funzione dell’interesse che la collettività riponeva nella conservazione della vita dei propri cittadini» (ordinanza n. 207 del 2018, punto 6 del Considerato in diritto ratio ). Dal principio personalista di cui all’art. 2 Cost. non si ricava quindi il dovere di vivere cui si rifaceva l’originaria dell’art. 580 cod. pen., bensì, rovesciando la prospettiva, il preciso «dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo» (ordinanza n. 207 del 2018, punto 5 del Considerato in diritto ). In definitiva, se l’autodeterminazione della persona «evoca l’idea secondo cui ciascun individuo debba poter compiere da sé le scelte fondamentali che concernono la propria esistenza, incluse quelle che concernono la propria morte», tale nozione deve essere sottoposta «a un bilanciamento a fronte del contrapposto dovere di tutela della vita umana; bilanciamento nell’operare il quale il legislatore deve poter disporre, ad avviso di questa Corte, di un significativo margine di apprezzamento» (sentenza n. 135 del 2024, punto 7.3. del Considerato in diritto ). Del resto, l’affermazione del dovere dello Stato di tutelare la vita umana è stata alla base anche della recente decisione di inammissibilità di un referendum abrogativo che mirava a rendere lecito l’omicidio del consenziente (sentenza n. 50 del 2022), «il cui esito positivo sarebbe stato quello di lasciare la vita umana in una situazione di insufficiente protezione, in contrasto con gli obblighi costituzionali e convenzionali menzionati» (sentenza n. 135 del 2024, punto 5.1. del Considerato in diritto ).È proprio in tale prospettiva che la giurisprudenza di questa Corte ha sviluppato, su un duplice livello, le condizioni per accedere al suicidio assistito, dato che se questo, per un verso, «amplia gli spazi riconosciuti all’autonomia della persona nel decidere liberamente sul proprio destino», «crea – al tempo stesso – rischi che l’ordinamento ha il dovere di evitare, in adempimento del dovere di tutela della vita umana che, esso pure, discende dall’art. 2 Cost.» (sentenza n. 135 del 2024, punto 7.2. del Considerato in diritto ).
7.2. Il secondo livello è quello di contrastare derive sociali o culturali che inducano le persone malate a scelte suicide, quando invece ben potrebbero trovare ragioni per continuare a vivere, ove fossero adeguatamente sostenute dalle rispettive reti familiari e sociali, oltre che dalle istituzioni pubbliche nel loro complesso. I rischi in questione, infatti, «non riguardano solo la possibilità che vengano compiute condotte apertamente abusive da parte di terzi a danno della singola persona che compia la scelta di porre termine alla propria esistenza, ma riguardano anche – come si è osservato (Corte suprema del Regno Unito, Nicklinson e altri, paragrafo 228) – la possibilità che, in presenza di una legislazione permissiva non accompagnata dalle necessarie garanzie sostanziali e procedimentali, si crei una “pressione sociale indiretta” su altre persone malate o semplicemente anziane e sole, le quali potrebbero convincersi di essere divenute ormai un peso per i propri familiari e per l’intera società, e di decidere così di farsi anzitempo da parte» (sentenza n. 135 del 2024, punto 7.2. del Considerato in diritto ). In un contesto storico caratterizzato da tensioni sull’allocazione delle risorse pubbliche, il cosiddetto “diritto di morire” rivendicato in alcune circostanze potrebbe essere paradossalmente percepito dal malato come un “dovere di morire” per non “essere di peso”, con un grave abbassamento della sensibilità morale collettiva che tutela le persone più fragili, spesso, peraltro, “invisibili”. Tale scivolamento colliderebbe frontalmente con il principio personalista che anima la Costituzione italiana. Da questo principio deriva, invece, il dovere della Repubblica di rispondere all’appello che sgorga dalla fragilità, in modo che una persona malata possa avvertire la solidarietà attorno a sé non a tratti, non a prolungate intermittenze, ma in via continuativa, attraverso un percorso di effettiva presa in carico da parte del sistema sanitario e sociale. Diventa quindi cruciale garantire adeguate forme di sostegno sociale, di assistenza sanitaria e sociosanitaria domiciliare continuativa, perché la presenza o meno di queste forme di assistenza condiziona le scelte della persona malata e può costituire lo spartiacque tra la scelta di vita e la richiesta di morte. È inoltre rilevante mettere a disposizione delle persone con malattie inguaribili tutti gli strumenti tecnologici e informatici che permettono loro di superare l’isolamento e ampliare la possibilità di comunicazione e interazione con gli altri. Al tempo stesso non può essere trascurato il “prendersi cura” anche di coloro che, nelle famiglie o all’interno delle relazioni affettive, assistono i pazienti in situazioni particolarmente difficili e per lunghi periodi.
7.3. Già nell’ordinanza n. 207 del 2018 questa Corte aveva, peraltro, stigmatizzato il rischio di una «prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, a offrire sempre al paziente medesimo concrete possibilità di accedere a cure palliative» (punto 10 del Considerato in diritto dei livelli essenziali di assistenza. ), del resto inserite nell’ambito Va evidenziato che, a oggi, in Italia: a) non è garantito un accesso universale ed equo alle cure palliative nei vari contesti sanitari, sia domiciliari che ospedalieri; b) vi sono spesso lunghe liste di attesa (intollerabili in relazione a chi versa in situazioni di grave sofferenza); c) si sconta una mancanza di personale adeguatamente formato e una distribuzione territoriale dell’offerta troppo divaricata (in tal senso Comitato nazionale per la bioetica, parere “Cure Palliative”, approvato il 14 dicembre 2023); d) la stessa effettiva presa in carico da parte del servizio sociosanitario, per queste persone, è a volte insufficiente. Questa Corte, pertanto, non può che rinnovare, con decisione, lo «stringente appello» al legislatore (sentenza n. 135 del 2024, punto 10 del Considerato in diritto ) affinché dia corso a un adeguato sviluppo delle reti di cure palliative e di una effettiva presa in carico da parte del sistema sanitario e sociosanitario, al fine di evitare un ricorso improprio al suicidio assistito.
- Va, infine, ribadito con forza l’auspicio, già formulato nell’ordinanza n. 207 del 2018, nella sentenza n. 242 del 2019 e da ultimo nella sentenza n. 135 del 2024, che il legislatore e il Servizio sanitario nazionale intervengano prontamente ad assicurare concreta e puntuale attuazione a quanto stabilito dalla sentenza n. 242 del 2019, ferma restando la possibilità per il legislatore di dettare una diversa disciplina nel rispetto delle esigenze richiamate ancora una volta dalla presente pronuncia.