Corte di Cassazione – Sezioni Unite Civili sentenza 11 marzo 2025
PRINCIPIO DI DIRITTO
E’ stata ritenuta palese l’irragionevolezza di una disciplina che determina l’automatica estinzione del diritto reale di ipoteca e il conseguente pregiudizio alla tutela del credito, a scapito di un creditore ipotecario che non sia responsabile dell’abuso, il quale finisce per subire le conseguenze sanzionatorie di un illecito al quale è del tutto estraneo
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
Una volta riepilogati gi snodi procedurali che hanno portato all’intervento della Corte Costituzionale e richiamato il contenuto della sentenza n. 160 del 2024, e l’incidenza sulla normativa destinata trovare applicazione nella fattispecie, può quindi procedersi alla disamina dei motivi di ricorso.
Il primo motivo, ad avviso della Corte, è fondato.
Il motivo di ricorso richiama il contenuto della relazione di stima, riportando con precisione sia la superficie oggetto di abusiva edificazione (mq. 91,96), sia la superficie effettiva del terreno (mq. 1150), evidenziando che, proprio tenendo conto del limite massimo suscettibile di acquisizione (dieci volte la superficie utile abusivamente costruita), sarebbe residuata in capo ai debitori una porzione di terreno esclusa dall’acquisto da parte del Comune, per la quale correttamente era stato compiuto il pignoramento in danno dei debitori, che ne avevano conservato la proprietà.
La risposta della sentenza impugnata risulta sostanzialmente elusiva della questione che poneva la ricorrente, avendo semplicemente affermato che dalla consulenza tecnica non sembravano emergere altre aree non colpite dal provvedimento comunale, aggiungendo altresì che non risultava versata in atti l’ordinanza comunale di acquisizione (che invece la ricorrente sostiene essere negli atti del fascicolo dell’esecuzione)
Alla luce dei dati emergenti dalla stessa relazione di stima e tenuto conto del limite dimensionale posto dallo stesso legislatore all’acquisizione delle aree di sedime, la sentenza non ha adempiuto al dovere di verificare se effettivamente residuassero delle aree ancora di proprietà dei debitori originari della ricorrente, rispetto alle quali la procedura esecutiva non è sottoposta alle regole specificamente dettate per l’ipotesi di espropriazione di beni abusivi.
La sentenza deve pertanto essere cassata, dovendo il giudice di rinvio, previo esame del contenuto dell’ordinanza di acquisizione, verificare la porzione di terreno ancora di proprietà dei debitori, nei cui confronti la ricorrente aveva provveduto ad effettuare il pignora mento.
- Gli altri motivi di ricorso possono essere congiuntamente esaminanti per la loro connessione.
Rilevato che, in adesione alle sollecitazioni che poneva il quarto motivo, è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale della previsione di cui all’art. 7 della legge n. 47 del 1985, che avevano indotto il Tribunale a ritenere insuscettibile di prosecuzione l’azione esecutiva intentata dal creditore ipotecario, il cui diritto era stato sottoposto a formalità pubblicitaria ancor prima della realizzazione dell’abuso edilizio e dell’adozione del provvedimento di acquisizione (e della sua trascrizione), e, considerato che a seguito dell’intervento della Corte Costituzionale con la menzionata sentenza n. 160 del 2024, risulta superata l’interpretazione che della norma ha offerto il giudice di merito (e che è oggetto si specifica censura con il secondo ed il terzo motivo), emerge con evidenza l’erroneità dell’esito cui è approdato il Tribunale, dovendosi pertanto pervenire alla cassazione della sentenza impugnata.
Infatti, proprio a seguito della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 7 della legge n. 47 del 1985, si palesa erronea l’affermazione secondo cui la procedura esecutiva intrapresa dal creditore ipotecario – il cui diritto sia anteriore all’acquisizione del bene al patrimonio comunale – sarebbe proseguibile, e la causa va pertanto rimessa al Tribunale affinché dia impulso alla procedura intrapresa.
14.1 Tuttavia, ed in vista degli incombenti di cui è onerato il giudice di rinvio, deve rimarcarsi che è la stessa sentenza della Corte Costituzionale ad avere tracciato le linee cui dovrà attenersi il giudice dell’esecuzione.
Il giudice delle leggi, al punto 9.4 della sentenza n. 160/2024, ha espressamente sottolineato che la confisca edilizia non frappone ostacoli alla esperibilità della vendita forzata nei confronti del comune che abbia acquisito l’immobile, l’area di sedime e quella circostante, ex art. 7, terzo comma, della legge n. 47 del 1985, ciò in quanto il comune va considerato a tutti gli effetti quale terzo acquirente del bene ipotecato, ai sensi degli artt. 2858 e seguenti cod. civ., e i beni confiscati devono ritenersi acquisiti al patrimonio disponibile dell’ente pubblico (come confermato dal diverso tenore della norma de qua rispetto al testo del previgente art. 15, terzo comma, della legge n. 10 del 1977, il quale stabiliva espressamente l’acquisizione dei beni confiscati dal comune al patrimonio indisponibile dell’ente pubblico, in linea con la previsione del loro necessario utilizzo a fini pubblici).
In tale direzione, è stato perciò precisato che, a seguito della novella del 1985 (e senza che la successiva modifica del testo unico di cui al DPR n. 380/2001 abbia apportato novità), i beni confiscati sono acquisiti al patrimonio disponibile, a meno che non risulti integrata l’ipotesi, divenuta eccezionale, del mantenimento dell’opera per prevalenti interessi pubblici, ai sensi dell’art. 7, quinto comma, della legge n. 47 del 1985, e ciò in considerazione di quanto disposto dall’art. 826 c.c. che dispone che appartengono al patrimonio indisponibile solo i beni di enti pubblici «destinati ad un pubblico servizio» (e ciò al ricorrere del doppio requisito – soggettivo ed oggettivo – della manifestazione di volontà dell’ente titolare del diritto reale pubblico di destinare quel determinato bene ad un pubblico servizio e dell’effettiva ed attuale destinazione del bene al pubblico servizio; Cass. n. 13585/2011; Cass. S.U. n. 24563/2010; Cass. n. 26402/2009; Cass. S.U. n. 14865/2006, nonché da ultimo Cass. n. 17427/2023).
Ne consegue che la prima verifica che si impone come doverosa al giudice di rinvio sarà quella di riscontrare se nelle more non sia intervenuta una manifestazione di volontà dell’ente dichiarativa, ai sensi dell’art. 7 co. 5 (ovvero dell’art. 31, co. 6 del DPR n. 380/2001), dell’esistenza di prevalenti interessi pubblici.
Ancorché, infatti, si giustifichi l’esigenza di preservare, alle condizioni specificate, il diritto di ipoteca, tale diritto è destinato nondimeno a estinguersi, ove il comune dichiari – secondo il procedimento e nel rispetto dei limiti di cui all’art. 7, quinto comma, della legge n. 47 del 1985 – l’esistenza di prevalenti interessi pubblici al mantenimento dell’immobile (da assumere, accertando «l’esistenza di uno specifico interesse pubblico alla conservazione [dell’immobile] e la prevalenza di questo sull’interesse pubblico al ripristino della conformità del territorio alla normativa urbanistico-edilizia»; Corte Cost. sentenza n. 140 del 2018), atteso che tale scelta imprime un vincolo di destinazione al bene acquisito dal comune, che finisce per attrarlo nel patrimonio indisponibile dell’ente.
Ove però tale verifica sia negativa, e quindi il bene risulti ancora facente parte del patrimonio disponibile del Comune, il richiamo alla qualificazione di tale ente come terzo acquirente, nei cui confronti si può procedere ex art. 602 c.p.c., la stessa Corte Costituzionale, al punto 9.3 della sentenza, ha indicato quale debba essere l’esito della procedura esecutiva, onde assicurare al contempo il rispetto della normativa urbanistico-edilizia.
Infatti, l’aggiudicatario, qualora l’immobile si trovi nelle condizioni di cui all’articolo 13 della legge n. 47/1985 — vale a dire qualora presenti la cosiddetta doppia conformità — dovrà presentare domanda di concessione in sanatoria entro 120 giorni dalla notifica del decreto emesso dalla autorità giudiziaria (art. 17, quinto comma, della legge n. 47 del 1985). Parimenti, qualora l’immobile sia condonabile, in quanto rientri nelle previsioni di sanabilità di cui al Capo IV della medesima legge e sia oggetto di un trasferimento derivante da procedure esecutive, «la domanda di sanatoria può essere presentata entro centoventi giorni dall’atto di trasferimento dell’immobile purché le ragioni di credito per cui si interviene o procede siano di data anteriore all’entrata in vigore della medesima legge» (art. 40, sesto comma, della legge n. 47 del 1985 e successivamente, art. 39 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, recante «Misure di razionalizzazione della finanza pubblica» e art. 32 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, recante «Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici», convertito, con modificazioni, nella legge 24 novembre 2003, n. 326).
Se invece, non ricorrano i presupposti per ottenere la sanatoria dell’immobile o non trovino applicazione eventuali condoni, da un lato, il carattere abusivo e non sanabile dell’immobile deve risultare dall’avviso di vendita (cfr. Cass., sentenza 11 ottobre 2013, n. 23140) e, da un altro lato, il bene sarà trasferito all’aggiudicatario unitamente all’obbligazione propter rem di provvedere alla demolizione, con tutte le conseguenze che ne derivano in caso di inottemperanza.
Rileva il Collegio che tale seconda ipotesi era stata reputata di difficile praticabilità dalla precedente ordinanza interlocutoria di queste Sezioni Unite n. 583 del 2024, che alla pag. 24, aveva dubitato della possibilità di ammettere una vendita sottoposta alla condizione sospensiva dell’assunzione dell’obbligo di demolizione da parte dell’acquirente, sul presupposto che la scelta della demolizione e la possibilità di eseguirla sarebbero una prerogativa esclusiva del Comune.
Tuttavia, tale dubbio, oltre ad apparire evidentemente risolto dalla sentenza della Corte Costituzionale, che esplicitamente contempla tale soluzione, sembra dissolversi alla luce di quanto previsto per effetto della recente introduzione nel t.u. edilizia della norma che consente al comune, a determinate condizioni, di alienare i beni confiscati.
Infatti, «[n]ei casi in cui l’opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici, culturali, paesaggistici, ambientali o di rispetto dell’assetto idrogeologico, il comune, previo parere delle amministrazioni competenti ai sensi dell’articolo 17-bis della legge n. 241 del 1990, può, altresì, provvedere all’alienazione del bene e dell’area di sedime determinata ai sensi del comma 3, nel rispetto delle disposizioni di cui all’articolo 12, comma 2, della legge 15 maggio 1997, n. 127, condizionando sospensivamente il contratto alla effettiva rimozione da parte dell’acquirente delle opere abusive. È preclusa la partecipazione del responsabile dell’abuso alla procedura di alienazione. Il valore venale dell’immobile è determinato dall’agenzia del territorio tenendo conto dei costi per la rimozione delle opere abusive» (art. 1, comma 1, lettera d, del d.l. n. 69 del 2024, come convertito, che ha aggiunto la citata disposizione dopo il primo periodo dell’art. 31, comma 5, del d.P.R. n. 380 del 2001).
La netta scelta legislativa a favore della trasmissione dell’obbligo di demolizione in capo all’acquirente del bene acquisito al patrimonio disponibile del Comune conforta sul piano del diritto positivo, quindi, la soluzione indicata dalla Consulta che, per le ipotesi di non sanabilità dell’abuso, impone all’aggiudicatario di dover provvedere alla demolizione dell’opera abusiva, a conferma del fatto che non si tratta, come invece dubitato da parte di queste stesse Sezioni Unite, di una prerogativa esclusiva dell’ente pubblico.
- Il ricorso è pertanto accolto e la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Agrigento, in persona di diverso magistrato, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio.
La Corte accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e dichiara proseguibile l’esecuzione, con rinvio al Tribunale di Agrigento, in persona di diverso magistrato,
anche per le spese del giudizio di legittimità;
Così deciso, in Roma, nella Camera di consiglio, 111 marzo 2025.