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Home Diritto Civile

*Processo – Giurisdizione – Competenza – Criteri di liquidazione delle spese di lite e valore indeterminale della controversia

by Federico Alessi
30 Luglio 2025
in Diritto Civile
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Corte di cassazione, Sez. Unite Civili, sentenza 23 luglio 2025 n. 20805

PRINCIPIO DI DIRITTO

           Nell’ipotesi in cui la domanda giudiziale promossa da parte attrice al fine di ottenere il pagamento di uno specifico importo, contenga anche la generica istanza rivolta al giudice di procedere alla quantificazione del danno nella minore o maggiore somma ritenuta di giustizia, in caso di integrale rigetto della domanda, la liquidazione delle spese di lite in favore della parte vittoriosa deve comunque avvenire sulla base dello scaglione corrispondente alla somma specificamente indicata dall’attore, ove lo stesso attribuisca compensi superiori rispetto a quelli accordati per le cause di valore indeterminabile.

TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE

  1. Con l’unico motivo di ricorso si deduce la violazione degli artt. 10 e 14 c.p.c. nonché degli artt. 5 e 6 del DM n. 55/2014. Si lamenta che i giudici di appello, sebbene la domanda originaria degli attori prevedesse la quantificazione del danno richiesto nell’importo complessivo di € 36.000.000,00, abbiano ritenuto di dover liquidare le spese di lite in danno della parte soccombente in base allo scaglione previsto per le cause di valore indeterminabile, avendo gli attori inserito nelle conclusioni il richiamo al potere del giudice di procedere alla quantificazione del danno nella minore o maggiore somma ritenuta di giustizia. La sentenza impugnata, pur partendo dalla corretta premessa per la quale, in caso di rigetto della domanda, occorre far riferimento al criterio del “disputatum”, ha però aderito al principio affermato da Cass. n. 10984/2021, secondo cui la presenza della detta clausola rende di per sé la causa di valore indeterminabile. Il ricorrente assume che trattasi di una conclusione che contrasta con la precedente giurisprudenza di questa Corte ed è profondamente iniqua, in quanto, anche a fronte di richieste risarcitorie di importi esorbitanti, l’attore potrebbe sottrarsi alle conseguenze pregiudizievoli della condanna alle spese di lite, apponendo alla richiesta di liquidazione del danno la detta formula, che imporrebbe al giudice di doversi attenere allo scaglione previsto per le cause di valore indeterminabile, con un evidente contenimento della quantificazione delle spese di lite rispetto a quanto previsto ove si fosse fatto riferimento alla somma specificamente indicata. […]
  2. La questione di diritto che il ricorso pone all’attenzione della Corte può sintetizzarsi nell’individuazione del corretto scaglione sulla scorta del quale procedere alla liquidazione delle spese in favore della parte vittoriosa, nel caso in cui la domanda di condanna al pagamento di una somma di denaro avanzata dall’attore sia stata integralmente rigettata, vi sia stata l’indicazione di una specifica somma di denaro, come oggetto della richiesta di condanna, ma vi sia stata la precisazione da parte dello stesso attore della richiesta “di quella maggiore o minore somma, ritenuta di giustizia” (o clausola di analogo tenore). Il contrasto, in particolare, si acuisce nella peculiare ipotesi in cui la somma specificamente indicata porti all’applicazione di uno scaglione tariffario i cui importi siano superiori a quelli dettati per le cause di valore indeterminabile, in quanto, secondo l’orientamento cui hanno aderito i giudici di merito, la apposizione della detta clausola, lungi dall’essere di mero stile, impone di ritenere la causa di valore indeterminabile. L’opposto orientamento, invece, reputa che l’indicazione specifica offerta dalla parte non possa essere pretermessa e che, quindi, occorra far applicazione dello scaglione più elevato correlato alla richiesta specifica.
  3. L’art. 4 del d.m. n. 55 del 2014, prevede espressamente, infatti, che “Ai fini della liquidazione del compenso si tiene conto delle caratteristiche, dell’urgenza e del pregio dell’attività prestata, dell’importanza, della natura, della difficoltà e del valore dell’affare, delle condizioni soggettive del cliente, dei risultati conseguiti, del numero e della complessità delle questioni giuridiche e di fatto trattate. In ordine alla difficoltà dell’affare si tiene particolare conto dei contrasti giurisprudenziali, e della quantità e del contenuto della corrispondenza che risulta essere stato necessario intrattenere con il cliente e con altri soggetti. Il giudice tiene conto dei valori medi di cui alle tabelle allegate, che, in applicazione dei parametri generali, possono essere aumentati ((fino al 50 per cento)), ovvero possono essere diminuiti in ogni caso non oltre il 50 per cento”. L’art. 5 dello stesso d.m., dettato ai fini della determinazione del valore della controversia, prevede, inoltre, che “Nella liquidazione dei compensi a carico del soccombente, il valore della causa – salvo quanto diversamente disposto dal presente comma – è determinato a norma del Codice di procedura civile. […] In ogni caso si ha riguardo al valore effettivo della controversia, anche in relazione agli interessi perseguiti dalle parti, quando risulta manifestamente diverso da quello presunto a norma del Codice di procedura civile o alla legislazione speciale. […] 5. Qualora il valore effettivo della controversia non risulti determinabile mediante l’applicazione dei criteri sopra enunciati, la stessa si considererà di valore indeterminabile. 6. Le cause di valore indeterminabile si considerano (…) a questi fini di valore non inferiore a euro 26.000,00 e non superiore a euro 260.000,00, tenuto conto dell’oggetto e della complessità della controversia. Qualora la causa di valore indeterminabile risulti di particolare importanza per lo specifico oggetto, il numero e la complessità delle questioni giuridiche trattate, e la rilevanza degli effetti ovvero dei risultati utili, anche di carattere non patrimoniale, il suo valore si considera (…) a questi fini entro lo scaglione fino a euro 520.000,00”. Le norme citate, che appaiono sostanzialmente in linea di continuità con le previsioni tariffarie previgenti, pongono in tal modo la regola secondo cui nei rapporti tra difensore e cliente si tiene conto del “disputatum”, e cioè del valore della domanda originaria (ma con la possibilità di adeguare il valore a quello effettivo, qualora esso risulti dalla liquidazione in una misura sensibilmente diversa da quella oggetto della domanda; cfr. ex multis Cass. n. 28885/2023), mentre nei rapporti con il soccombente si ha riguardo al “decisum” e cioè, nei giudizi aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro, alla somma attribuita alla parte vincitrice. Il richiamo alle norme del codice di procedura civile impone ex art. 10 c.p.c. di dover far riferimento, in materia di cause relative a somme di denaro, a quanto previsto dall’art. 14 co. 1, c.p.c. che prevede che il valore della causa si determina in base alla somma indicata o al valore dichiarato dall’attore (cd. Disputatum).
  4. Le Sezioni Unite di questa Corte sono in passato intervenute sul tema affermando (Cass. S.U. n. 19014/2007) che ai fini del rimborso delle spese di lite a carico della parte soccombente, il valore della controversia va fissato – in armonia con il principio generale di proporzionalità ed adeguatezza degli onorari di avvocato nell’opera professionale effettivamente prestata, quale desumibile dall’interpretazione sistematica dell’art. 6, primo e secondo comma, della Tariffa per le prestazioni giudiziali in materia civile, amministrativa e tributaria, contenuta nella delibera del Consiglio nazionale forense del 12 giugno 1993, approvata con d.m. 5 ottobre 1994, n. 585 del Ministro della giustizia, avente natura subprimaria regolamentare e quindi soggetta al sindacato di legittimità ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. – sulla base del criterio del “disputatum” (ossia di quanto richiesto nell’atto introduttivo del giudizio ovvero nell’atto di impugnazione parziale della sentenza), tenendo però conto che, in caso di accoglimento parziale della domanda ovvero dell’impugnazione, il giudice deve considerare il contenuto effettivo della decisione (criterio del “decisum”), salvo che la riduzione della somma o del bene attribuito non consegua ad un adempimento intervenuto, nel corso del processo, ad opera della parte debitrice, convenuta in giudizio. In questo caso il giudice, richiestone dalla parte interessata, terrà conto non di meno del “disputatum”, ove riconosca la fondatezza dell’intera pretesa. Le Sezioni Unite di questa Corte hanno, inoltre, precisato che, ove il giudizio prosegua in un grado di impugnazione soltanto per la determinazione del rimborso delle spese di lite a carico della parte soccombente, il differenziale tra la somma attribuita dalla sentenza impugnata e quella ritenuta corretta secondo l’atto di impugnazione costituisce il “disputatum” della controversia nel grado e sulla base di tale criterio, integrato parimenti dal criterio del “decisum” (e cioè del contenuto effettivo della decisione assunta dal giudice), vanno determinate le ulteriori spese di lite riferite all’attività difensiva svolta nel grado (conf., da ultimo, Cass. Sez. 3, 07/11/2023, n. 30999; Cass. n. 35195/2022; Cass. n. 29420/2019). Il precedente citato, però, non si occupa specificamente dell’ipotesi in cui la domanda di pagamento sia stata integralmente rigettata. Costituisce un punto di partenza comune anche ai vari orientamenti contrapposti la conclusione per cui in questo caso non è dato ricorrere, anche nei confronti del soccombente, al criterio del decisum ma deve essere recuperato quello del disputatum. Anche Cass. n. 10984/2021 in motivazione sottolinea che, per questa situazione, “si debba tenere conto della somma di cui alla domanda, allorché essa sia stata respinta, per la ragione sottesa secondo cui – ove si seguisse, alla lettera, il criterio del decisum previsto dall’art. 5 cit. – in tali cause il valore sarebbe matematicamente pari a zero, con conseguente mancata liquidazione di un compenso. La regola tratta da tale precedente, invero, è nel senso che «In caso di rigetto della domanda, nei giudizi per pagamento di somme o risarcimento di danni, il valore della controversia, ai fini della liquidazione degli onorari di avvocato a carico dell’attore soccombente, è quello corrispondente alla somma da quest’ultimo domandata, dovendosi seguire soltanto il criterio del disputatum, senza che trovi applicazione il correttivo del decisum», onde il valore della controversia è quello corrispondente alla somma domandata dall’attore (Cass. 7 novembre 2018, n. 28417; Cass. 30 novembre 2011, n. 25553; Cass. 11 marzo 2006, n. 5381; Cass. 15 luglio 2004, n. 13113; in tal senso, anche Cass. 9 settembre 2019, n. 22462).” Le Sezioni Unite ritengono che debba darsi continuità a tale principio. Ad opinare diversamente, si esporrebbe il sistema alla soluzione paradossale per la quale, in ogni caso di rigetto della domanda, il difensore della parte vittoriosa non avrebbe diritto alla liquidazione del compenso, ovvero la stessa dovrebbe avvenire sulla base dello scaglione minimo, e ciò nonostante l’esito del giudizio sia ricollegabile al fruttuoso svolgimento dell’attività difensiva ed all’impegno professionale speso, con la evidente frustrazione del diritto all’adeguatezza del compenso rispetto all’importanza ed alla rilevanza dell’attività svolta. Né deve trascurarsi che in tal modo, operando nei rapporti interni tra cliente e difensore il criterio del disputatum, il secondo potrebbe pretendere la liquidazione dei compensi ragguagliati al valore della domanda, scaricando in maniera determinante sul cliente il peso economico della controversia, quanto al profilo relativo ai costi della difesa, senza poi possibilità di recupero nei confronti del soccombente, per il quale resterebbe vincolante la liquidazione operata nel provvedimento che abbia definito il giudizio. Va pertanto ribadito che, in caso di rigetto della domanda di condanna al pagamento di una somma di denaro, la liquidazione delle spese in danno della parte soccombente deve avvenire sulla base del cd. disputatum (v. Cass., 31/5/2021, n. 15106; Cass., 26/4/2021, n. 10984; Cass., 9/9/2019, n. 22462; Cass. n. 15857/2019; Cass., 7/11/2018, n. 28417; Cass. n. 2407/1998). […]

Ai fini che rilevano per la decisione della controversia, e soprattutto nei giudizi risarcitori, ove la domanda sia stata rigettata, il giudice di norma non si pone il problema della quantificazione del danno, sicché l’individuazione dello scaglione resta in primo luogo correlato alla quantificazione della domanda che l’attore abbia fatto nell’atto introduttivo del giudizio (o nei limiti della sua successiva specificazione nel rispetto delle preclusioni).

  1. Il contrasto che ha determinato la rimessione della controversia a queste Sezioni Unite è però sorto nell’ipotesi in cui la determinazione del quantum operata dall’attore in termini specifici sia accompagnata dall’invito al giudice a riconoscere “quella maggiore o minore somma ritenuta di giustizia” (ovvero clausola di analogo tenore), occorrendo verificare se ed in che termini tale clausola possa incidere sul valore della controversia ai fini del disputatum. Autorevole dottrina assume che a siffatta clausola non potrebbe annettersi alcuna efficacia, occorrendo dare sempre prevalenza alla individuazione dell’ammontare della richiesta formulata in termini espressi dalla parte, ma segnala altresì come la giurisprudenza di questa Corte non abbia assunto posizioni univoche in ordine alla portata effettuale della detta clausola. Si tratta, nello specifico, di verificare se la stessa abbia una valenza di mera clausola di stile, e come tale priva di sostanziale efficacia, ovvero se le si possa attribuire una sua utilità. Il precedente costituito da Cass. n. 7255 del 30.03.2011 ha espressamente affermato che “In una causa relativa a somma di denaro (nella specie, a titolo di risarcimento di danni), qualora la domanda attrice, dopo la richiesta di pagamento di un determinato importo, contenga anche la generica istanza “per la somma maggiore o minore che sarà accertata e ritenuta più giusta ed equa”, il valore della domanda medesima, ai fini della competenza, va fissato con riferimento all’importo specificato e non può essere presunto di ammontare pari al limite massimo della competenza del giudice adito, ove risulti, in relazione ai fatti esposti dall’attore ed alle prove offerte, che detta istanza generica costituisca una mera formula di stile e non una concreta ed espressa riserva per il conseguimento dell’eventuale maggior somma che possa risultare dovuta all’esito dell’istruttoria”, in motivazione Cass. n. 505/1976 e Cass. n. 1744/1973 che hanno optato per il carattere curiale della formula in esame e, quindi, per la sua sostanziale inidoneità ad influire sul valore della causa. In linea di continuità si pone altresì Cass. n. 16318/2011 che ha affermato che “In una causa nella quale l’attore indica con precisione l’ammontare del suo credito e chiede che quell’ammontare gli sia attribuito dal giudice, la formula che nel gergo forense si suole aggiungere “o quell’altra maggiore o minore somma che risulterà in corso di causa” ha natura di un clausola di stile ed è inidonea ad influire sulla determinazione della competenza per valore, sicché quest’ultima resta delimitata dalla somma specificata, non potendo la controversia essere considerata di valore indeterminabile”. In senso difforme si colloca una diversa serie di precedenti che hanno invece reputato che (cfr. Cass. n. 12724/2016) la formula “somma maggiore o minore ritenuta dovuta” o altra equivalente, che accompagna le conclusioni con cui una parte chiede la condanna al pagamento di un certo importo, non costituisce una clausola meramente di stile, quando vi sia una ragionevole incertezza sull’ammontare del danno effettivamente da liquidarsi, specificando però che tale principio non si applica se, all’esito dell’istruttoria, sia risultata una somma maggiore di quella originariamente richiesta e la parte si sia limitata a richiamare le conclusioni rassegnate con l’atto introduttivo e la formula ivi riprodotta. L’omessa indicazione del maggiore importo accertato nel giudizio evidenzia, infatti, la natura meramente di stile dell’espressione utilizzata, così che la sua effettività appare oggetto di una valutazione ex post, e cioè rimessa all’espressa volontà della parte di avvalersi della riserva formulata, ma solo ove l’ammontare del danno emerso all’esito dell’istruttoria si riveli superiore rispetto alla richiesta specifica e di tale incremento la parte intenda avvalersi (in senso conforme Cass. n. 4727/1984; Cass. n. 6350/2010; Cass. n. 2641/2006; Cass. n. 22330/2017). La ratio sottesa all’attribuzione di rilievo di tale clausola risiede nella considerazione che spesso l’attore non è in grado di precisare puntualmente l’entità della domanda, salvo che non si tratti di una somma di denaro in senso stretto. Per tale motivo, fornisce una indicazione al giudice, senza privarsi, tuttavia, della possibilità di ottenere, una somma maggiore, ove emerga dall’istruttoria o da valutazioni dello stesso giudice, omettendo di vincolarlo alla propria richiesta iniziale. […] Cass. n. 35966/2023 ha affermato “…la considerazione che, laddove la parte precisi la sua domanda con la richiesta di una determinata somma, anche laddove aggiunga contestualmente il riferimento ad una «somma maggiore o minore ritenuta di giustizia», deve dirsi certamente determinato il valore del disputatum, almeno nel suo importo minimo, in quanto la somma «eventualmente minore ritenuta di giustizia» può costituire solo una domanda subordinata: come dimostra il fatto che, in una situazione del genere, laddove intervenisse una condanna per importo inferiore a quello minimo richiesto espressamente dalla parte, di certo non potrebbe ritenersi inammissibile l’appello volto ad ottenere il riconoscimento del maggiore importo che era espressamente stato domandato”. […] Il pur ragionevole dubbio circa l’ammontare del danno o del credito vantato può connotare la sua addizione alla richiesta specifica, ma non può arrivare a travolgere e rendere vana quest’ultima, che comunque esprime il convincimento della parte in ordine all’importo di un credito che, sebbene non connotato dal requisito della certezza, è però reputato verosimilmente corrispondente a quello effettivo. E’ in realtà la stessa disposizione di cui all’art. 1367 c.c. che costituisce un argomento portante della tesi qui non condivisa, che impone di preservare una portata effettuale alla dichiarazione di valore resa dalla parte, sebbene cautelativamente accompagnata dalla clausola che rimette alla valutazione del giudice la concreta quantificazione.

           10.2 Né può tacciarsi tale esito interpretativo di avere nuovamente ridotto la clausola in esame al rango di mera clausola di stile. Infatti, impregiudicato l’accertamento in ordine alla effettiva volontà delle parti di ascrivere alla stessa una effettiva idoneità ad incidere sul contenuto della domanda, è evidente come la richiesta di liquidazione di un importo superiore rispetto a quello specificato abbia un’immediata utilità per l’attore che, nel caso in cui all’esito del giudizio si manifesti una pretesa creditoria di importo superiore a quello formalmente indicato nell’atto introduttivo, ben potrà sollecitare la condanna al pagamento della maggior somma, senza incorrere nella violazione del principio di ultrapetizione di cui all’art. 112 c.p.c. La diversa disponibilità manifestata al giudice per la liquidazione anche di una somma inferiore potrebbe apparire prima facie priva di ogni rilievo effettuale, rientrando già nei poteri assegnati dalla legge al giudice quello di riconoscere una somma di importo inferiore a quello richiesto. La clausola in parte qua, e cioè per l’ipotesi in cui si si solleciti anche la liquidazione di una somma inferiore (senza che sia possibile annettere alla stessa anche una implicita rinunzia alla possibilità di impugnare la sentenza che abbia riconosciuto un credito inferiore rispetto a quello specificamente indicato, come sembra paventare Cass. n. 35966/2023), ha una sua autonoma rilevanza, nella parte in cui, esprimendo la consapevolezza dell’attore circa i margini di opinabilità ed incertezza correlati alla determinazione del quantum, offre al giudice un elemento di valutazione della condotta processuale, in vista della regolazione delle spese di lite. Queste Sezioni Unite hanno, infatti, affermato che l’accoglimento in misura ridotta, anche sensibile, di una domanda articolata in un unico capo non dà luogo a reciproca soccombenza, configurabile esclusivamente in presenza di una pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo tra le stesse parti o in caso di parziale accoglimento di un’unica domanda articolata in più capi, e non consente quindi la condanna della parte vittoriosa al pagamento delle spese processuali in favore della parte soccombente, ma può giustificarne soltanto la compensazione totale o parziale, in presenza degli altri presupposti previsti dall’art. 92, comma 2, c.p.c. (Cass. S.U., 31/10/2022, n. 32061). L’esternazione al giudice della consapevolezza dei margini di opinabilità che investono il quantum della domanda proposta, anche in ragione della possibilità di una liquidazione di importo inferiore rispetto a quello specificamente indicato, ben potrebbe essere un elemento per orientare la valutazione discrezionale del giudice, ed indurlo, anche nel caso di accoglimento in misura ridotta della domanda, ad escludere l’esercizio della facoltà, che la legge tuttora gli attribuisce, di compensare in tutto o in parte le spese, il che permette di assegnare alla clausola in esame una sua autonoma portata effettuale, anche in relazione alla richiesta di liquidazione in via equitativa di una somma minore. […]

  1. Le conclusioni ora esposte appaiono poi in grado anche di influire sulla diversa questione, che pone il ricorso, quanto alla rilevanza della dichiarazione in esame ai fini del versamento del contributo unificato. Costituisce principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui, in tema di contributo unificato, la dichiarazione del difensore resa ai sensi dell’art. 14 del DPR n. 115/2002 è ininfluente ai fini dell’individuazione del valore della domanda, poiché essa è indirizzata al funzionario di cancelleria, cui compete il relativo controllo. Pertanto, non appartenendo tale dichiarazione di valore alle conclusioni della citazione, deve escludersi la possibilità di considerarla come parte della “domanda”, nel senso cui vi allude il primo comma dell’art. 10 c.p.c., quando dice che “il valore della causa, ai fini della competenza, si determina dalla domanda a norma delle disposizioni seguenti” (cfr. da ultimo Cass. n. 12770/2023, in pina continuità con Cass. n. 15714/2007; Cass. n. 26988/2007; Cass. n. 18732/2015; Cass. n. 12031/2017). Il riscontro circa la correttezza dell’importo versato a titolo di contributo unificato esula dalle competenze e dai doveri del giudice. [..] La tesi qui avversata, secondo cui l’aggiunta della richiesta di condanna “della maggiore o minore somme che si riterrà di giustizia” (o similare) trasforma la causa sempre un giudizio di valore indeterminabile permetterebbe (analogamente a quanto visto per l’individuazione dello scaglione sulla base del quale liquidare le spese al difensore della parte vittoriosa) di versare il contributo previsto per le cause di valore indeterminabile, ancorché la domanda contenga la specificazione di un importo nettamente superiore rispetto al valore cui viene ragguagliato quello delle cause indeterminabili, con il rischio anche di evidenti elusioni delle ragioni fiscali. Deve perciò reputarsi che, anche ai fini del versamento del contributo unificato, ed in presenza di una specificazione della somma richiesta, il contributo unificato deve essere commisurato all’ammontare della somma specificata – ove superiore rispetto a quello previsto per le cause di valore indeterminabile (trovando quindi in tale soluzione conferma il provvedimento dell’11 marzo 2024 del Ministero della Giustizia – Dipartimento per gli affari di giustizia – Direzione Generale degli affari interni, che ha ritenuto vincolante, ai fini della dichiarazione di valore in esame, l’indicazione specifica della somma operata dalla parte, senza che possa attribuirsi rilievo alla più volte richiamata formula).
  2. In definitiva deve essere formulato il seguente principio di diritto: In una causa relativa a somma di denaro […], qualora la domanda attrice, che contempli la richiesta di pagamento di un determinato importo, contenga anche la generica istanza “ovvero nel diverso importo che dovesse risultare dovuto in corso di causa, e/o comunque nel diverso importo che dovesse essere liquidato dal giudice con valutazione equitativa ex artt. 1226 e 2056 c.c.” (o similare), in caso di integrale rigetto della domanda, la liquidazione delle spese di lite in favore della parte vittoriosa deve avvenire sulla base dello scaglione corrispondente alla somma specificamente indicata dall’attore, ove lo stesso attribuisca compensi superiori rispetto a quelli accordati per le cause di valore indeterminabile. Poiché la sentenza impugnata risulta avere deciso in difformità dal principio esposto, il ricorso deve essere accolto e la sentenza cassata, con rinvio per nuovo esame alla Corte d’appello di Ancona che provvederà sulle spese delle precedenti fasi di merito. Ad avviso del Collegio, le spese del presente giudizio devono invece essere compensate, in ragione della complessità delle questioni che il motivo di ricorso ha posto e del contrasto manifestatosi tra le sezioni civili della Corte.

 

 

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