Corte Costituzionale, sentenza 15 luglio 2025 n. 107
PRINCIPIO DI DIRITTO
Il legislatore del 1982, con il termine «imputato» utilizzato nel censurato terzo comma dell’art. 385 cod. pen., indicava, quale soggetto attivo del reato, una specifica figura, delimitata in un preciso arco procedimentale. Arco procedimentale che, per quanto si evince dall’art. 78 del predetto codice, partiva dal primo atto («qualsiasi») del procedimento con il quale gli veniva attribuito il reato per cui si procedeva.
Pertanto, nel perimetro del termine «imputato», utilizzato all’epoca della formulazione della disposizione e mutuato dal codice di rito allora vigente, rientra – al di là del nomen attribuitogli alla luce del nuovo contesto normativo – il soggetto che, secondo il nuovo codice di procedura penale, assume la denominazione di «indagato».
Sicché nessuna lesione del principio di legalità nei termini dedotti dal rimettente è rinvenibile nella disposizione censurata e nell’applicazione che correntemente se ne fa.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Con l’ordinanza indicata in epigrafe (reg. ord. n. 179 del 2024), il Tribunale di Pisa, sezione penale, in composizione monocratica, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 25 Cost. per contrasto con il principio di tassatività e determinatezza, dell’art. 385, terzo comma, cod. pen., nella parte in cui, secondo il diritto vivente, prevede che l’indagato possa essere punito per l’evasione dal regime degli arresti domiciliari, nonostante la lettera della disposizione faccia riferimento esclusivamente all’imputato. […]
- Nel merito, la questione non è fondata.
- L’art. 385 cod. pen., al primo comma, dispone che «[c]hiunque, essendo legalmente arrestato o detenuto per un reato, evade, è punito con la reclusione da uno a tre anni», mentre il censurato terzo comma stabilisce che «[l]e disposizioni precedenti si applicano anche all’imputato che essendo in stato di arresto nella propria abitazione o in altro luogo designato nel provvedimento se ne allontani, nonché al condannato ammesso a lavorare fuori dello stabilimento penale».
3.1. Il rimettente si duole del fatto che il terzo comma, per come interpretato dal diritto vivente, sia applicato anche alla persona sottoposta alle indagini preliminari nonostante la disposizione faccia espresso riferimento al solo imputato.
- L’articolo censurato ha subito diverse modifiche e, per quello che qui interessa, il terzo comma, da ultimo, è stato sostituito dall’art. 29 della legge n. 532 del 1982, che ha aggiunto la previsione relativa all’imputato «in stato di arresto nella propria abitazione o altro luogo designato nel provvedimento», acquisendo la formulazione attuale.
4.1. All’epoca della sostituzione del terzo comma dell’art. 385 cod. pen. era vigente il vecchio codice di procedura penale del 1930, che non contemplava la figura della «persona sottoposta alle indagini».
Era, infatti, previsto unicamente lo status di imputato.
4.2 A norma dell’art. 78 del previgente codice di rito, «[a]ssume[va] la qualità di imputato chi, anche senza ordine dell’Autorità giudiziaria, è posto in stato d’arresto a disposizione di questa ovvero colui al quale in un atto qualsiasi del procedimento viene attribuito il reato».
4.3. Imputato era, dunque, colui il quale fosse risultato indiziato di reità in qualsiasi fase del procedimento, compresa quella delle indagini. L’assunzione dello specifico status richiedeva dati conoscitivi, anche non particolarmente qualificati, idonei a far ipotizzare il coinvolgimento dell’individuo nei fatti per i quali era stato aperto un procedimento.
4.4. Tale assetto derivava, naturalmente, quale premessa logico-sistematica, dall’inesistenza di una scissione tra la fase delle indagini preliminari e quella successiva all’esercizio dell’azione penale, cui è correlata l’attuale distinzione tra indagato e imputato.
4.5. Quando ha introdotto la disposizione censurata, il legislatore del 1982 non poteva che fare riferimento alla nozione di imputato prevista, nel codice di rito del 1930 all’epoca vigente, essendo del tutto sconosciuta – come si è detto – la figura della persona sottoposta alle indagini.
4.6. È solo con il codice Pisapia-Vassalli del 1988 che si introduce tale figura, correlata alla distinzione, in quella riforma, tra la fase delle indagini preliminari, tesa a verificare la configurazione di un reato e la sua attribuzione a uno o più soggetti, e la fase processuale in senso stretto, in cui il pubblico ministero esercita l’azione penale chiedendo l’accertamento giurisdizionale mediante formale imputazione.
- Nell’attuale impianto codicistico, la «persona sottoposta alle indagini preliminari» (detta più comunemente «indagato») è il soggetto nei cui confronti vengono svolte indagini a seguito dell’iscrizione di un fatto a lui addebitato nel registro delle notitiae criminis. Tale qualifica permane fino a che il pubblico ministero non eserciti l’azione penale o fino a che, su iniziativa del pubblico ministero, il procedimento relativo non venga archiviato dal giudice.
5.1. Attualmente, la figura dell’imputato è definita dall’art. 60 cod. proc. pen., a mente del quale tale qualifica si acquista con l’esercizio dell’azione penale. Il comma 1 di tale articolo dispone che «[a]ssume la qualità di imputato la persona alla quale è attribuito il reato nella richiesta di rinvio a giudizio, di giudizio immediato, di decreto penale di condanna, di applicazione della pena a norma dell’art. 447, comma 1, nel decreto di citazione diretta a giudizio e nel giudizio direttissimo».
- Dunque, il legislatore del 1982, con il termine «imputato» utilizzato nel censurato terzo comma dell’art. 385 cod. pen.– mutuato, per quanto sopra detto, dal codice di rito del 1930 –, indicava, quale soggetto attivo del reato, una specifica figura, delimitata in un preciso arco procedimentale. Arco procedimentale che, per quanto si evince dall’art. 78 del predetto codice, partiva dal primo atto («qualsiasi») del procedimento con il quale gli veniva attribuito il reato per cui si procedeva.
6.1. In tale perimetrazione procedimentale rientrava il soggetto nei cui riguardi venivano svolte le indagini, e, dunque, il medesimo soggetto che, nell’attuale codice di rito, assume la qualifica di «persona sottoposta alle indagini».
6.2. Nell’originario impianto codicistico, infatti, l’assunzione dello specifico status di imputato – si ricorda – abbisognava solo di elementi, anche non particolarmente qualificati, idonei a far ipotizzare il coinvolgimento dell’individuo nei fatti oggetto del procedimento.
6.3. È quindi palese che la figura dell’indagato, introdotta dal nuovo codice di rito, rientra in tale nozione e in tale segmento procedimentale.
Si tratta, cioè, dello stesso soggetto, individuato con un diverso termine.
- Contrariamente a quanto paventato dal rimettente, dunque, includere la figura dell’indagato nella fattispecie incriminatrice dell’art. 385 cod. pen. non richiede il ricorso all’analogia.
7.1. Ciò sarebbe, del resto, vietato dal nostro ordinamento, che preclude il ricorso all’analogia in malam partem nella materia penale, in applicazione del principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. nonché, a livello di fonti primarie, dell’art. 14 delle preleggi e – implicitamente – dell’art. 1 cod. pen. (sentenza n. 447 del 1998). Con la conseguenza che «[i]l divieto di analogia non consente di riferire la norma incriminatrice a situazioni non ascrivibili ad alcuno dei suoi possibili significati letterali, e costituisce così un limite insuperabile rispetto alle opzioni interpretative a disposizione del giudice di fronte al testo legislativo. E ciò in quanto, nella prospettiva culturale nel cui seno è germogliato lo stesso principio di legalità in materia penale, è il testo della legge – non già la sua successiva interpretazione ad opera della giurisprudenza – che deve fornire al consociato un chiaro avvertimento circa le conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte» (sentenza n. 98 del 2021).
7.2. Nel caso in esame, invece, la disposizione deve essere letta alla luce del codice linguistico tecnico del tempo della sua adozione, attribuendo al termine «imputato» il significato proprio del contesto temporale in cui è stato utilizzato dal legislatore. Il codice linguistico conferito al termine «imputato» va contestualizzato e letto tenendo presente che esso all’epoca includeva il soggetto che, sempre sulla base delle disposizioni normative pertinenti, oggi ricomprende anche il soggetto indagato.
7.3. Per quanto sin qui esposto, infatti, nel perimetro del termine «imputato», utilizzato all’epoca della formulazione della disposizione e mutuato dal codice di rito allora vigente, rientra – al di là del nomen attribuitogli alla luce del nuovo contesto normativo – il soggetto che, secondo il nuovo codice di procedura penale, assume la denominazione di «indagato».
Sicché nessuna lesione del principio di legalità nei termini dedotti dal rimettente è rinvenibile nella disposizione censurata e nell’applicazione che correntemente se ne fa.
8.– In conclusione, non è fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata, in riferimento all’art. 25 Cost., dell’art. 385, terzo comma, cod. pen.