Corte di Cassazione, Sez. Unite Civili, sentenza 30 aprile 2025 n. 11455
PRINCIPIO DI DIRITTO
In un processo sottoposto alle regole di rito previgenti alle modifiche di cui all’art. 3 del D. Lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, comma 12, lett. i) e comma 13 lett. b), in caso di esercizio dell’azione negatoria della servitù di cui all’art. 949 c.c., l’attore, anche a fronte della contestazione del diritto di proprietà operato dal convenuto con la comparsa di risposta, può proporre domanda di accertamento con efficacia di giudicato del diritto di proprietà, non solo nell’udienza di cui all’art. 183 c.p.c., ma anche con la prima memoria di cui all’art. 183 c.p.c. comma 6 (applicabile ratione temporis).
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
Con il motivo di ricorso, ai sensi dei nn. 3 e 5 del comma 1 dell’art. 360 cod. proc. civ., A.A. lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 183 cod. proc. civ. (secondo la formulazione introdotta dall’art. 23 lett. c-ter delD.L. 14 marzo 2005, n. 35, conv., con modif., in L. 14 maggio 2005, n. 80, come modificato dall’art. 11 lett. a della L. 28 dicembre 2005, n. 263, in vigore dal 1 marzo 2006, applicabile ratione temporis), per avere la Corte d’Appello ritenuto ammissibile e tempestiva la domanda di usucapione di B.B., seppure da lei proposta soltanto con le memorie ex art. 183 VI comma cod. proc. civ. e non sin dalla prima udienza di trattazione, secondo quanto prescritto dal 5 comma dello stesso art. 183.
Con un secondo profilo, il ricorrente rappresentato, quindi, che la Corte territoriale non avrebbe considerato che B.B. non aveva proposto alcuna domanda di rivendica della proprietà, sicché la domanda di usucapione risultava diversa per petitum e causa petendi e costituiva perciò una vera e propria mutatio libelli.
Con ordinanza interlocutoria n. 7846 del 22 marzo 2024 ha investito le Sezioni Unite della questione, apparendo necessario un intervento chiarificatore circa la corretta interpretazione dell’art. 183 cod. proc. civ., in quanto involge uno dei valori di funzionalità del processo, atteso che “sulla irragionevole durata di un processo non incide (sol)tanto ciò che rileva all’interno di quel processo quanto il numero complessivo dei processi contemporaneamente pendenti che ne condiziona la gestione” (Sez. U, n. 12310 del 15/06/2015).
Come ha osservato il Collegio della Seconda sezione civile, l’art. 3 del D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, al comma 12, lett. i e al comma 13 lett. b ha innovato la fase introduttiva del giudizio e la struttura e la funzione dell’udienza ex art. 183 cod. proc. civ., rimodulando la formazione del thema decidendum e del thema probandum, così che a seguito della novella, la barriera preclusiva per la proposizione delle domande conseguenziali dell’attore è stata fissata nella prima memoria di cui all’art. 171 ter c.p.c.
Tuttavia, sebbene, in ragione della data di entrata in vigore della novella di cui al D.Lgs. n. 149 del 2022, debba ritenersi che, per i giudizi ancora soggetti alle previgenti regole di rito, la fase introduttiva del giudizio sia stata già celebrata, l’interesse alla decisione della questione è ancora attuale, non tanto perché la stessa possa fungere da orientamento per le future condotte delle parti litiganti, ma al fine di individuare la corretta regola da seguire per tutte le controversie già pendenti in primo grado alla data del 28 febbraio 2023, per le quali si ponga la necessità di stabilire la tempestività delle domande conseguenziali proposte dall’attore con le memorie di cui all’art. 183co. 6 c.p.c., anziché all’udienza di trattazione, dovendosi quindi precisare che la decisione delle Sezioni Unite, sebbene non possa costituire criterio di orientamento per le scelte che le parti dovranno effettuare in futuro, è in ogni caso rilevante al fine della verifica circa la correttezza del comportamento già tenuto nelle controversie pendenti.
La Corte d’Appello, nella sentenza impugnata, nel replicare alle censure mosse in appello, e di contenuto sostanzialmente sovrapponibile a quelle sviluppate nel motivo di ricorso, ha ritenuto ammissibile la domanda dell’attrice in quanto formulata “in conseguenza” (così in sentenza) della contestazione della proprietà del terreno interessata dallo sbancamento, come sollevata dal convenuto A.A. nella sua comparsa di costituzione, senza considerare – e valutare – che la sua proposizione era avvenuta soltanto nella prima memoria e non nella prima udienza di trattazione.
L’ordinanza interlocutoria ha correttamente qualificato l’originaria domanda attorea in termini di actio negatoria servitutis, osservando che l’attrice aveva lamentato ex art. 913 c.c. la violazione, da parte del proprietario del fondo superiore, della limitazione legale della proprietà prevista per lo scolo delle acque, mirando ad ottenere, oltre all’accertamento dell’aggravamento della condizione del fondo inferiore in conseguenza di opere abusivamente realizzate nel fondo superiore, anche il ripristino dello stato dei luoghi o un indennizzo (sulla natura dell’azione ex 913 cod. civ., cfr. Cass. n. 959/1981;Cass. n. 17664/2018).
Effettivamente, il A.A. all’atto della sua costituzione in giudizio aveva contestato che l’attrice fosse proprietaria della porzione di fondo servente interessata dallo sbancamento e dall’invasione delle acque, assumendo di esserne egli stesso proprietario, ed a fronte di tale contestazione l’attrice ha sostenuto l’intervenuta usucapione di quella porzione, ma ne ha chiesto l’accertamento con efficacia di giudicato soltanto nelle memorie ex n. 1 del VI comma dell’art. 183 cod. proc. civ., depositate il 30 maggio 2008, nel termine di trenta giorni concesso alla prima udienza di trattazione del 5/5/2008.
In punto di fatto si rileva che, prima di questa udienza, vi erano stati soltanto due rinvii d’ufficio, dovendo quindi reputarsi che quella del 5 maggio 2008 debba essere qualificata come udienza di trattazione.
L’ordinanza interlocutoria ha richiamato il tradizionale principio per cui il diritto di proprietà e gli altri diritti reali di godimento appartengono alla categoria dei diritti autodeterminati, perché individuabili in base alla sola indicazione del loro contenuto, così che la causa petendi delle azioni a loro difesa si identifica con il diritto stesso e non con il titolo che ne costituisce la fonte (contratto, successione, usucapione etc.), la cui deduzione è necessaria, quindi, soltanto ai fini della prova del diritto e non della sua individuazione (cfr. Cass. n. 7033/1995).
Nell’actio negatoria servitutis la causa petendi è, in uno alla violazione lamentata, la proprietà dell’immobile, indipendentemente dal modo di acquisto, sicché la specificazione, a fondamento di tale domanda, del titolo d’acquisto, ovvero, nella specie, la maturata usucapione, non è stata ritenuta come modifica del thema decidendum.
Tuttavia, sebbene per l’attrice sarebbe stato sufficiente, in replica alla contestazione del convenuto, dimostrare, con ogni mezzo ed anche in via presuntiva, il possesso del fondo in forza di un titolo valido, ha però chiesto che l’accertamento in via incidentale del suo diritto di proprietà per maturata usucapione, conseguente alla difesa del convenuto, fosse effettuato con efficacia di cosa giudicata.
Ricorda l’ordinanza che dalla “questione pregiudiziale” è così scaturita una “causa pregiudiziale”, introdotta, come evidenziato, soltanto con la prima memoria exart. 183cod. proc. civ. e non alla prima udienza di trattazione.
Il Collegio della Seconda Sezione ha richiamato Cass. S.U. n. 3567 del 2011, che ha affermato che le memorie da depositare nei termini fissati all’art. 183, quinto comma, cod. proc. civ., nel testo di cui alla legge 26 novembre 1990, n. 353, vigente fino al 1 marzo 2006 (non applicabile alla fattispecie), fossero finalizzate esclusivamente a consentire alle parti di precisare e modificare le domande e le eccezioni già proposte e di replicare alle domande ed eccezioni formulate tempestivamente, ma non a proporne di ulteriori, non essendo ammissibile estendere il thema decidendum.
Tuttavia, con la sentenza n. 12310 del 2015, invocata dalla controricorrente, le Sezioni Unite hanno chiarito che la “modificazione” dell’originaria domanda ammessa nella prima memoria ex art. 183 cod. proc. civ., oltre l’udienza di trattazione, può riguardare anche uno o entrambi gli elementi oggettivi della stessa (petitum e causa petendi), sempre che la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e senza che, perciò solo, si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l’allungamento dei tempi processuali.
Hanno precisato, tuttavia, che il mutamento del fatto costitutivo del diritto dedotto in giudizio intanto costituisce una modifica ammessa in quanto la nuova domanda non si aggiunga a quella iniziale, ma la sostituisca e si ponga in rapporto di alternatività rispetto ad essa perché comunque tendente a realizzare la medesima vicenda sostanziale.
È stata poi richiamata la successiva sentenza n. 22404 del 13/09/2018, con la quale le Sezioni unite hanno ritenuto ammissibile, nel processo introdotto mediante domanda di adempimento contrattuale, la domanda di indennizzo per ingiustificato arricchimento formulata, in via subordinata, con la prima memoria, se riferita alla medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio.
L’ordinanza di rimessione ha altresì rilevato che il nesso di alternatività è divenuto poi presupposto costante nella giurisprudenza delle Sezioni semplici sull’applicazione delle preclusioni ex art. 183, essendo stato sempre sottolineato che il diverso diritto può essere fatto valere oltre la barriera preclusiva della prima udienza, nelle prime memorie, purché sia in rapporto di “logica complanarità” con il diritto fatto valere inizialmente, perché corre tra le stesse parti, tende alla realizzazione (almeno in parte) dell’utilità finale già avuta di mira con l’originaria domanda (salva la differenza tecnica di petitum mediato) e si rivela di conseguenza incompatibile con il diritto per primo azionato: oltre la prima udienza di trattazione, in altri termini, “la domanda può essere anche modificata, ma non può essere affiancata” (Cass. n. 2064/2023;Cass. n. 25900/2022; Cass. n. 18546/202;Cass. n. 16807/2018;Cass. n. 18956/2017).
Nella fattispecie in esame, tuttavia, la nuova domanda di usucapione è stata “affiancata” all’originaria domanda di negatoria, senza che ricorra né un rapporto di alternatività né un rapporto di subordinazione.
Secondo l’ordinanza interlocutoria la vicenda necessita di un approfondimento da parte di queste Sezioni Unite, in quanto involgerebbe il rapporto tra questione e causa pregiudiziale.
Dopo aver ricordato che ciò che costituisce oggetto di questione pregiudiziale è anche un elemento della fattispecie del rapporto giuridico oggetto della domanda in quanto integra o un fatto costitutivo oppure un fatto impeditivo, modificativo ed estintivo del diritto soggettivo controverso, e ciò in quanto nella prima ipotesi, tra le due situazioni sostanziali, ricorre una connessione di pregiudizialità-dipendenza (nella specie, la decisione non avrebbe potuto essere favorevole all’istante, se l’esito dell’accertamento incidentale del diritto di proprietà fosse stato negativo), nella seconda ipotesi, ricorre invece, e per l’appunto, una connessione di incompatibilità giuridica (Cass., SU n. 21763 del 29/07/2021).
Al fine di illustrare la questione, nell’ordinanza è stato ricordato che da Cass. n. 29574/2020 e da Cass. n. 9633/2022, ha ritenuto che, sebbene la domanda conseguenziale dell’attore possa essere formulata in risposta ad un atteggiamento di mera difesa del convenuto, tuttavia la domanda di accertamento con efficacia di giudicato, secondo la previsione dell’art. 34 cod. proc. civ., in quanto pur sempre domanda nuova, risulta proponibile se avanzata nel limite temporale dell’udienza di trattazione.
Un successivo passaggio dell’ordinanza interlocutoria ricorda come nella citata sentenza n. 12310/2015 le S.U. hanno sottolineato che “la previsione costituzionale di un processo “giusto” impone al giudice di non limitarsi alla meccanica e formalistica applicazione di regole processuali astratte, ma di verificare sempre (e quindi ogni volta) se l’interpretazione adottata sia necessaria ad assicurare nel caso concreto le garanzie fondamentali in funzione delle quali le norme oggetto di interpretazione sono state poste, evitando che, in mancanza di tale necessità, il rispetto di una ermeneutica tralatizia, sottratta alla necessaria verifica in rapporto al caso concreto, si traduca in un inutile complessivo allungamento dei tempi di giustizia ed in uno spreco di risorse, con correlativa riduzione di effettività della tutela giurisdizionale”.
È stato affermato, in funzione teleologica, che l’interpretazione della modificazione consentita nelle prime memorie non può confliggere – dovendo invece esserne ” in completa consonanza” -, “sia con l’esigenza – ripetutamente perseguita nel codice di rito talora anche attraverso modifiche della disciplina sulla competenza – di realizzare, al fine di una maggiore economia processuale ed una migliore giustizia sostanziale, la concentrazione nello stesso processo e dinanzi allo stesso giudice delle controversie aventi ad oggetto la medesima vicenda sostanziale”, “sia, più in generale, con i valori funzionali del processo come via via enucleati nel corso degli ultimi anni dalla dottrina a dalla giurisprudenza – soprattutto a sezioni unite – di questo giudice di legittimità”.
In merito ai valori di funzionalità del processo, è stata espressa la considerazione dell’indubbia ” incidenza positiva più in generale sui tempi della giustizia” di “una soluzione della complessiva vicenda sostanziale ed esistenziale portata dinanzi al giudice in un unico contesto” invece di una potenziale proliferazione dei processi; quanto all’esigenza di “concentrazione nello stesso processo e dinanzi allo stesso giudice delle controversie aventi ad oggetto la medesima vicenda sostanziale” il riferimento esplicito è stato proprio “alle disposizioni codicistiche in tema di connessione o di riunione di procedimenti”.
Avuto riguardo a tali riflessioni, l’ordinanza interlocutoria si è interrogata circa la possibilità di ritenere che la domanda di accertamento con efficacia di giudicato, proposta in conseguenza dell’eccezione di controparte implicante comunque un accertamento incidentale del medesimo fatto costitutivo, già ritenuta, nella giurisprudenza di questa Corte, ammissibile come “domanda nuova” ai sensi del V (ex IV) comma dell’art. 183, possa essere ricondotta anche all’ambito della “domanda modificata”, proponibile nelle prime memorie, richiamandosi, oltre alla particolare considerazione riservata dal legislatore alla connessione tra questione e domanda pregiudiziale – tanto da ritenerla rilevante per la modifica della competenza -, anche al rilievo per cui una domanda di accertamento con efficacia di giudicato, invece che meramente incidentale, non “sorprende” il convenuto, né comporta tempi superiori a quelli già preventivati dal medesimo art. 183 nella previsione dei termini delle memorie, anzi scongiura la possibilità che, in relazione ad una determinata vicenda sostanziale, l’attore sia costretto ad instaurare un nuovo giudizio dinnanzi ad un altro giudice che pure dovrà conoscere del medesimo diritto, verosimilmente sugli stessi elementi di fatto, con un innegabile dispendio di risorse conseguente alla proliferazione di giudizi.
L’ordinanza di rimessione evidentemente sollecita le Sezioni Unite a pronunciarsi circa la sussistenza o meno di una preclusione alla possibilità di avanzare una domanda di accertamento, nella specie del diritto di proprietà, con efficacia di giudicato exart. 34c.p.c., la quale sia scaturita dalle difese del convenuto, non solo nel corso della prima udienza di trattazione, bensì con le memorie di cui al primo comma dell’art. 183, co. 6, c.p.c., nella versione applicabile ratione temporis.
Come puntualmente rilevato nell’ordinanza in esame, una soluzione di maggiore rigore è stata inizialmente predicata da Cass. S.U. n. 3567/2011, a mente della quale “L’ art. 183 cod. proc. civ., nel testo di cui allalegge 26 novembre 1990, n. 353, vigente fino al 1 marzo 2006, applicabile “ratione temporis”, dispone, al quarto comma, che nella prima udienza di trattazione l’attore può proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale del convenuto ed entrambe le parti possono precisare e modificare le domande e le conclusioni già formulate.
Pertanto, ove l’attore voglia eccepire la prescrizione del diritto azionato dal convenuto in riconvenzionale, è tenuto, a pena di decadenza, trattandosi di eccezione non rilevabile d’ufficio, a proporla al più tardi in sede di prima udienza di trattazione, non potendo avvalersi delle memorie da depositare nei termini fissati all’art. 183, quinto comma, cod. proc. civ., in quanto finalizzate esclusivamente a consentire alle parti di precisare e modificare le domande e le eccezioni già proposte e di replicare alle domande ed eccezioni formulate tempestivamente, ma non a proporne di ulteriori, non essendo ammissibile estendere il thema decidendum”.
Tale rigore è stato progressivamente mitigato dai successivi interventi di queste stesse Sezioni Unite.
L’evoluzione della giurisprudenza di questa Corte appare esaustivamente riepilogata nella recente sentenza delle Sezioni Unite n. 26727/2024 che ha affermato il principio per cui anche nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, il creditore opposto può proporre domande alternative a quella introdotta in via monitoria, a condizione che esse trovino fondamento nel medesimo interesse che aveva sostenuto la proposizione della originaria domanda e che siano introdotte nella comparsa di risposta, ferma restando la possibilità, qualora l’opponente si avvalga dello ” ius variandi” posteriormente all’atto di opposizione, di proporre domande che costituiscano una manifestazione reattiva di difesa, anche se non “stricto sensu” riconvenzionali, sino alla prima udienza e nella memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c.
(Nella specie la S.C. ha affermato l’ammissibilità della proposizione da parte dell’opposto, nella comparsa di risposta, di domande ex art. 2041 e/o exart. 1337c.c., aventi “petitum” almeno in parte corrispondente alla pretesa avanzata in via monitoria).
4.1 Appare utile ai fini della risoluzione della questione che viene posta alle Sezioni Unite ripercorrere l’iter argomentativo che è alla base delle più recenti decisioni di queste Sezioni Unite, rinvenendosi nelle motivazioni impiegate degli utili elementi ai fini anche della risoluzione del tema di fondo che la presente controversia pone.
Con l’intervento del 2015 si è inteso superare il previgente orientamento per il quale doveva reputarsi ammissibile con le dette memorie solo la emendatio libelli della domanda introduttiva, incorrendo altrimenti nella inammissibilità per ingresso nella mutatio libelli.
Cass. 12310/2015, invece, ha inteso addivenire ad una nuova lettura degli articoli 183 e 189 c.p.c., concludendo nel senso che nell’articolo 183 c.p.c. non si riscontra un esplicito divieto di domande nuove nell’udienza, come confermato dal testo dell’articolo 189 c.p.c. in base al quale il giudice invita le parti a precisare le conclusioni “nei limiti di quelle formulate negli atti introduttivi o a norma dell’art. 183”, così confermando che nel paradigma dell’articolo 183 è inclusa la modifica delle domande e delle conclusioni dell’atto introduttivo, non come mere correzioni/precisazioni.
Il nuovo approdo interpretativo giunge quindi a delineare tre tipologie di domande: le domande nuove – evidenziando che le domande nuove attoree sono ammissibili solo se costituiscono una reazione specifica alle difese del convenuto -, le domande precisate – cioè quelle che anteriormente già si ritenevano ammissibili, essendo appunto mere precisazioni – e le domande modificate, sui cui si sofferma lo sforzo ermeneutico delle Sezioni Unite.
Ai fini della distinzione tra domande nuove e domande modificate, è stato sottolineato che “la vera differenza tra le domande “nuove” implicitamente vietate e le domande “modificate” espressamente ammesse non sta … nel fatto che in queste ultime le “modifiche” non possono incidere sugli elementi identificativi, bensì nel fatto che le domande modificate non possono essere considerate “nuove” nel senso di “ulteriori” o “aggiuntive”, trattandosi pur sempre delle stesse domande iniziali modificate – eventualmente anche in alcuni elementi fondamentali -, o, se si vuole, di domande diverse che però non si aggiungono a quelle iniziali ma le sostituiscono e si pongono pertanto, rispetto a queste, in un rapporto di alternatività”.
Ne è stata tratta la conseguenza che “con la modificazione della domanda iniziale l’attore, implicitamente rinunciando alla precedente domanda (o, se si vuole, alla domanda siccome formulata nei termini precedenti alla modificazione), mostra chiaramente di ritenere la domanda come modificata più rispondente ai propri interessi e desiderata rispetto alla vicenda sostanziale ed esistenziale dedotta in giudizio”.
Solo l’abbandono della originaria domanda sembra quindi legittimare la proposizione della domanda modificata anche nei suoi elementi fondamentali, essendo però esclusa una graduazione tra domanda originaria e domanda modificata.
Al fine di giustificare il proprio assunto le Sezioni Unite fanno essenzialmente leva sul fatto che la riconosciuta possibilità di modificare domande, eccezioni e conclusioni già formulate asseconda appieno l’esigenza di realizzare, al fine di una maggiore economia processuale ed una migliore giustizia sostanziale, la concentrazione nello stesso processo e dinanzi allo stesso giudice delle controversie aventi ad oggetto la medesima vicenda sostanziale, in linea con i valori funzionali del processo come via via enucleati nel corso degli ultimi anni.
È dato, infatti, leggere che “l’interpretazione adottata in questa sede risulta maggiormente rispettosa dei principi di economia processuale e ragionevole durata del processo, posto che non solo non incide negativamente sulla durata del processo ma determina anzi una indubbia incidenza positiva più in generale sui tempi della giustizia, in quanto è idonea a favorire una soluzione della complessiva vicenda sostanziale ed esistenziale portata dinanzi al giudice in un unico contesto invece di determinare la potenziale proliferazione dei processi, essendo appena il caso di aggiungere che sulla irragionevole durata di un processo non incide (sol)tanto ciò che rileva all’interno di quel processo quanto il numero complessivo dei processi contemporaneamente pendenti che ne condiziona la gestione.
La concentrazione garantisce altresì la stabilità delle decisioni giudiziarie, anche in relazione alla limitazione del rischio di giudicati contrastanti, nonché della effettività della tutela assicurata, sempre messa in pericolo da pronunce meramente formalistiche”.
Il limite che però la sentenza pone è quello che la domanda modificata deve avere ad oggetto la stessa vicenda sostanziale prospettata con l’atto introduttivo o comunque nel collegamento a questa, come si evince anche dalle norme dettate in tema di spostamento della competenza per ragioni di connessione.
È stato altresì evidenziato (il che rileva anche ai fini della presente decisione), che l’esito che le Sezioni Unite hanno inteso promuovere non menoma la posizione della controparte, che. proprio in ragione del solido aggancio alla medesima vicenda sostanziale dedotta ab initio, non si trova ad essere vittima di alcuna “sorpresa”, né le viene diminuita la potenzialità difensiva, proprio per il riferimento o la connessione con la medesima vicenda sostanziale per cui è stata chiamata in giudizio, godendo di un congruo termine per controdedurre.
È stato, quindi, rilevato che gli elementi oggettivi costituiti da petitum e causa petendi, perdono la tradizionale funzione assoluta di individuazione della domanda ammissibile, che deve invece avvenire alla luce dell’interesse di chi agisce, che deve essere necessariamente ancorato alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio, senza però andare a discapito dell’effettivo esercizio del diritto di difesa di controparte, vicenda sostanziale che diviene il perimetro dell’ammissibilità.
4.2 Ulteriori puntualizzazioni provengono poi da Cass. S.U. n. 22404/2018, che ha dato continuità all’insegnamento del 2015 per la sua “valenza sistematica,in tema di esercizio dello ius variandi nel corso del processo”, spostando “l’attenzione dell’interprete dall’ambito circoscritto di una valutazione relativa alla invarianza degli elementi oggettivi (petitum e causa petendi) della domanda modificata rispetto a quella iniziale, in una prospettiva di più ampio respiro, volta alla verifica che entrambe tali domande ineriscano alla medesima vicenda sostanziale … rispetto alla quale la domanda modificata sia più confacente all’interesse della parte”.
Anche in questo arresto rilievo fondamentale è assegnato al rispetto dei principi di economia processuale e ragionevole durata del processo, essendo la soluzione prescelta in grado di favorire la soluzione della complessiva vicenda sostanziale evitando la proliferazione dei processi”.
Il passo in avanti compiuto nel 2018 è nel senso di estendere la soluzione del 2015, non solo all’ipotesi in cui la domanda modificata nei suoi elementi essenziali si sostituisca a quella originaria, ma anche al caso in cui la domanda nuova si ponga come alternativa ovvero incompatibile con quella iniziale (fattispecie relativa alla domanda di arricchimento senza causa avanzata nelle memorie ex art. 183co. 6 c.p.c., in relazione alla domanda originaria di adempimento contrattuale).
Il ragionamento delle Sezioni Unite rimarca la correlazione/connessione, sia pur manifestantesi in un nesso di alternatività o incompatibilità, tra entrambe le domande proposte (di adempimento contrattuale e di indebito arricchimento), attesa la riferibilità delle stesse alla medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio, intesa come unica vicenda in fatto che delinea un interesse sostanziale.
Trattasi di un intervento che si pone in linea di sostanziale continuità con quello del 2015, e che ha ricevuto un prevalente giudizio favorevole da parte della dottrina, ed una adesione anche nella successiva giurisprudenza di questa Corte, come confermato da ultimo dal menzionato intervento delle Sezioni Unite del 2024.
4.3 L’attinenza delle domande proposte nel corso del processo dalla parte al medesimo interesse sostanziale e la loro correlazione al soddisfacimento del medesimo interesse della parte ha indotto autorevole dottrina ad utilizzare per tali domande la definizione di “domande complanari “, alla quale non è apparsa insensibile anche la giurisprudenza di legittimità che in più occasioni ha icasticamente fatto riferimento alla stessa onde individuare le domande che, seppur modificate nei loro elementi essenziali, risultavano però eccezionalmente ammissibili, sebbene avanzate oltre la barriera dell’udienza di cui all’art. 183 c.p.c. (cfr. Cass. n. 18546/2020; Cass. n. 9902/2024; Cass. n. 21821/2024; Cass. S.U. n. 26727/2024), riassumendo tale aggettivo tutti gli elementi che appunto connotano l’ammissibilità delle domande modificate, ma pur sempre ammissibili.
Giova però ricordare che l’utilizzazione dell’aggettivo “complanare” compare già in Cass. S.U. n. 26242/2014, che, in relazione alla proposizione della domanda di accertamento della nullità del contratto ex art. 34c.p.c. avanzata dalla parte, a seguito del rilievo anche officioso da parte del giudice, al paragrafo 5.13, al fine di disattendere la critica secondo cui la domanda così proposta dopo l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c., ancorché a seguito del rilievo d’ufficio della nullità, sarebbe inammissibile in quanto nuova, evidenzia il carattere complanare della domanda de qua rispetto alla domanda originaria contrattuale, che ne permette l’affiancamento, senza incorrere in alcuna inammissibilità.
Così come sostenuto in dottrina, ancor prima dell’arresto delle S.U. n. 12310/2015, possono quindi reputarsi ammissibili “le domande c.d. “complanari” , ossia quelle domande concorrenti, che viaggiano complanarmente verso una meta sostanzialmente unitaria, seppur, come oggetto del giudicato, tutt’altro che identico e che condividono, quindi, con la domanda iniziale l’identità dell’episodio socio-economico di fondo (ed ovviamente l’identità dei soggetti), assai spesso originate da concorsi di pretese ad un unico petitum o da diversi petita conseguenti a diverse qualificazioni della causa petendi.
Il Collegio ritiene che anche la domanda di accertamento con efficacia di giudicato della proprietà avanzata ex art. 34c.p.c. dall’attore in negatoria servitutis debba ritenersi ammissibile ove formulata, non solo nell’udienza di cui all’art. 183c.p.c., ma con le memorie di cui all’art. 183c.p.c.
L’art. 34c.p.c. recita che: “Il giudice, se per legge o per esplicita domanda di una delle parti è necessario decidere con efficacia di giudicato una questione pregiudiziale che appartiene per materia o valore alla competenza di un giudice superiore, rimette tutta la causa a quest’ultimo, assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa davanti a lui”.
Questa Corte ha tradizionalmente affermato che il punto pregiudiziale si concreta in un qualunque presupposto logico- giuridico o di fatto che sia necessario al giudice accertare per giungere ad accordare il bene richiesto dall’attore ed importa che esso venga deciso normalmente in via strumentale ed incidentale (appunto, incidenter tantum) senza alcuna efficacia autonoma e ciò tanto nel caso che il punto non sia stato contestato quanto nell’ipotesi inversa in cui vi sia stata contestazione e, quindi, sia statadata origine ad una questione pregiudiziale.
Tuttavia, affinché la questione pregiudiziale importi la instaurazione di una causa pregiudiziale non è sufficiente che la parte o le parti chiedano sulla questione un accertamento con efficacia di giudicato.
A tal fine, il richiedente deve dimostrare che la domanda di accertamento con efficacia di giudicato autonomo risponda ad un’esigenza che trascende quella immediata alla soluzione della causa in corso, vale a dire che deve essere resa palese la idoneità della questione, che forma oggetto della richiesta, ad influire su liti diverse da quella per comporre la quale la questione stessa è sorta.
In caso contrario non è consentito ad alcuna parte di turbare o ritardare (v.art. 111Cost.) il corso della lite stessa.
In altri termini, perché l’accertamento incidentale abbia efficacia di giudicato ai sensi dell’art. 34c.p.c., su questione pregiudiziale, ai fini del suo accoglimento, è necessario che l’istante dimostri un suo interesse effettivo che travalichi quello relativo al giudizio in corso, ossia detta questione sia idonea ad influire anche su liti diverse e di prevedibile insorgenza fra le stesse parti o anche su altri rapporto e altri soggetti” (cfr. ex multis Cass. n. 8093/2013; Cass. n. 24427/2022; Cass. n. 41895/2021).
Atteso che la c.d. pregiudizialità di merito può essere definita come il riflesso delle relazioni sostanziali intercorrenti fra due o più situazioni giuridiche soggettive o rapporti giuridici, ove uno dei quali – il c.d. pregiudiziale o “fatto-diritto” – costituisce un elemento costitutivo di quello dipendente, è opinione condivisa quella secondo cui occorra fare distinzione tra “punto” e “questione pregiudiziale”, a seconda che intervenga o meno la contestazione ad opera delle parti. Invero, se le parti si trovano d’accordo sul presupposto logico di fatto o di diritto e, quindi, non lo contestano, si parlerà di punto pregiudiziale, ma, qualora le parti non si trovino d’accordo e lo contestino si parlerà di questione pregiudiziale, sulla quale il giudice è chiamato in ogni caso a pronunciarsi.
La questione sulla quale la dottrina si è a lungo interrogata è se le questioni pregiudiziali sono conosciute incidenter tantum, cioè con effetti limitati al processo in corso, oppure sono decise con autorità di cosa giudicata, cioè con effetti vincolanti in ogni futuro processo, pur avente un oggetto diverso.
Ancorché la richiesta di assunzione di una pronuncia con efficacia di giudicato sulla questione pregiudiziale non richieda l’utilizzo di formule sacramentali (così Cass. n. 13173/2007;Cass. n. 10130/2000), parte autorevole della dottrina ha opinato nel senso che la richiesta di decisione della questione pregiudiziale con efficacia di giudicato non costituisca una vera e propria domanda con una soluzione che in passato ha ricevuto adesione anche nella giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 7152/1983, a mente della quale la richiesta de qua può essere avanzata in tutto il corso del giudizio di primo grado, alla stregua di una mera modifica della originaria domanda, e ciò in quanto non sovverte l’originario tema del giudizio).
Come però rilevato nell’ordinanza di rimessione, la più recente giurisprudenza, invece, ha propeso per la tesi per cui si tratterebbe di una vera e propria domanda, e per di più nuova (Cass. n. 3725/2015), traendosi da tale qualificazione l’ulteriore conseguenza che la richiesta da parte dell’attore, in risposta alla contestazione da parte del convenuto, non può che avvenire che nel corso della prima udienza (Cass. n. 17708/2013).
La peculiarità della domanda di accertamento incidentale risiede però nel fatto che, a seguito della contestazione da parte del convenuto, il punto pregiudiziale, e cioè il fatto – diritto su cui si fonda la domanda attorea, è già divenuto una questione pregiudiziale per la quale si impone un accertamento da parte del giudice, sebbene nei casi di pregiudizialità cd. tecnica con efficacia limitata al giudizio in corso (cfr. per la distinzione fra pregiudizialità tecnica e cd. pregiudizialità logica, Cass. S.U. n. 21763/2021, secondo cui:
“integra questione pregiudiziale la sussistenza della pregiudizialità tecnica o tecnico-giuridica o in senso stretto qualora vengano in considerazione più rapporti giuridici uno dei quali – quello pregiudiziale- appartiene alla fattispecie dell’altro che da quello dipende – pregiudicato-; in sostanza, l’oggetto della causa pregiudicata non può essere deciso senza la necessaria e preventiva definizione, con efficacia di giudicato, della causa pregiudicante.
In tal caso, l’accertamento di un diritto presuppone l’accertamento di un altro diritto mentre integra punto pregiudiziale la sussistenza della pregiudizialità logica qualora un antecedente logico necessario va risolto incidenter tantum rispetto alla decisione della domanda principale che da esso dipende, così che in tal caso l’accertamento dell’esistenza, della validità e della natura di un rapporto giuridico costituisce il presupposto di un diritto).
Con specifico riferimento all’azione di cui all’art. 949 c.c., questa Corte ha più volte precisato che la titolarità del bene si pone come requisito di legittimazione attiva e non come oggetto della controversia, sicché la parte che agisce in giudizio per far accertare l’inesistenza dell’altrui diritto di servitù su un fondo del quale affermi di essere il proprietario ha l’onere non già di fornire, come nell’azione di revindica, la prova rigorosa della proprietà del fondo, ma di dimostrare, con ogni mezzo e anche in via presuntiva, di possederlo in forza di un valido titolo, atteso che detta azione non tende necessariamente all’accertamento dell’esistenza della titolarità della proprietà, ma all’ottenimento della cessazione dell’attività lesiva, spettando, invece, al convenuto l’onere di provare l’esistenza del proprio diritto, in virtù di rapporto di natura obbligatoria o reale, di compiere l’attività lamentata come lesiva dalla controparte.
(Cfr. ex multis Cass. n. 1905/2023; Cass. n. 21851/2014; Cass. n. 472/2017, che pone una chiara distinzione tra l’azione “negatoria servitutis”, quella di rivendica e la “confessoria servitutis”, sottolineando che l’attore, con la prima, si propone quale proprietario e possessore del fondo, chiedendone il riconoscimento della libertà contro qualsiasi pretesa di terzi; con la seconda, si afferma proprietario della cosa di cui non ha il possesso, agendo contro chi la detiene per ottenerne, previo riconoscimento del suo diritto, la restituzione; con la terza, infine, dichiara di vantare sul fondo, che pretende servente, la titolarità di una servitù, differenza che si riverbera sotto il profilo probatorio, in quanto nel primo caso egli deve dimostrare, con ogni mezzo ed anche in via presuntiva, di possedere il fondo in forza di un titolo valido, mentre quando agisce in rivendica, deve fornire la piena prova della proprietà, dimostrando il suo titolo di acquisto e quello dei suoi danti causa fino ad un acquisto a titolo originario, ed infine, nell’ipotesi di “confessoria servitutis”, ha l’onere di provare l’esistenza della servitù che lo avvantaggia).
Tuttavia, tali precedenti, che appunto escludono che nell’azione de qua vi sia un rigoroso accertamento del diritto di proprietà, non rinnegano la regola per cui l’accertamento della proprietà diviene necessario allorché la difesa del convenuto si risolva in una recisa contestazione circa la titolarità del diritto stesso in capo all’attore. In questo senso proprio Cass. n. 1905/2023, in motivazione, ricorda che, naturalmente, a fronte della contestazione dei convenuti, resta ferma la necessità che l’attore dimostri in giudizio di aver effettivamente acquistato la proprietà dell’area in questione.
Infatti, sebbene nell’actio negatoria servitutis la parte che agisce in giudizio per far accertare l’inesistenza dell’altrui diritto di servitù su un fondo del quale affermi di essere il proprietario non ha l’onere di fornire, come nell’azione di revindica (e cioè dimostrando il suo titolo di acquisto e quello dei suoi danti causa fino ad un acquisto a titolo originario), la prova rigorosa della proprietà del fondo servente (Cass. n. 2838 del 1999; Cass. n. 10149 del 2004; Cass. n. 21851 del 2014), tuttavia, ove intervenga la contestazione della proprietà ad opera del convenuto, l’attore ha l’onere di fornire la prova del titolo di acquisto del fondo servente anche se può fornire la relativa dimostrazione con ogni mezzo, comprese le presunzioni (Cass. n. 803 del 2022; Cass. n. 472 del 2017; Cass. n. 21851 del 2014; Cass. n. 10149 del 2004; Cass. n. 2838 del 1999).
Deve perciò ritenersi che laddove, come nella vicenda oggetto di causa, il convenuto abbia contestato l’esistenza del diritto di proprietà a tutela del quale ha agito in negatoria l’attrice, il diritto di proprietà da punto pregiudiziale si tramuta in questione pregiudiziale, e ciò implica necessariamente che il giudice al fine di decidere la domanda proposta debba in ogni caso accertare l’esistenza del diritto de quo, a prescindere dal fatto che sia stata richiesta una pronuncia con efficacia di giudicato ex art. 34 c.p.c.
In tutti i casi in cui la contestazione dei fatti da parte del convenuto rende gli stessi non più pacifici, si impone un accertamento in via incidentale da parte del giudice.
6.1 Da tale premessa, ad avviso della Corte, può trarsi la logica conseguenza per cui la domanda eventualmente avanzata ex art. 34 c.p.c., al fine di trasformare la questione pregiudiziale in causa pregiudiziale deve reputarsi ammissibile, non solo se avanzata nell’udienza di cui all’art. 183 c.p.c., ma anche nelle memorie di cui all’art. 183 c.p.c.
Non è casuale in tal senso che la descrizione di domanda complanare che risulta offerta da Cass. S.U. n. 26242/2024, investa proprio un’ipotesi nella quale un punto pregiudiziale, quale l’esistenza del contratto posto a base della domanda principale, sia interessato, nel caso ivi configurato, dal rilievo d’ufficio circa la nullità del contratto, ma la soluzione non appare destinata a mutare ove la necessità dell’accertamento scaturisca dalla contestazione della controparte, così che la domanda ex art. 34 c.p.c. si pone come funzionale al soddisfacimento dell’interesse dell’attore, in quanto costituisce un accertamento che concorre ad assicurare la piena tutela del bene della vita azionato.
Se il processo è destinato ad attribuire un bene della vita e per risolvere, in modo stabile e definitivo, la controversia insorta sul piano sostanziale tra le parti in ordine ad esso, onde delineare l’ambito delle modificazioni ammissibili della domanda, deve privilegiarsi la soluzione che consenta al processo di recepire la vicenda sostanziale nella sua completezza e di evitare la reiterazione dei giudizi in ordine alla medesima lite, al fine altresì di assicurare l’attuazione dei principî della ragionevole durata, dell’economia e della concentrazione dei processi.
È pur vero che la domanda di accertamento incidentale non si sostituisce a quella originaria né appare necessariamente connotata da una relazione di subordinazione o alternatività alla medesima, ma è innegabile che sia evidentemente correlata alla medesima vicenda sostanziale, risolvendosi nella richiesta di addivenire ad un accertamento con efficacia di giudicato su di un fatto-diritto che già è divenuto necessario oggetto di accertamento da parte del giudice adito, a seguito della contestazione mossa dal convenuto.
(Cfr. la pur risalente Cass. n. 1020/1962, secondo cui l’azione negatoria è data al proprietario per fare dichiarare l’inesistenza di diritti affermati da altri sulla cosa sua, onde l’accertamento della proprietà è fatto soltanto in funzione di quella determinata finalità perseguita dall’attore, ma quando questi richiede al giudice una specifica declaratoria sulla quale possa formarsi il giudicato, non si è più in presenza di una semplice azione negatoria, poiché la questione di proprietà diventa l’oggetto principale della lite).
L’affiancamento di siffatta domanda a quella originaria in questo caso, come anche puntualmente sottolineato dal Procuratore generale, non comporta alcun affaticamento o aggravio per l’attività giurisdizionale, posto che si sollecita una decisione in relazione ad un accertamento già imposto per effetto della trasformazione della circostanza contestata in causa pregiudiziale, né determina un effetto sorpresa per il convenuto, in quanto è la sua stessa strategia difensiva ad avere reso necessario l’accertamento del diritto, quanto meno in via incidentale, da parte del giudice.
Non può negarsi anche in questa ipotesi la teleologica complanarità tra la domanda principale e la domanda avanzata con la successiva memoria che aspira semplicemente ad assicurare una maggiore stabilità ed efficacia alla risoluzione della questione insorta per effetto della contestazione da parte del convenuto, concorrendo la relativa decisione alla realizzazione dell’utilità finale che già mirava a perseguire la domanda originaria, e quindi al soddisfacimento dell’interesse sotteso alla proposizione della domanda originaria.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato, dovendo affermarsi il seguente principio di diritto: in un processo sottoposto alle regole di rito previgenti alle modifiche di cui all’art. 3delD.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, comma 12, lett. i) e comma 13 lett. b), in caso di esercizio dell’azione negatoria della servitù di cui all’art. 949c.c., l’attore, anche a fronte della contestazione del diritto di proprietà operato dal convenuto con la comparsa di risposta, può proporre domanda di accertamento con efficacia di giudicato del diritto di proprietà, non solo nell’udienza di cui all’art. 183c.p.c., ma anche con la prima memoria di cui all’art. 183c.p.c. comma 6 (applicabile ratione temporis).
Il ricorso è rigettato, ma, tenuto conto della novità e della complessità della questione poste dal ricorrente, si ritiene che ricorrano i presupposti per disporre la compensazione delle spese del giudizio di legittimità.
- Poiché il ricorso è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater dell’art. 13 del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.