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*Professioni – Avvocati – Patto di quota-lite sanzionabile se il compenso è sproporzionato

by Federico Alessi
19 Novembre 2025
in Diritto Civile
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Corte di cassazione, Sez. II Civile, sentenza 12 novembre 2025 n. 29895

PRINCIPIO DI DIRITTO

     I compensi pattuiti tra l’avvocato ed il cliente possono legittimamente essere parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti, purchè siano proporzionati all’attività svolta.

TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE

           […] 1.1. Il motivo è inammissibile per le modalità con le quali è formulato, in quanto censura quale vizio di violazione di legge ex art. 360 co. 1 n. 3 cod. proc. Civ.l’accertamento in fatto in ordine alla data di conclusione del contratto, che avrebbe richiesto la proposizione di motivo ex art. 360 co. 1 n. 5 cod. proc. Civ. Anche a ritenere che ricorrano i presupposti per riqualificare il motivo nei termini corretti, si esclude che l’ordinanza abbia omesso l’esame di fatti decisivi attestanti che il patto di quota lite fosse stato stipulato al di fuori della finestra temporale nella quale il patto era lecito. Infatti, già nel ricorso per decreto ingiuntivo gli avvocati C. avevano allegato non solo che G.M. si era rivolto a loro nel 2010, ma avevano anche documentato di avere svolto l’attività giudiziale prima del 1°-2-2013, in quanto la causa da loro intentata al Ministero della Difesa quali difensori di G.M. era stata iscritta a ruolo il 7-1-2013; quindi, a quella data, antecedente alla reintroduzione del divieto del patto di quota lite, il contratto di prestazione d’opera professionale era stato concluso, non avendo neppure il ricorrente allegato che i professionisti avessero iniziato a svolgere l’attività prima della stipulazione del contratto che disciplinava l’attività professionale medesima.

  1. Con il secondo motivo, intitolato “violazione e omessa ovvero erronea applicazione delle norme dettate dagli artt. 33 e 36 del Decreto Legislativo 6 settembre 2005 n. 206e dall’articolo 1418 (terzo comma) del codice civile(art. 360, primo comma n. 3 del codice di procedura civile)”, il ricorrente evidenzia che il contratto prevedeva che il compenso spettante ai difensori in caso di esito vittorioso della causa, pari al 50% dell’importo liquidato a favore del cliente a titolo di risarcimento, oltre alle spese poste a carico dell’ente soccombente, avrebbe dovuto essere corrisposto anche in ipotesi di revoca dell’incarico professionale; rileva che l’art. 33 d.lgs. 6-9-2005 n. 206prevede che nel contratto concluso tra consumatore e professionista debbano considerarsi vessatorie e perciò siano nulle le clausole che determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto; sostiene che perciò la clausola in ordine all’integrale spettanza del compenso anche in caso di revoca dell’incarico sia nulla e richiama a sostegno Cass. n. 30837/2019, aggiungendo che la nullità avrebbe dovuto essere rilevata d’ufficio.
  2. Il terzo motivo è intitolato “violazione e omessa ovvero erronea applicazione della norma dettata dall’articolo 2233, secondo comma, del codice civile (art. 360 primo comma n. 3 del codice di procedura civile). Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 primo comma n. 5 del codice di procedura civile”; con il motivo il ricorrente evidenzia di avere fatto valere la manifesta inadeguatezza, incongruità e sproporzione del compenso previsto nel contratto d’opera professionale, con il suo quarto motivo di opposizione al decreto ingiuntivo; trascrive interamente nel ricorso tale motivo, nel quale rilevava l’abnorme percentuale del compenso pattuita rispetto al complessivo risarcimento, per cui a fronte di una somma liquidata in Euro 42.326,40 oltre accessori, pari a Euro 55.858,42, era andato ai professionisti l’importo di Euro 44.191,29, al quale sommare gli interessi e gli accessori indicati nel decreto ingiuntivo. Lamenta che, seppure i professionisti avessero replicato sul punto, il Tribunale non abbia esaminato la questione, nonostante la stessa fosse rilevante, come confermato dal precedente di Cass. n. 17726/2018 e Cass., Sez. Un., n. 25012/2014.
  3. Il terzo motivo è ammissibile, diversamente da quanto eccepito dai controricorrenti, ed è fondato, sotto il profilo della violazione delle disposizioni che disciplinano il patto di quota lite a pena di nullità, che viene denunciata con evidenza dagli argomenti svolti nel motivo, dovendosi dare continuità ai precedenti di Cass. Sez. 2, 5-10-2022 n. 28914, Cass. Sez. 6-2, 14-10-2022 n. 30287, non massimata,Cass. Sez. 2, 4-9-2024 n. 23738 e Cass. Sez. 2 29-1-2025 n. 2135. Come già evidenziato in questi precedenti, il patto di quota lite, vietato in via assoluta dall’.art. 2233 co. 3 cod. civ nella formulazione originaria, è divenuto lecito in base alla modifica di cui all’art. 2 d.l. n. 223/2006 conv. con mod. nella legge n. 248/2006, che ha stabilito l’abrogazione delle disposizioni legislative che prevedevano, tra l’altro, il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti. Il successivo comma 2-bis dell’art. 2 predetto, introdotto in sede di conversione, ha riscritto l’ultimo comma dell’art. 2233 cod. civ., stabilendo l’obbligo di forma scritta, a pena di nullità, per i patti conclusi tra gli avvocati e i clienti concernenti la regolazione dei compensi professionali. Di seguito, l’art. 13 legge n. 247/2012 che ha introdotto la nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense ha reintrodotto il divieto dei patti con i quali l’avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa. Come si legge in Cass. n. 28914/2022:

        «2.5. Nel lasso di tempo intercorso tra il D.L. n. 223 del 2006, e la L. n. 247 del 2012, alcuni interpreti si orientarono per la validità dei patti di quota lite, alla luce anche della ratio dell’intervento riformatore del sistema tariffario voluto dal legislatore del 2006, mentre altri studiosi ne ravvisarono la permanente nullità ove comunque fosse applicabile il divieto di cessione dei crediti a favore di soggetti esercenti determinate attività ex art. 1261 c.c., (“diritti sui quali è sorta contestazione davanti all’autorità giudiziaria di cui fanno parte o nella cui giurisdizione esercitano le loro funzioni”), allorché, dunque, il compenso delle prestazioni dell’avvocato fosse pattuito mediante cessione del credito litigioso (per le differenze tra i due precetti, si vedano già, peraltro, Cass. Sez. 3, 16/07/2003, n. 11144; Cass. Sez. 3, 24/02/1984, n. 1319; Cass. Sez. 2, 27/02/1979, n. 1286; Cass. Sez. 1, 26/03/1953, n. 788); altrimenti, si osservava che la sostituzione dell’art. 2233 c.c., comma 3, operata nel 2006 si era limitata ad individuare il requisito formale essenziale dei patti che stabiliscono i compensi professionali, restando immutati i criteri sostanziali dettati nei primi due commi dello stesso articolo, i quali comunque vietano un compenso convenzionale la cui misura violi il criterio di adeguatezza e proporzionalità rispetto all’opera prestata.

        2.6. Va ancora aggiunto che nel medesimo intervallo temporale assunse rilievo altresì l’art. 45 del codice deontologico forense nel testo modificato con la delibera C.N.F. del 18 gennaio 2007 (tramutatosi poi nel novellato art. 29, comma 4), il quale consentiva all’avvocato di pattuire con il cliente compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti, fermo il divieto dell’art. 1261 c.c., ma sempre che gli stessi compensi fossero “proporzionati all’attività svolta”.

La ragionevolezza di tale limite deontologico di proporzionalità all’attività svolta della misura del compenso parametrato agli esiti del processo fu dubitata da alcuni commentatori, sulla base dell’aleatorietà del patto di quota lite, il cui sinallagma non consente di preservare una corrispettività economica commutativa tra incarico professionale e sua retribuzione da valutare al momento della stipula dell’accordo e quindi semmai anche prima dell’inizio della causa.

      2.7. Le Sezioni Unite di questa Corte, pronunciando in tema di impugnazione delle decisioni disciplinari del Consiglio Nazionale Forense, hanno comunque ritenuto che la prescrizione dell’art. 45 del codice deontologico (che faceva il paio con la previsione dell’art. 43, punto II dello stesso codice) avesse inteso “prevenire il rischio di abusi commessi a danno del cliente e a precludere la conclusione di accordi iniqui”, nel senso che “(l)a proporzione e la ragionevolezza nella pattuizione del compenso” rimanessero “l’essenza comportamentale richiesta all’avvocato, indipendentemente dalle modalità di determinazione del corrispettivo a lui spettante”. Di tal che, “(l)’aleatorietà dell’accordo quotalizio non esclude la possibilità di valutarne l’equità: se, cioè, la stima effettuata dalle parti era, all’epoca della conclusione dell’accordo che lega compenso e risultato, ragionevole o, al contrario, sproporzionata per eccesso rispetto alla tariffa di mercato, tenuto conto di tutti i fattori rilevanti, in particolare del valore e della complessità della lite e della natura del servizio professionale, comprensivo dell’assunzione del rischio” (così Cass., Sez. Unite, 25/11/2014, n. 25012; conforme Cass., Sez. Unite, 04/03/2021, n. 6002).

      2.8. Nella interpretazione prescelta dalle Sezioni Unite, dunque, la proporzionalità, deontologicamente imposta, del compenso pattuito dall’avvocato “quotista” attiene a valutazione non solo sul quantum, ma anche sulle modalità comportamentali dell’accordo concluso col cliente, sotto un profilo di “equità” della stima effettuata dalle parti al momento della stipula, ovvero di complessivo equilibrio contrattuale, prospettiva che attiene alla causa del contratto e dischiude evidentemente la tutela di interessi generali (arg. da Cass., Sez. Unite, 12/12/2014, n. 26243). L’imposto controllo di ragionevolezza del patto di quota lite, teso a scongiurare l’iniquità dell’accordo concluso, non appare limitato al rispetto di doveri di comportamento ad opera dell’avvocato nella fase antecedente o coincidente con la stipulazione del contratto, doveri la cui violazione potrebbe essere unicamente fonte di responsabilità risarcitoria; esso, piuttosto, guarda allo squilibrio significativo tra i diritti e gli obblighi delle parti ed alla giustificazione dei reciproci spostamenti patrimoniali, e, dunque, alla verifica in concreto del requisito causale (la “ragion d’essere dell’operazione”, valutata nella sua individualità) sotto il profilo della liceità e dell’adeguatezza dell’assetto sinallagmatico rispetto agli specifici interessi perseguiti dai contraenti (si vedano indicativamente Cass. Sez. 3, 09/07/2020, n. 14595; Cass. Sez. 2, 29/05/2020, n. 10324; Cass., Sez. Unite, 24/09/2018, n. 22437). Il sindacato giudiziale sull’adeguatezza e sulla proporzionalità della misura del compenso rispetto all’opera prestata trova fondamento nell’art. 2233 c.c., comma 2, (intendendosi lo stesso non come intervento soltanto suppletivo del giudice, ove manchi una valutazione pattizia dei contraenti) e nell’art. 45 del codice deontologico. L’indagine è portata sulla causa concreta del contratto e sull’equilibrio sinallagmatico (non meramente economico) delle prestazioni, ovvero sullo scopo pratico del regolamento negoziale, ed ha come approdo eventuale la nullità del patto di quota lite, ai sensi dell’art. 1418 c.c., comma 2. Tale nullità non concerne l’intero contratto di patrocinio, ma soltanto la clausola relativa, ai sensi dell’art. 1419 c.c., comma 2, (Cass. Sez. 2, 30/07/2018, n. 20069).

       2.9. Invero, come spiegato da Cass. Sez. 3, 27/09/2018, n. 23186, “in linea generale, la violazione di norme deontologiche, se ha sempre un rilievo di tipo disciplinare, non dà luogo di per sé all’illiceità della prestazione o ad altre cause di nullità del contratto di mandato tra professionista e cliente. Diversa può essere la gravità della violazione deontologica e diversa la rilevanza, sia sotto il profilo disciplinare che della validità o meno dell’attività svolta, dell’esistenza di tale violazione. La commissione da parte del professionista di una violazione delle regole di deontologia professionale non comporta in ogni caso la nullità di tutta l’attività svolta e la conseguente non remunerabilità delle relative prestazioni. Occorre verificare se, nel caso concreto, la violazione deontologica, oltre che rilevare sotto il profilo disciplinare, sia di gravità tale da integrare anche una causa di nullità”.

La norma deontologica che fissa il criterio di proporzionalità dei compensi dell’avvocato, del resto, non rivela una portata limitata al rapporto corrente tra il professionista e l’ordine di appartenenza, e perciò rientra tra le fonti secondarie di integrazione del contratto di patrocinio ex art. 1374 c.c., sì da contemperare gli opposti interessi delle parti e da imporre una verifica di adeguatezza delle clausole pattuite a garantire l’equilibrio economico dell’accordo».

Nella fattispecie, il Tribunale di Taranto ha errato nel ritenere la validità del patto di quota lite senza svolgere alcuna indagine sulla proporzione e ragionevolezza nella pattuizione del compenso in correlazione agli specifici interessi delle parti. Quindi in sede di rinvio sarà necessario sottoporre a verifica il patto, facendo applicazione del seguente principio di diritto, già enunciato da  Cass. n. 28914/2022e dagli altri precedenti richiamati: «il patto di quota lite – stipulato dopo la riformulazione dell’art. 2233 co. 3 cod. civ. operata dal d.l. n. 223/2006 convertito in legge n. 248/2006 e prima dell’entrata in vigore dell’ art. 13 legge n. 247/2012– che non violi il divieto di cessione dei crediti litigiosi di cui all’art. 1261 c.c., è valido se – valutato sotto il profilo causale della liceità e dell’adeguatezza dell’assetto sinallagmatico rispetto agli specifici interessi perseguiti dai contraenti, nonché sotto il profilo dell’equità alla stregua della regola integrativa di cui all’art. 45 del codice deontologico forense, nel testo deliberato il 18 gennaio 2007 – la stima tra il compenso e risultato effettuata dalle parti all’epoca della conclusione dell’accordo non risulti sproporzionata per eccesso rispetto alla tariffa di mercato, stante lo scopo di prevenire eventuali abusi a danno del cliente e di impedire la stipula di accordi iniqui a tutela di interessi generali».

  1. Dalla fondatezza del terzo motivo consegue l’assorbimento del secondo motivo, in quanto la questione della vessatorietà e della relativa nullità della clausola posta dal terzo motivo diventerà attuale e perciò dovrà essere esaminata nel caso in cui il giudice del rinvio giungesse a ritenere la validità della clausola dopo averla valutata secondo i principi esposti al punto 4.
  2. Ne consegue che, in accoglimento del terzo motivo, rigettato il primo, assorbito il secondo, l’ordinanza impugnata deve essere cassata, con rinvio al Tribunale di Taranto in diversa composizione, che deciderà facendo applicazione dei principi enunciati e attenendosi a quanto sopra esposto, regolamentando anche le spese del giudizio di legittimità.

 

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