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*Proprietà possesso e diritti reali – Proprietà immobiliare, rinuncia abdicativa, fine egoistico, atto unilaterale non recettizio, acquisto dello Stato a titolo originario come mero effetto riflesso e denegata nullità virtuale

by Giuseppe Bisceglia - Avvocato
20 Agosto 2025
in Diritto Civile
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Corte di Cassazione, Sez. Unite Civili, sentenza 11 agosto 2024, n.23093

PRINCIPIO DI DIRITTO

La rinuncia alla proprietà immobiliare è atto unilaterale e non recettizio, la cui funzione tipica è soltanto quella di dismettere il diritto, in quanto modalità di esercizio e di attuazione della facoltà di disporre della cosa accordata dall’art. 832 cod. civ., realizzatrice dell’interesse patrimoniale del titolare protetto dalla relazione assoluta di attribuzione, producendosi ex lege l’effetto riflesso dell’acquisto dello Stato a titolo originario, in forza dell’art. 827 cod. civ., quale conseguenza della situazione di fatto della vacanza del bene. 

Ne discende che la rinuncia alla proprietà immobiliare espressa dal titolare ‹‹trova causa››, e quindi anche riscontro della meritevolezza dell’interesse perseguito, in sé stessa, e non nell’adesione di un ‹‹altro contraente››.

 Allorché la rinuncia alla proprietà immobiliare, atto di esercizio del potere di disposizione patrimoniale del proprietario funzionalmente diretto alla perdita del diritto, appaia, non di meno, animata da un «fine egoistico», non può comprendersi tra i possibili margini di intervento del giudice un rilievo di nullità virtuale per contrasto con il precetto dell’art. 42, secondo comma, Cost., o di nullità per illiceità della causa o del motivo: ciò sia perché le limitazioni della proprietà, preordinate ad assicurarne la funzione sociale, devono essere stabilite dal legislatore, sia perché non può ricavarsi dall’art. 42, secondo comma, Cost., un dovere di essere e di restare proprietario per «motivi di interesse generale». Inoltre, esprimendo la rinuncia abdicativa alla proprietà di un immobile essenzialmente l’interesse negativo del proprietario a disfarsi delle titolarità del bene, non è configurabile un abuso di tale atto di esercizio della facoltà dominicale di disposizione diretto a concretizzare un interesse positivo diverso da quello che ne giustifica il riconoscimento e a raggiungere un risultato economico non meritato.

TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE

1.- Le questioni devolute con le ordinanze di rinvio pregiudiziale sono sintetizzabili come

  1. a) ‹‹ammissibilità della rinuncia abdicativa al diritto di proprietà su beni immobili›› […]

b ‹‹eventuale indicazione del perimetro del sindacato giudiziale sull’atto››.

  1. Il problema della rinunciabilità del diritto di proprietà immobiliare non può dirsi recente. Se per il diritto romano classico la rinuncia alla proprietà degli immobili era compresa nella più ampia facoltà di derelictio, discutendosi soltanto se oltre la volontà del proprietario e l’effettivo abbandono della cosa occorresse altresì l’occupazione del bene da parte di un terzo, il diritto moderno ha preso ad interessarsene essenzialmente per condizionarne la validità ad una dichiarazione in forma scritta da rendere pubblica mediante trascrizione (ad esempio, art. 1314, n. 3, del codice civile 1865) o, nelle legislazioni di tipo germanico, mediante iscrizione nei libri fondiari;
  2. Già oltre un secolo fa, si affermava in dottrina che la rarità dei casi in cui potesse avvenire una rinuncia del titolare alla proprietà di un immobile giustificava che l’ordinamento civilistico ne limitasse la disciplina alla previsione di specifiche formalità, senza curarsi di regolare più nel dettaglio tale modo di dismissione, pur avvertendo che detta rinuncia serve a soddisfare l’esigenza, tutt’altro che infrequente, di disfarsi di fondi la cui gestione risulti non soltanto infruttuosa, ma anche dannosa;

È questa la situazione che sembra accomunare le due vicende oggetto dei giudizi pendenti dinanzi al Tribunale di L’Aquila e al Tribunale di Venezia. Gli immobili su cui vertono le due cause risultano sottoposti a vincoli conformativi della proprietà privata finalizzati alla tutela dell’interesse pubblico alla stabilità e alla difesa dell’assetto idrogeologico del territorio, il che comporta la prescrizione di limiti ed obblighi alle rispettive facoltà dominicali;

            3.– La giurisprudenza di questa Corte ha, in realtà, sia pure marginalmente, affrontato il tema della rinuncia alla proprietà degli immobili, in sostanza dandone sempre per scontata l’ammissibilità, salvo il rispetto dei requisiti formali;

            3.1. – Così, ad esempio, Cass. 28 maggio 1996, n. 4945, ha affermato che la ‹‹la rinuncia agli effetti positivi del decorso del tempo da parte del possessore di un bene immobile altrui non equivale alla rinuncia al diritto di proprietà già acquisito – che renderebbe l’immobile vacante (e, come tale, spettante al patrimonio dello Stato ai sensi dell’art. 827 cod. civ.) – ma conserva inalterato il diritto di proprietà del precedente titolare, attraverso il rifiuto di far valere la tutela giuridica concessa nei confronti del possesso ininterrotto protratto per il periodo di tempo previsto dalla legge››;

            Secondo la sentenza n. 4945 del 1996, pertanto, alla rinuncia a far valere l’acquisto per usucapione maturatosi per effetto del possesso ininterrotto del fondo protrattosi per un certo periodo di tempo non sarebbe applicabile l’‹‹art. 1350, n. 5, cod. civ. che impone l’osservanza della forma scritta a pena di nullità per gli atti di rinuncia a diritti reali, assoluti o limitati, su beni immobili, poiché (…) tale disposizione si limita a prescrivere i requisiti formali che deve osservare il negozio unilaterale abdicativo con il quale si rinuncia ad un diritto reale già acquistato col rispetto delle forme prescritte dalla legge (atto scritto o sentenza trascritta agli effetti dell’opponibilità a terzi)››.

            Dissentendo dal precedente di cui alla sentenza 9 dicembre 1970, n. 2616, la sentenza n. 4945 del 1996 ha aggiunto che ‹‹non sembra ipotizzabile una rinuncia implicita al diritto di proprietà immobiliare con effetti erga omnes, dal momento che l’unico caso espressamente disciplinato – che è quello dell’abbandono del fondo servente a favore del proprietario del fondo dominante al fine di ottenere la liberazione delle spese necessarie per l’uso o la conservazione della servitù (art. 1070 cod. civ.) – suona come deroga al principio di generale esclusione della rinuncia tacita alla proprietà immobiliare, il quale discende dalla considerazione che la facoltà di godimento spettante al suo titolare può esprimersi anche nella mancanza di qualsiasi comportamento attivo, sicché l’inerzia del titolare non può rivestire connotati qualificanti agli effetti della dimissione del diritto di proprietà››. Identicamente risolvendo la medesima questione […] si sono poi pronunciate Cass. 5 settembre 1998, n. 8815; Cass. 1° aprile 1999, n. 3122; Cass. 19 gennaio 2018, n. 1363;

            Sempre con riguardo alla prescrizione di forma scritta ex art. 1350, n. 5, cod. civ., Cass. 26 luglio 1983, n. 5133, vi ha ritenuto soggetta la rinuncia del coerede al diritto di proprietà (esclusiva) sui beni immobili assegnatigli in sede di divisione ereditaria;

            Così anche Cass. Sez. Un. 29 marzo 2011, n. 7098, ha inteso sottoposta alla forma scritta di cui all’art. 1350, n. 5, cod. civ. la rinuncia del legittimario al legato avente ad oggetto un bene immobile disposto dal testatore ai sensi dell’art. 551 cod. civ., in quanto atto dismissivo della proprietà di beni già acquisiti al suo patrimonio;

            La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Grande Camera, con sentenza 30 agosto 2007, J.A. Pye (Oxford) Ltd & J.A. Pye (Oxford) Land Ltd v. United Kingdom […] ha negato che la disciplina dell’adverse possession, dapprima vigente nel Regno Unito, contrastasse con l’art. 1, prot. 1, CEDU, intendendo l’istituto come vicenda estintiva non della proprietà del vecchio titolare, ma del diritto dello stesso di recuperare il fondo che avesse abbandonato, a fronte della  nascita di un nuovo titolo di acquisto  in capo  al possessore, compatibile con la necessità dello Stato di disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale;

  1. – La Corte costituzionale, con sentenza 27 febbraio 2024, n. 28, nel dichiarare non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 633 del codice penale, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3 42 e 47 della Costituzione, ha osservato che, poiché scopo della incriminazione ai sensi dell’art. 633 cod. pen. è la tutela del diritto di godere pacificamente o di disporre dell’immobile, spettante al proprietario, al possessore o al detentore qualificato, oggetto dell’azione delittuosa non possono che essere terreni o edifici altrui, senza alcuna distinzione, e quindi anche terreni incolti, o non produttivi, nonché edifici disabitati o abbandonati.

            L’art. 633 cod. pen., pertanto, trovando applicazione anche in ipotesi di invasione di edifici in stato di abbandono da più anni, non confligge con l’art. 42 Cost., ‹‹non discendendo dallo stato di abbandono un automatico effetto estintivo dello ius excludendi alios riservato al titolare della situazione di attribuzione del bene››;

            5.- […] il Consiglio di Stato (Adunanza Plenaria), con sentenza 20 gennaio 2020, n. 2, ha affermato che, con riguardo alla disciplina posta dall’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001, l’illecito permanente dell’autorità, che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, viene meno nei casi previsti da detta disposizione (l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la conclusione di un contratto traslativo tra le parti di natura transattiva; mentre non può essere ravvisata una rinuncia abdicativa implicita nell’atto di proposizione in giudizio, da parte del privato illegittimamente espropriato, della richiesta di risarcimento del danno per la perdita della proprietà occupata dalla P.A. a seguito dell’irreversibile trasformazione del fondo;

  1. Le questioni rimesse dai Tribunali di L’Aquila e di Venezia inducono perciò a riflettere preliminarmente sulla portata del ‹‹diritto di disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo››, enunciato dall’art. 832 del codice civile, e sulla configurabilità di un ‹‹limite››, da rinvenire nella legge, a norma dell’art. 42, secondo comma della Costituzione, alla possibilità giuridica di rinunciare alla titolarità dell’immobile, che permei il contenuto del diritto stesso e così ricada sulla rilevanza dell’atto abdicativo;
  2. La facoltà di disporre, che pur l’art. 832 cod. civ. si preoccupa di specificare nella definizione del contenuto della proprietà, è, per il vero, caratteristica normale di tutti i diritti patrimoniali, traducendosi, di regola, nella possibilità di trasferire la situazione giuridica ad altro soggetto, in modo da realizzarne il valore […];

Peraltro, anche l’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea si apre enunciando che ‹‹[o]gni individuo ha il diritto di godere della proprietà dei beni che ha acquistato legalmente, di usarli, di disporne e di lasciarli in eredità››;

7.1. – […] L’esercizio della facoltà di disporre della proprietà non implica nemmeno necessariamente lo scambio con un suo corrispettivo. Il pensiero va in proposito alla donazione, oltre che, come dai più si assume, proprio alla rinuncia del diritto;

Si evidenzia, in ogni modo, che l’idoneità di una cosa a formare oggetto del diritto di proprietà implica essenzialmente che essa possa essere sia trasferita a terzi, ovvero scambiata con altre cose, sia rinunciata da parte del titolare;

            7.2. – Pure le sentenze di queste Sezioni Unite del 15 novembre 2022, n. 33645 e n. 33659, hanno spiegato il diritto «di disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo», ex art. 832 cod. civ., non come limitato allo jus vendendi, ma come potere di scegliere le possibili destinazioni del bene e di modificarne l’organizzazione produttiva, recependone la definizione quale “profilo più intenso del diritto di godere”;

            7.3. – Il tema in esame coinvolge, dunque, anche la concorrente facoltà di ‹‹godere›› delle cose, parimenti elevata dall’art. 832 cod. civ. a contenuto della proprietà, e che si spiega come attuazione, ad opera del titolare, dell’interesse patrimoniale protetto dalla relazione di attribuzione tra soggetto e bene […];

7.4. – […] il ‹‹diritto di godere›› della res ‹‹in modo pieno ed esclusivo›› […] equivalga a dare attuazione all’interesse patrimoniale del proprietario […];

7.5. – La categoria dei ‹‹beni comuni›› rappresenta, così, un inquadramento sistematico in grado di offrire al problema dei beni immobili abbandonati una risposta diversa rispetto a quella fornita dal codice civile, sia pure limitatamente a quelli oggetto di interesse ad una gestione diretta in forma comunitaria.

 Nel valutare la meritevolezza della scelta di destinazione e di utilizzazione del singolo bene operata dal proprietario, peraltro, viene in primo piano il principio dettato dall’art. 42, secondo comma, Cost., che chiede alla legge di riconoscere e garantire la proprietà privata determinandone i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la ‹‹funzione sociale››;

 In dottrina si è rimarcato che il precetto costituzionale, in tal modo, ha richiesto alla legge ordinaria di disciplinare l’intera materia della proprietà privata, riferendosi tanto ai «modi d’acquisto» (e quindi al regime dell’appartenenza ed alle sue vicende: acquisto, modificazione, estinzione, diritti parziali), quanto ai «modi di godimento» (e cioè alla fruizione rimessa al titolare, come anche alla «utilizzazione» correlata agli atti autoritativi aventi effetti conformativi della proprietà privata) ed infine ai «limiti» (che fanno rinvio alla conformazione del contenuto del diritto di proprietà realizzato dalla legge);

Al riguardo, la Corte costituzionale ha spiegato che “[l]’art. 42 Cost. prescrive alla legge di riconoscere e garantire il diritto di proprietà, ma ne mette in risalto la «funzione sociale». Quest’ultima deve essere posta dal legislatore e dagli interpreti in stretta relazione all’art. 2 Cost., che richiede a tutti i cittadini l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà economica e sociale” (Corte cost. 24 ottobre 2007, n. 348).    Tuttavia, si è anche chiarito che l’art. 42, secondo comma, Cost., non ha “trasformato la proprietà privata in una funzione pubblica”: piuttosto, la Costituzione “ha chiaramente continuato a considerare la proprietà privata come un diritto soggettivo, ma ha affidato al legislatore ordinario il compito di introdurre, a seguito delle opportune valutazioni e dei necessari bilanciamenti dei diversi interessi, quei limiti che ne assicurano la funzione sociale” (Corte cost. 28 luglio 1983, n. 252);

La concezione della funzione sociale della proprietà come strumento attuativo della soddisfazione di interessi generali, e non dell’interesse economico individuale del titolare, svolge il suo ruolo mediante limitazioni legali delle facoltà di disposizione e di godimento che si giustificano per intere categorie di beni, inserendosi nella struttura del diritto e vincolandolo indissolubilmente ad un esercizio conformato […];

  1. – Se la “funzione sociale” «esprime, accanto alla somma dei poteri attribuiti al proprietario nel suo interesse, il dovere di partecipare alla soddisfazione di interessi generali, nel che si sostanzia la nozione stessa del diritto di proprietà come viene modernamente intesa e come è stata recepita dalla nostra Costituzione» (Corte cost. 23 aprile 1986, n. 108; Corte cost. 30 aprile 2015, n. 71), non vi è, comunque, un dovere di essere e di restare proprietario per «motivi di interesse generale» […];

Il minimo costituzionale del diritto di proprietà, pertanto, è dato sia dal legame di appartenenza del bene, sia dall’apprezzabile valore economico dello stesso. Se le facoltà di godere e disporre della cosa risultano annullate, e non residua alcuna utilità patrimoniale per il dominus, viene meno la medesima proprietà, non potendosi riqualificare il titolare come gestore nell’interesse collettivo;

  1. – Per dare risposta alle questioni rimesse dai Tribunali di L’Aquila e di Venezia non è indispensabile verificare se la pienezza e l’esclusività del ‹‹diritto di godere e disporre›› attribuito al proprietario comprendano tuttora, come si affermava espressamente in alcune codificazioni e in alcuni trattati dell’Ottocento, anche il potere di abbandonare la cosa.

            La condizione di abbandono rileva per i beni mobili, nel senso che la derelizione comporta quale effetto legale la perdita della proprietà e consente il successivo acquisto a titolo originario in capo all’occupante (art. 923 cod. civ.);

  1. – […] Nella rinuncia alla proprietà immobiliare al fine del prodursi dell’effetto abdicativo non basta il comportamento materiale dell’abbandono (sia pur accompagnato dall’animus derelinquendi), ma occorre comunque il compimento di un atto dispositivo;

            Quando, peraltro, l’ordinamento pone divieti ai proprietari di disporre di determinati beni mediante abbandono incontrollato degli stessi, la illegittimità della condotta dismissiva viene affermata non già sindacando l’abusività dell’atto di abdicazione, rientrante nel contenuto del diritto di proprietà, ma per la violazione di norme imperative di ordine pubblico, che, in via generale ed astratta, esprimono scelte tassative che il legislatore ha ritenuto essenziali ed irrinunciabili per gli interessi della collettività;

  1. – Estraneo al nucleo fondamentale del dubbio interpretativo posto dai Tribunali rimettenti è anche il dibattito sulle fattispecie di c.d. ‹‹abbandono liberatorio›› (indicativamente, artt. 882, 963, 1104, 1070 cod. civ.), che, pur nelle peculiarità delle singole ipotesi normative, si caratterizzano per il tratto distintivo del perseguimento di una funzione che va oltre l’abdicazione e consiste nella liberazione da un’obbligazione connessa alla cosa, la quale deve essere adempiuta dal titolare del medesimo diritto reale che si dismette e nasce a carico di quest’ultimo nel momento in cui si verifica la circostanza prevista dalla legge per il suo sorgere, sicché, venuto meno lo ius ad rem che consente l’identificazione del soggetto debitore, vien meno anche la causa obligandi;

            Si parla perciò, con riguardo alle figure di ‹‹abbandono liberatorio››, di rinunce qualitativamente diverse dalla rinuncia alla proprietà esclusiva, incidendo esse inevitabilmente, mediante acquisto o “accrescimento” ope legis, nella sfera giuridica di un altro soggetto del rapporto reale;

            Quando queste Sezioni Unite, con le sentenze del 10 giugno 1988, nn. da 3940 a 3946, rese nell’ambito del contenzioso sugli effetti della illegittima occupazione e radicale trasformazione di fondi privati per la costruzione di opere pubbliche, presero in esame le “varie ipotesi, normativamente previste, di abbandono del proprio diritto (art. 550, 1070, 1104 cod. civ.)”, sottolinearono che “la rinunzia del proprietario assume costantemente carattere di gratuità, di volontaria accettazione, cioè, di una decurtazione del proprio patrimonio, sia pure in vista di evitare spese od oneri maggiori; ma non può mai tradursi in strumento per immutare nel patrimonio stesso una sua componente sostituendo al bene immobile dereliquendo il suo controvalore monetario ed imponendo ad altri il prestarsi a tanto mercé una sorta di acquisto coattivo”. Le stesse pronunce considerarono che l’abbandono della proprietà, “proprio perché di per sé incapace di approdare ad effetti traslativi nei confronti di terzi determinati”, determinerebbe “quella vacuità di assetto proprietario dante luogo, secondo la previsione di cui all’art. 827 cod. civ., alla attribuzione del bene stesso al patrimonio dello Stato […];

            Le ipotesi di abbandono liberatorio realizzano, dunque, prioritariamente […] una funzione satisfattiva rispetto ad obbligazioni che sono a carico del rinunciante, e si connotano come vicenda estintiva (e non anche mediatamente traslativa) di una posizione soggettiva complessa del medesimo dichiarante. Ciò ne segna anche il tratto distintivo rispetto alle facoltà di ‹‹cessione›› di cui agli artt. 888 e 1128, quarto comma, cod. civ., le quali realizzano, piuttosto, una esplicita funzione traslativa di natura reale;

  1. – La rinuncia alla proprietà immobiliare, sulla cui ammissibilità si interrogano i Tribunali rimettenti, è atto essenzialmente unilaterale, la cui funzione tipica è soltanto quella di dismettere il diritto, senza interessarsi della destinazione del bene e del suo contestuale, o successivo, eventuale acquisto da parte di altro soggetto.;

            L’unilateralità e non recettizietà dell’atto di rinuncia abdicativa alla proprietà di un immobile sono conseguenze dell’interesse individuale che essa realizza con la dichiarazione del titolare del diritto soggettivo diretta unicamente a dismettere il medesimo. Tale dichiarazione va manifestata nel mondo esterno perché produca il suo effetto mediante atto pubblico o scrittura privata e va trascritta perché sia opponibile a determinati terzi, ma non deve rivolgersi ad una determinata persona perché ne abbia conoscenza, seppure si tratti di persona interessata alla rinuncia;

            12.1. – L’adempimento della trascrizione ex art. 2643, n. 5, cod. civ. (ove si parla di atti ‹‹tra vivi››, al pari dell’art. 1324 cod. civ.) della rinuncia alla proprietà immobiliare contro il suo autore, in quanto atto abdicativo unilaterale, non ha efficacia costitutiva e nemmeno svolge, in realtà, la funzione tipica, disposta dall’art. 2644 cod. civ., di dirimere i possibili conflitti tra più acquirenti a titolo derivativo dal medesimo dante causa, producendosi il conseguente acquisto dello Stato, stabilito dall’art. 827 cod. civ., a titolo originario, ove sia dimostrata la situazione di fatto della vacanza del bene;

Essendo l’acquisizione a titolo originario al patrimonio disponibile statale un effetto riflesso, ma legislativamente automatico, della rinuncia abdicativa, la soluzione, proposta in dottrina, di eseguire la formalità anche in favore dello Stato, nelle forme della pubblicità dichiarativa prevista per gli atti traslativi, viene peraltro motivata dall’opportunità di una siffatta segnalazione per l’operatività del principio di continuità e per l’esigenza di tutela dell’affidamento dei terzi (ad esempio, l’eventuale successivo acquirente dal rinunciante);

12.2. – Inoltre, la medesima natura originaria, e non traslativa, dell’acquisizione degli immobili vacanti al patrimonio dello Stato rende inapplicabili le disposizioni in materia di nullità urbanistiche, conformità catastale e prestazione energetica richiamate nelle difese delle amministrazioni statali;

In quanto atto non recettizio e pure privo di alcun effetto liberatorio, la prescrizione di un onere comunicativo in capo al rinunciante, che si aggiunga all’adempimento dell’onere della trascrizione, inerisce non al campo delle regole di validità e di efficacia della rinuncia, su cui si incentrano le questioni di diritto oggetto dei rinvii pregiudiziali e da risolvere in questa sede, giacché necessarie alla definizione dei processi a quibus, quanto a quello delle regole di comportamento, che possono essere soltanto fonte di eventuale responsabilità;

  1. – Così delineata, la rinuncia alla proprietà immobiliare espressa dal titolare ‹‹trova causa›› (e quindi anche la propugnata meritevolezza dell’interesse perseguito) in sé stessa e non nell’atto di un ‹‹altro contraente›› cui sia destinata, né, del resto, produce un vincolo contrattuale. Si tratta di una forma attuativa del potere di disposizione del proprietario che non è soggetta dalla legge ad alcun espresso limite di scopo, come sarebbe altrimenti consentito dall’art. 42, secondo comma, della Costituzione, ove si ravvisasse un immediato controinteressato che, a tutela della propria sfera giuridica, potesse opporre il veto all’effetto abdicativo, in maniera da costringere il rinunciante a rimanere titolare della proprietà;

            13.1. – Non rappresenta argomento decisivo per affermare la irrinunciabilità della proprietà immobiliare nemmeno la constatazione della inestinguibilità del diritto che si desume dalla imprescrittibilità dell’azione di rivendicazione. Basta al riguardo osservare che l’art. 948, terzo comma, cod. civ. è riferibile tanto ai beni immobili quanto ai beni mobili e che la generale imprescrittibilità dell’azione di rivendicazione si coordina con la possibilità dell’acquisto della proprietà per usucapione, sicché in tal caso il diritto non si estingue per il semplice non uso, ma in conseguenza dell’avvenuto acquisto del diritto da parte di altra persona;

Non possono condividersi i dubbi sulla atipicità dell’atto di rinuncia alla proprietà immobiliare, che si vorrebbe non espressamente consentita dalla legge.;

È risaputa la consueta obiezione che fa leva sulla lettera degli artt. 1350, n. 5 e 2643, n. 5, cod. civ. e sulla ratio degli artt. 827 e 923 cod. civ.;

Sono altrettanto ricorrenti le repliche che ricavano la rinunciabilità della proprietà dalla sua struttura di diritto assoluto di natura patrimoniale, la cui persistente titolarità non è destinata a soddisfare l’interesse antagonistico diretto di alcun altro soggetto del rapporto;

Quello che appare metodologicamente errato è tuttavia ricercare nella legge non un esplicito divieto di rinunciare alla proprietà delle cose, o di alcune cose, quanto, al contrario, una positiva affermazione che la proprietà possa essere rinunciata;

La irrinunciabilità della proprietà non può, del resto, tramutarsi in un sacrificio illimitato e perpetuo del potere di realizzare il valore del bene e di attuare l’interesse patrimoniale a sceglierne la destinazione economica, allo scopo esclusivo di vincolare il proprietario a continuare a sostenerne i costi di gestione altrimenti gravanti sulla collettività, così trasformando la proprietà privata in una funzione pubblica;

– Non pare corretto ribaltare la prospettiva, sostenendo che con la rinuncia alla proprietà immobiliare e l’acquisto automatico da parte dello Stato ai sensi dell’art. 827 cod. civ. si esaurisce la funzione sociale ex art. 42 Cost. e viene meno la ratio di tutela del diritto. Al contrario, la previsione dell’attribuzione al patrimonio disponibile statale degli immobili vacanti prende atto del potere di disporre mediante rinunzia da riconoscere al privato proprietario, ove questi non tragga alcuna utilità economica dal bene, e lo compensa con l’espressione di un consenso preventivo ex lege all’acquisto nell’ambito della proprietà pubblica, la quale ha, in quanto tale, funzione sociale;

Gli argomenti adoperati nel vasto dibattito generatosi negli ultimi anni per sindacare, sotto i profili della invalidità, della immeritevolezza o dell’abusività, l’atto di rinuncia alla proprietà immobiliare, in quanto presupposto della situazione che porta poi all’acquisto legale ex art. 827 cod. civ., allorché essa abbia ad oggetto beni “dispendiosi” o “disutili”, si appellano al principio di intangibilità della sfera giuridica altrui se non in ipotesi di effetti patrimonialmente vantaggiosi per l’interessato e della facoltà di rifiuto da parte di quest’ultimo (ad un “potere di rifiuto eliminativo dell’acquisto” si riferiscono le memorie depositate dal Ministero dell’economia e delle finanze e dall’Agenzia del demanio);

Si tratta di limite notoriamente ravvisato in presenza di attribuzioni traslative di diritti reali, le quali abbiano effetto nei confronti di terzi in maniera che costoro possano risentire un potenziale pregiudizio per gli oneri o gli obblighi di custodia e di gestione discendenti dalla titolarità degli «iura in rem»; qui detto limite opererebbe, invece, in concreto come correttivo di una vicenda di acquisto a titolo originario. Sono quindi da condividere le tesi di coloro che negano che nella rinuncia alla proprietà immobiliare possa ravvisarsi una proposta diretta a concludere un contratto, rifiutabile dal destinatario, secondo il procedimento di formazione dell’accordo di cui all’art. 1333 cod. civ.;

La replica più convincente a queste teorie viene portata evidenziando che la relazione funzionale e strutturale ed i meccanismi di efficacia inerenti ad un atto di dismissione della proprietà privata e ad un modo di acquisizione della proprietà pubblica vengono così ricostruiti, di caso in caso, secondo le logiche contingenti delle diseconomie esterne delle attività produttive e dell’aspetto sociale dei costi e dei benefici collettivi dell’operazione, a seconda che la proprietà di quel dato bene risulti per il suo titolare situazione giuridica di vantaggio o, al contrario, “negativa”;

Se la rinuncia è una forma di attuazione dell’interesse del proprietario, che si esprime ‹‹erga omnes››, un possibile limite esterno ad essa, pur non espressamente disposto dalla legge, si ravviserebbe, secondo alcuni, per esigenze di tutela riflessa di soggetti che si trovano in altre situazioni inerenti al bene. Per dirsi non conforme al contenuto stesso della proprietà, dovrebbe trattarsi, tuttavia, di atto non riconducibile all’astratta possibilità di soddisfare i bisogni del dominus, e cioè non orientato a realizzare alcun concreto ed apprezzabile interesse del titolare verso il bene, comunque consistente nella scelta della sua destinazione. L’interesse del proprietario in riferimento al bene giuridico, come si è già considerato, discende dalla natura reale del diritto e dalla intrinseca patrimonialità del suo oggetto, sicché la rinuncia potrebbe rivelarsi, di caso in caso, atto inutile o dannoso soltanto se volta a perseguire esclusivamente un interesse insuscettibile di valutazione economica rispetto alla res, e quindi di per sé estraneo all’esercizio della proprietà;

– In proposito, viene opposto il divieto degli atti d’emulazione di cui all’art. 833 cod. civ., che impedisce al proprietario di ‹‹fare atti i quali non abbiano altro scopo che quello di nuocere o recare molestia ad altri››. La giurisprudenza di questa Corte spiega l’atto d’emulazione come comportamento che il proprietario, in quanto tale ed in connessione alle facoltà che a detto titolo gli spettano, pone in essere senza ritrarne alcun apprezzabile vantaggio, quanto meno in termini di risparmio  di spesa, e  spinto  unicamente dall’animus nocendi. In sostanza, deve trattarsi di attività non corrispondente a quelle espressamente previste dalla legge come rientranti fra i poteri del proprietario, né sorretta da alcuna giustificazione di natura utilitaristica dal punto di vista economico e sociale (ex multis, Cass. Sez. Unite 16 maggio 1983, n. 3359). In tale prospettiva, l’atto emulativo è valutato negativamente dall’ordinamento giacché si pone del tutto all’esterno della relazione tipica di interesse corrente tra proprietario e bene giuridico;

Così anche ad intendere l’art. 833 cod. civ., in parallelo agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., quale espressione di un più generale principio ordinamentale di divieto di abuso del diritto, il profilo acquisirebbe rilievo dirimente solo considerando che la rinuncia alla proprietà non costituisca un atto di esercizio del dominio potenzialmente realizzatore dell’interesse patrimoniale protetto dalla relazione assoluta di attribuzione tra soggetto e bene. Allorché si invoca un controllo giudiziale sull’esercizio asociale della proprietà, lo si fa con riguardo a quei concreti comportamenti proprietari di esercizio attivo dei poteri di utilizzazione del bene, che sacrificano le ragioni dei terzi e che vengono valutati secondo i canoni della responsabilità civile;

Una volta, invece, ammessa la rinuncia abdicativa alla proprietà come modalità di attuazione dei poteri dominicali di utilizzazione e di scelta della destinazione del bene, le categorie degli atti emulativi e dell’abuso del diritto non possono ergersi a limiti della stessa per la tutela di interessi altrui o per la salvaguardia di scopi generali di varia natura;

In particolare, le tesi che condizionano la rinuncia alla proprietà immobiliare alla verifica del possibile «danno alla sicurezza» che limita in negativo l’iniziativa economica privata ai sensi dell’art. 41, secondo comma, Cost., assoggettano la relazione dominicale tra titolare e bene, che è riconosciuta dall’art. 42 Cost., alle diverse regole dell’attività di utilizzazione del patrimonio e del mercato. Così, anche il libero godimento della proprietà privata sarebbe sottoposto al limite generale del suo svolgimento in contrasto con l’utilità sociale o che possa recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana, quale quello stabilito per l’esercizio di ogni attività produttiva;

Analogo           discorso           può                  farsi      analizzando      la relazione di eventuale implicazione tra rinuncia alla proprietà e disciplina della tutela antidelittuale, ove quest’ultima volesse intendersi limitativa della realizzazione dell’interesse proprietario per garantire, nella composizione del conflitto, la protezione dell’interesse all’integrità patrimoniale di terzi. La rinuncia, si sostiene, sarebbe impedita se volta ad incidere artatamente sul regime della responsabilità aquiliana derivante dalla proprietà immobiliare (art. 2053 cod. civ., ma anche art. 2051 cod. civ. ove il proprietario abbia del bene, come di norma, anche la custodia; si veda Cass. 29 settembre 2017, n. 22839). Tuttavia, le disposizioni in tema di responsabilità per fatti illeciti che fanno riferimento alla proprietà guardano ad essa come ragione di disponibilità della cosa che comporti il potere – dovere di intervento sulla stessa, da verificare nel momento in cui si è verificato il danno (così Cass. 7 agosto 2013, n. 18855, precisava che l’obbligo di risarcire               il          danno, ai         sensi dell’art.     2051    cod.     civ.,      non                  è un’obbligazione propter rem, che si trasferisce dal venditore al compratore insieme alla proprietà dell’immobile da cui il danno stesso proviene; Cass. 16 luglio 1966, n. 1924, e Cass. 3 marzo 1965, n. 360, precisavano che, ai fini della responsabilità ex art. 2053 cod. civ., il momento in cui la qualifica di proprietario dell’edificio assume rilevanza per l’individuazione del soggetto passivo è quello della avvenuta rovina della costruzione, restando ininfluenti i trasferimenti di proprietà avvenuti prima o dopo l’evento dannoso; ma si veda anche Cass. Sez. Un. 16 febbraio 2016, n. 2951, per la autonomia dell’obbligazione risarcitoria rispetto alla proprietà del bene cui ineriscono i danni);

L’argomento che la condotta manutentiva è giuridicamente doverosa per il proprietario (ai sensi dell’art. 2053 cod. civ.) o che su di esso spieghi effetti il rapporto custodiale con la cosa (ai sensi dell’art. 2051 cod. civ.) è insuperabile quale criterio giustificativo della realità delle obbligazioni che trovano la propria ragion d’essere nelle anzidette fattispecie di responsabilità speciali, in base al principio cuius commoda eius et incommoda, ma si rivela fallace, cioè privo di validità logica, se adoperato a confutazione della rinunciabilità della proprietà. La responsabilità per i danni che siano causalmente collegati alla proprietà di un immobile, e il cui fatto illecito generatore si rinvenga nella negligente costruzione/manutenzione o custodia dello stesso, persiste anche in caso di rinuncia abdicativa (e non liberatoria) al bene. In forza dell’acquisto al patrimonio dello Stato, stabilito dall’art. 827 cod. civ., quest’ultimo diviene vincolato propter rem per i soli obblighi gestori sorti dopo la rinuncia, mentre le responsabilità risarcitorie sorte anteriormente restano a carico del rinunciante;

Se ne trae plausibile conferma dalla disciplina dettata dall’art. 882 cod. civ. per la fattispecie della rinuncia al diritto di comunione sul muro comune e della correlata esenzione dall’obbligo di contribuzione nelle spese di riparazione e ricostruzione, ove si nega l’effetto liberatorio per il rinunciante che ‹‹abbia dato causa col fatto proprio››, trasferendosi, a causa della dismissione del diritto reale, l’onere delle spese dipendenti dall’uso normale della cosa, e non invece di quelle connesse ad un pregresso titolo di responsabilità personale. Mentre l’onere delle spese di riparazione e ricostruzione del muro comune per quelle cause di deterioramento dipendenti dal suo uso normale è, ai sensi dell’art. 882 cod. civ., a carico di tutti i comproprietari, in proporzione del diritto di ciascuno, e si trasferisce, perciò, in capo a chiunque sia proprietario della cosa nel momento in cui si presenta la necessità della riparazione o della ricostruzione, l’onere delle spese provocate dal fatto di uno dei partecipanti, essendo connesso alla responsabilità personale di questo, grava esclusivamente sul soggetto che vi ha dato causa e non si trasferisce, quindi, a causa del trasferimento del diritto reale, al condomino che gli è succeduto;

Riveste significato in tale prospettiva altresì la ricostruzione operata nella sentenza di queste Sezioni Unite del 1° febbraio 2023, n. 3077, in tema di bonifica e ripristino ambientale dei siti inquinati, pervenendo alla conclusione che l’obbligo di adottare le misure di messa in sicurezza idonee a fronteggiare la situazione di inquinamento è a carico di colui che di essa sia responsabile per avervi dato causa, in base al principio “chi inquina paga”, e non del proprietario incolpevole per il sol fatto che gli appartiene la titolarità del fondo;

Nel medesimo angolo di visuale si colloca la sentenza 4 gennaio 2024, n. 199, che, a proposito del diritto di rivalsa della pubblica amministrazione nei confronti del responsabile dell’inquinamento per le spese relative agli interventi di bonifica e ripristino ambientale eseguiti in via sostitutiva, ai sensi dell’art. 17 del d.lgs. n. 22 del 1997 (e, successivamente, degli artt. 242, 244 e 250 del d.lgs. n. 152 del 2006), ha delineato i tratti di un’obbligazione indennitaria ex lege, gravante sul medesimo responsabile ed avente ad oggetto il recupero degli esborsi necessari all’espletamento di una “pubblica funzione”, sostenuti “alla stregua di un peculiare meccanismo di sussidiarietà verticale”, attraverso il quale, “a garanzia della tutela di un  bene  di  interesse  super-individuale  e  dotato  di  rilevanza costituzionale, è sempre assicurato il ripristino ambientale”;

L’incidenza della responsabilità per i danni recati a terzi dalla cosa non può, quindi, individuarsi come limite della facoltà di disporne rinunziandovi, addossando al proprietario il dovere di rimanere tale, in maniera da agevolare la ricerca del soggetto obbligato a risarcire i medesimi danni connessi a detta qualità;

L’auspicio di un sindacato sull’utilità concreta e sull’abusività della rinuncia alla proprietà immobiliare postula, viceversa, la necessità di un controllo dall’esterno di tale modo di esercizio del diritto dominicale, che realizza un interesse del titolare verso il bene, utilizzando gli strumenti della teoria del negozio e della causa per esigenze di tutela riflessa di soggetti che si trovano in altre situazioni inerenti al bene e siano portatori di interessi confliggenti nel medesimo regolamento;

La giurisprudenza di questa Corte descrive l’art. 827 cod. civ. come fattispecie produttiva di un effetto giuridico conseguente ad una determinata situazione di fatto, quale la vacanza del bene immobile (Cass. 2 marzo 2007, n. 4975; Cass. 27 gennaio 1976, n. 256), ovvero come ipotesi di acquisto “a carattere chiaramente originario”, a differenza dell’acquisto iure successionis, e quindi a titolo derivativo, dei beni (immobili, mobili e crediti) in caso di devoluzione dell’eredità allo Stato per mancanza di altri successibili, ai sensi dell’art. 586 cod. civ. (Cass. 11 marzo 1995, n. 2862). La natura successoria dell’acquisto dell’eredità da parte dello Stato, che non necessita di accettazione né è passibile di rinuncia o di rilascio liberatorio (i quali, peraltro, determinerebbero comunque l’acquisto ex art. 827 cod. civ.), essendo finalizzato alla liquidazione in favore di creditori e legatari, giustifica la previsione nel secondo comma dell’art. 586 cod. civ. della responsabilità intra vires hereditatis;

La Relazione al codice civile spiegava: «[c]olmando una lacuna del codice del 1865, la quale aveva aperto l’adito a dubbi e a soluzioni diverse, ho disposto (art. 827) che i beni immobili che non sono di proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato: con questa nuova norma è pertanto escluso che vi siano beni immobili senza proprietario» (n. 398); e poi (n. 430): «[l]’art. 923, riproducendo con lieve variante l’art. 711 del codice precedente, pone in evidenza che l’occupazione, come modo di acquisto della proprietà, è limitata alle cose mobili. L’esclusione della possibilità di acquistare per occupazione i beni immobili si coordina con la norma che ho introdotto nell’art. 827 per attribuire al patrimonio dello Stato i beni immobili che non siano di proprietà di alcuno. È così risolta una questione che traeva vita dalla formula generica dell’articolo 711 del codice anteriore» (ove non si distingueva tra «cose» mobili e immobili, né si era riprodotto l’art. 713 del vigente codice civile francese);

La soluzione raggiunta nel codice del 1942 indubitabilmente risulta più in linea con le esigenze di certezza giuridica delle posizioni immobiliari, altrimenti pregiudicate ove si fosse optato per la rilevanza acquisitiva dell’occupazione degli immobili abbandonati. Torna alla mente la recente affermazione della già richiamata sentenza della Corte costituzionale n. 28 del 2024, secondo cui alla inutilizzazione di terreni o edifici non si correla alcun automatico ed istantaneo effetto estintivo del dominio, né, in forza degli artt. 42 e 2 Cost., la proprietà in stato di abbandono può soffrire menomazioni da parte di chiunque voglia limitarne la fruizione. Per soddisfare i bisogni di sicurezza nella circolazione dei beni immobili e di tutela delle aspettative di colui che si sia posto stabilmente in una relazione qualificata con un fondo, il nostro ordinamento ha scelto di servirsi del rimedio dell’usucapione, che pure costituisce un modo di acquisto originario della proprietà in conseguenza di un fatto giuridico (possesso, decorso del termine) e non di un rapporto con il precedente titolare del diritto, ma si pone in conflitto con la pretesa del soggetto usucapito;

L’art. 1, comma 260, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, ha poi rimesso ad un decreto del Ministro della giustizia la determinazione dei criteri per l’acquisizione dei dati e delle informazioni rilevanti per individuare i beni giacenti o vacanti da devolvere allo Stato, prescrivendo anche l’applicazione dell’art. 1163 cod. civ. al possesso esercitato su tali immobili sino a quando il terzo, esercente attività corrispondente al diritto di proprietà o ad altro diritto reale, non notifichi all’Agenzia del demanio detta situazione. Va rimarcato che questa disposizione non suppone alcun giudizio di “convenienza” nella individuazione degli immobili vacanti da devolvere allo Stato;

-Appare improprio ridurre la portata precettiva dell’art. 827 cod. civ. a criterio di allocazione del rischio della mancata o incerta prova della proprietà. Tale disposizione è, piuttosto, una regola di attribuzione allo Stato di tutti gli immobili non appartenenti ad alcuno, senza che rilevi che si tratti, o meno, di beni abbandonati da un precedente titolare, o di beni produttivi, o di beni aventi un residuo valore di mercato;

Così inteso, l’art. 827 cod. civ. non appare argomento dirimente per affermare l’ammissibilità o l’inammissibilità della rinuncia abdicativa alla proprietà immobiliare. Come chiarisce il riportato stralcio della Relazione al codice civile, la norma fu introdotta per replicare il principio, già tipico del sistema feudale, che non vi possono essere beni immobili senza padrone. L’art. 827 cod. civ. fa sistema con l’art. 838 cod. civ., il quale attribuisce all’autorità amministrativa il potere di far luogo all’espropriazione di beni di generale utilità, allorché il proprietario ne abbia abbandonato la conservazione, la coltivazione o l’esercizio;

Non di meno, quando l’acquisto in capo allo Stato dell’immobile che non sia in proprietà di alcuno deriva dalla rinuncia del precedente titolare, si ipotizzano controlli di meritevolezza e di validità sotto il profilo causale per cautelare l’amministrazione dall’eventualità di un atto abdicativo del privato che sia unicamente diretto a far ricadere su di essa la responsabilità dei danni provocati dall’immobile (il quale versi in condizioni di dissesto idrogeologico, o sia inquinato, o anche soltanto diruto o pericolante), oppure a provocare l’estinzione per confusione delle obbligazioni di diritto pubblico (in specie, di quelle tributarie), che vedono creditore lo Stato;

La rinuncia alla proprietà immobiliare è stata indagata da alcuni studiosi, in quest’ottica, anche quale possibile ipotesi di abuso del diritto tributario, ovvero in relazione al principio generale antielusivo, così da renderla inopponibile all’Amministrazione finanziaria, al qual fine occorrerebbe, tuttavia, dimostrare che il negozio sia posto in essere soltanto per ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta ed in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di siffatti benefici;

Si assume, ulteriormente, che la rinuncia alla proprietà di un immobile non rivelerebbe alcuna utilità giuridica, se non la realizzazione del mero interesse materiale di fatto, pur estraneo ad ogni rapporto fra rinunciante e Stato, a provocare l’obbligo d’acquisto dannoso in mano pubblica, con le annesse ricadute patrimonialmente pregiudizievoli;

Tuttavia, come si è già ritenuto, la rinuncia alla proprietà immobiliare persegue l’unica finalità tipica di dismettere il diritto e regola unicamente l’interesse patrimoniale del proprietario, senza che abbiano rilievo interessi pratici del dominus diversi dall’intenzione puramente abdicatoria, e senza richiedere che alcun altro soggetto controinteressato alla rinuncia ne abbia conoscenza o vi presti assenso, altrimenti costringendo il rinunciante a rimanere proprietario;

L’atto di rinuncia alla proprietà di un immobile non è causalmente rivolto alla costituzione di un nuovo rapporto giuridico in cui la titolarità del bene è attribuita all’amministrazione statale. Lo Stato diventa proprietario dopo che è venuta meno la precedente relazione di attribuzione tra il soggetto e la situazione giuridica di proprietà. L’acquisizione al patrimonio disponibile dello Stato trova, perciò, il proprio titolo costitutivo nella vacanza, e non nella rinuncia;

Neppure condiziona l’efficacia immediata della rinuncia, restando dato comunque esterno al perfezionamento della fattispecie abdicativa, la questione inerente alla automaticità dell’acquisto dello Stato, o piuttosto alla procedimentalizzazione di quest’ultimo, che postulerebbe una fase valutativa della convenienza dell’acquisizione dell’immobile al patrimonio pubblico;

L’acuta distinzione tra ‹‹titolarità›› e ‹‹spettanza›› della proprietà, fondata sul tenore letterale dell’art. 827 cod. civ., dal quale si desumerebbe che ‹‹spetta›› allo Stato una verifica del fondamento dell’acquisto, non permette comunque di ravvisare una soggezione del rinunciante ad un diritto potestativo dell’amministrazione statale, esercitabile mediante manifestazione unilaterale della volontà di impedire a quello di escludere il bene dal suo patrimonio e di aderire all’effetto dell’ingresso dell’immobile nel dominio pubblico;

Si osserva, ancora, che, mentre l’art. 586 cod. civ., prescrivendo l’acquisto dell’eredità da parte dello Stato, in mancanza di successibili, è una disposizione inevitabile, imposta dalla morte e dalla necessità di dare seguito ai rapporti giuridici già facenti capo al de cuius, la rinuncia abdicativa alla proprietà è atto volontario. Deriva, tuttavia, da un’opzione anche il regime di acquisto pubblico creato nell’art. 827 cod. civ., avendo l’ordinamento esplicitato mediante esso una funzione sovrana dello Stato sul territorio, ispirata da un ravvisato interesse pubblico a che gli immobili vacanti non diventino res nullius liberamente occupabili dai privati. È il legislatore che, per i beni immobili, a differenza di quanto stabilito dall’art. 923 cod. civ. per le cose mobili abbandonate (ove l’acquisto a titolo originario postula un comportamento apprensivo che si sostanzia nell’occupazione), fa seguire alla rinuncia alla proprietà ed al suo effetto dismissivo del diritto la condizione dell’acquisizione legale a titolo originario in favore dello Stato, senza che quest’ultimo sia chiamato a svolgere alcuna attività positiva di accettazione o di impossessamento;

Il che non impedisce, tuttavia, che il legislatore possa altrimenti rimodulare il vigente art. 827 cod. civ., in modo da trovare un diverso assetto di equilibrio nei rapporti tra pubblico e privato, operando una riforma di sistema in ordine al regime dei beni immobili vacanti e del correlato acquisto al patrimonio dello Stato e scegliendo i mezzi che riterrà così più idonei a realizzare la tutela dei fini costituzionalmente necessari nella composizione della pluralità degli interessi in gioco, evincibili pure dalle esigenze prospettate nelle difese delle amministrazioni attrici;

La circostanza che, come evidenziato nelle difese del Ministero dell’economia e delle finanze e dell’Agenzia del demanio, gli atti di rinuncia oggetto delle cause in esame contenessero clausole nelle quali si prevedeva espressamente l’acquisto dello Stato ai sensi dell’art. 827 cod. civ., non denota per ciò solo una caratterizzazione quale manifestazione di volontà dei rinuncianti rivolta a produrre tale effetto. Queste clausole risultano al più ricognitive della spettanza ex lege degli immobili rinunciati al patrimonio dello Stato, essendosene verificati i presupposti: esse, cioè, costituiscono la mera ricognizione del verificarsi di un effetto legale e non realizzano un negozio bilaterale traslativo della proprietà, che abbia bisogno del consenso dell’acquirente;

 L’acquisizione al patrimonio pubblico dei beni immobili che non sono proprietà di alcuno si spiega, quindi, come espressione della sovranità dello Stato, evolutivamente intesa non quale principio soggettivo di autorità, ma come sintesi dei valori essenziali della comunità che presentano precipuo rilievo costituzionale, quali, nella specie in materia di governo del territorio, quelli paesaggistici, ambientali, archeologici e di prevenzione dei rischi geologici, idrogeologici e sismici, e, prima ancora, in materia di «sicurezza», quelli collegati alla tutela dell’interesse generale alla incolumità delle persone;

Questo nucleo fondamentale di valori, in cui si sostanziano i rapporti tra comunità ed apparato autoritario, si impone su qualsiasi pretesa soggettiva di dominio, e non è dunque influenzato dal venir meno dell’interesse particolare del proprietario rinunciante e dalla soggezione dello stesso agli oneri relativi, né è temperato da verifiche caso per caso afferenti alla convenienza economica dell’acquisto statale;

Del resto, se il fondamento della irrinunciabilità della proprietà degli immobili si voglia spiegare per le asserite prevalenti ragioni di tutela dell’interesse generale, è indimostrato, se non proprio in rapporto di opposizione con l’explanans, il dato che una migliore tutela dell’interesse della collettività sia garantita dalla preclusione dell’effetto dismissivo “antisociale” e dalla permanente titolarità imposta al rinunciante;

L’evocazione comparativa dei sistemi giuridici di common law, orientati nel senso della irrinunciabilità della proprietà immobiliare, conferma che quella soluzione trova giustificazione non nel differente punto di equilibrio tra proprietà privata del singolo e diritti sociali, quanto nella diversa organizzazione dello Stato;

Rispetto alle prerogative della sovranità statale in tema di sicurezza e governo del territorio, la prospettazione della nullità di una rinuncia alla proprietà immobiliare mossa dal solo «fine egoistico» di trasferire in capo all’Erario, per effetto dell’art. 827 cod. civ., i costi e i danni dei terreni con problemi di dissesto idrogeologico, o inquinati, o gli edifici inutilizzabili, dà vita ad un singolare principio di sussidiarietà orizzontale di compiti nel rapporto fra privati proprietari, investiti prioritariamente del perseguimento di interessi generali a vocazione sociale, e autorità pubblica, la quale subentrerebbe nella titolarità del bene solo se tali interessi siano stati previamente soddisfatti dai rinuncianti;

 Delineata la spettanza al patrimonio dello Stato ex art. 827 cod. civ. quale effetto riflesso, e non “interno”, della rinuncia abdicativa alla proprietà immobiliare, nemmeno può ergersi a ragione di non meritevolezza, ovvero a causa di nullità dell’atto privato di disposizione del bene la violazione del principio di cui all’art. 81, primo comma, Cost., che chiama lo Stato ad assicurare ‹‹l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico››. L’‹‹equilibrio di bilancio›› e la «copertura economica delle spese» (di cui all’art. 81, terzo comma, Cost.) operano, secondo la giurisprudenza costituzionale, come «due facce della stessa medaglia, dal momento che l’equilibrio presuppone che ogni intervento programmato sia sorretto dalla previa individuazione delle pertinenti risorse» (Corte cost., sentenze n. 165 del 2023, n. 44 del 2021, n. 274 del 2017 e n. 184 del 2016). Si tratta, dunque, di clausole generali poste a presidio delle esigenze di finanza pubblica, implicate altresì dai vincoli derivanti dall’appartenenza all’Unione europea ed operanti nel sindacato di costituzionalità attinente a qualsiasi previsione legislativa che possa, anche solo in via ipotetica, determinare nuove spese. Da siffatti principi, funzionali a preservare l’equilibrio economico- finanziario del complesso delle amministrazioni pubbliche e a garantire l’unità economica della Repubblica, non può ad un tempo trarsi un limite generale, ovvero una “regola di validità”, dell’autonomia privata;

Anche su tale aspetto, resta ovviamente ferma la possibilità per il legislatore di rimodulare la disciplina dei beni immobili vacanti, provvedendo, ove ritenga, a graduare l’attuazione dei valori costituzionali implicati nel rispetto del vincolo dell’equilibrio di bilancio in senso dinamico;

 Le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 827 cod. civ., in riferimento agli artt. 2, 3, 41, secondo comma, e 97 Cost., sollevate dal Ministero dell’economia e delle finanze e dall’Agenzia del demanio, oltre che non rilevanti, non essendo questa Corte chiamata a fare immediata applicazione della disposizione censurata per pronunciare sui rinvii pregiudiziali, ai sensi dell’art. 363-bis cod. proc. civ., sono, pertanto, manifestamente infondate. L’acquisto ex lege dei beni immobili vacanti da parte dello Stato, senza che sia riconosciuto un “potere di rifiuto eliminativo”, non si pone affatto di per sé in contrasto con i principi fondamentali della solidarietà e dell’uguaglianza economica e sociale, non consente lo svolgimento di alcuna forma di esercizio della libertà di iniziativa economica in contrasto con l’utilità sociale, né arreca un vulnus ai principi del buon andamento finanziario e della programmazione dell’attività amministrativa. I dubbi dedotti in proposito dalle difese delle amministrazioni statali si risolvono, piuttosto, in inconvenienti di fatto, come tali inidonei a incidere sulla lamentata lesione di parametri costituzionali;

– In definitiva sul punto, non appare predicabile che la rinuncia alla proprietà di un immobile sia valida, e che perciò provochi quella situazione di vacanza presupposta dalla legge ai fini dell’acquisizione al patrimonio dello Stato, solo se il bene sia “non inutile”, ovvero “conveniente”, in base al suo valore economico, come se dovessero valutarsi i vantaggi di una prestazione in relazione al sacrificio provocato da una prevista controprestazione;

Tanto la rinuncia del privato proprietario, quanto l’acquisto dello Stato, rilevano in funzione della realizzazione di interessi che costituiscono un prius rispetto alla qualificazione giuridica delle rispettive fattispecie, prescindendo dal fatto che abbiano ad oggetto un bene utile, o profittevole, in termini di valore economico puramente soggettivo, e che l’uno e l’altro abbiano un plausibile interesse, rispettivamente, a dismetterlo e ad acquisirlo e conservarlo. La relazione di proprietà tutelata dall’ordinamento intercorre in via diretta e immediata tra soggetto e bene corporale, indipendentemente dal valore d’uso di quest’ultimo;

 

Quanto sinora affermato a proposito della ammissibilità della rinuncia abdicativa alla proprietà su beni immobili consente di dare risposta anche al secondo profilo delle questioni rimesse dai Tribunali di L’Aquila e di Venezia, inerente all’‹‹eventuale indicazione del perimetro del sindacato giudiziale sull’atto››.

Non è in discussione la possibilità per i creditori del rinunziante alla proprietà di un immobile di proporre un’azione revocatoria per domandare che sia dichiarato inefficace nei loro confronti l’atto abdicativo di rinuncia, importando esso una pregiudizievole modificazione giuridico-economica della situazione patrimoniale del debitore;

Il          dibattito                       si                     incentra,           piuttosto,                      sulla                 verifica della “meritevolezza e/o illiceità della causa” dell’atto di rinuncia alla proprietà immobiliare, o della “illiceità del motivo”, o della “frode alla legge”, o della “nullità per contrasto col divieto di abuso del diritto”. In        tale       dibattito,          si                     deve     tener                conto   degli     approdi della giurisprudenza di questa Corte in ordine all’ambito del sindacato di meritevolezza ex art. 1322, secondo comma, cod. civ., ancorato al presupposto dell’atipicità del negozio; ovvero al controllo sul rispetto dei “limiti imposti dalla legge”, di cui al medesimo art. 1322, primo comma, da compiersi attraverso lo spettro delle norme costituzionali e sovranazionali (Cass. Sez. Un. 24 settembre 2018, n. 22437);

Tutti questi possibili rimedi invalidanti dell’atto di rinuncia alla proprietà di un immobile non appaiono praticabili in base a quanto dapprima sostenuto con riguardo all’ammissibilità della rinuncia stessa.

Come già detto, la rinuncia alla proprietà immobiliare è atto essenzialmente unilaterale e non recettizio, la cui funzione tipica è soltanto quella di dismettere il diritto, senza interessarsi della futura destinazione del bene e del suo contestuale, o successivo, eventuale acquisto da parte di altro soggetto. In quanto modo di attuazione dell’interesse patrimoniale del proprietario, nella specie mediante esercizio della facoltà di disporre della cosa in modo pieno ed esclusivo accordata dall’art. 832 cod. civ., l’unico intento che ha rilievo giuridico è quello dell’autore della dichiarazione di rinuncia;

La rinuncia costituisce forma di espressione del potere di disposizione del proprietario che non è soggetta dalla legge ad alcun espresso limite di scopo, limite che l’art. 42, secondo comma, Cost. potrebbe, viceversa, in astratto fondare ove si ravvisasse un immediato controinteressato il quale, a tutela della propria sfera giuridica, potesse impedire il prodursi dell’effetto abdicativo, in maniera da imporre al rinunciante di rimanere titolare della proprietà;

Pertanto, la rinuncia alla proprietà immobiliare espressa dal titolare

‹‹trova causa›› in sé stessa e non nell’atto di un ‹‹altro contraente›› cui sia destinata, e quindi soddisfa anche il controllo di meritevolezza dell’interesse perseguito;

La meritevolezza della rinuncia abdicativa alla proprietà di un immobile va apprezzata non come mezzo di valutazione della congruità di uno scambio economicamente significativo in base alle regole del mercato, ma con riferimento al potere dominicale di scegliere la destinazione economica da imprimere alla cosa e di utilizzarla in modo oggettivamente apprezzabile;

– A fronte di un atto di esercizio del potere di disposizione patrimoniale del proprietario diretto alla perdita del diritto, non può peraltro comprendersi tra i possibili margini di intervento del giudice un rilievo di nullità virtuale per contrasto con il precetto dell’art. 42, secondo comma, Cost., sia pure inteso quale specificazione con riferimento alla proprietà privata dell’art. 2 Cost., per il profilo dell’adempimento  dei  doveri  inderogabili  di  solidarietà  (come evincibile da Corte cost., ordinanze 24 ottobre 2013, n. 248, e 2

aprile 2014, n. 77);

La rinuncia alla proprietà immobiliare animata dal «fine egoistico» di accollare allo Stato le spese e i danni dei fondi in dissesto idrogeologico, inquinati o inutilizzabili, analizzata in base alla funzione obiettiva che il rinunciante intenzionalmente attribuisce al negozio e, quindi, alle finalità individuali, concrete, che ne condizionano il senso e la portata, dovrebbe dirsi contraria ad una norma imperativa, oppure il mezzo per frodare l’applicazione di una siffatta norma, o ispirata da un motivo illecito determinante obiettivizzato nell’atto abdicativo;

Sotto un profilo formale, l’applicazione diretta da parte del giudice del principio della ‹‹funzione sociale›› ex art. 42, secondo comma, Cost., come norma imperativa e quindi come regola di validità cui la rinuncia alla proprietà immobiliare debba sottostare, è preclusa dalla riserva di legge che condiziona la determinazione dei modi di acquisto, di godimento e dei limiti. L’art. 42, secondo comma, Cost. contempla, invero,      una      riserva  di                     legge            relativa, rafforzata dall’indicazione         dello scopo      della     funzione                      sociale              (nonché dell’accessibilità a tutti), la quale così rappresenta l’indirizzo generale cui deve ispirarsi la legislazione ordinaria: ciò comporta che le limitazioni della proprietà, preordinate ad assicurarne la funzione sociale, possono essere stabilite solo dal legislatore, e non dal giudice.

Sotto un profilo sostanziale, osta a ritenere che la rinuncia alla proprietà immobiliare possa realizzare un contrasto con l’art. 42, secondo comma, Cost., la considerazione, già svolta, che tale norma non implica un dovere di essere e di restare proprietario per «motivi di interesse generale», essendo dato il minimo costituzionale del diritto di proprietà sia dal legame di appartenenza del bene, sia dall’apprezzabile valore economico dello stesso;

Consistendo la rinuncia abdicativa alla proprietà in un atto di esercizio del dominio realizzatore dell’interesse patrimoniale protetto dalla relazione assoluta di attribuzione tra soggetto e bene, essa non si presta ad un impiego come strumento diretto ad eludere norme imperative per ottenere un risultato vietato dalla legge, né può pensarsi finalizzata esclusivamente al perseguimento di scopi riprovevoli ed antisociali;

Quello che la rinuncia esprime è l’interesse, a saldo totalmente negativo, a disfarsi della proprietà, e cioè il disinteresse a mantenere la titolarità del bene, mentre l’ipotizzato abuso abdicativo supporrebbe un esercizio della facoltà proprietaria diretto a concretizzare un interesse positivo diverso da quello che ne giustifica il riconoscimento e a raggiungere un risultato economico non meritato;

D’altro canto, la rinuncia alla proprietà di un immobile non può mai dirsi voluta per conseguire l’effetto di farne ricadere gli oneri sullo Stato, giacché la conseguenza della insorgenza della responsabilità statale propter rem discende non dall’autoregolamento degli interessi dettato dal rinunciante, ma, come già affermato, dall’acquisto ex lege stabilito dall’art. 827 cod. civ.;

Sempre perché la rinuncia alla proprietà di un immobile dà luogo ad una modalità di attuazione dei poteri dominicali di utilizzazione e di scelta della destinazione della res, non è, dunque, sostenibile un controllo giudiziale che preluda ad una tutela demolitoria dell’atto contro gli abusi di cui siano rimasti vittime terzi interessati, per la salvaguardia di scopi generali e di ragioni di efficienza economica;

Ciò non implica una confutazione delle autorevoli tesi che ravvisano nella funzione sociale ex art. 42, secondo comma, Cost. un «limite interno» precettivo della proprietà, che regola in negativo i comportamenti del proprietario, vietandogli quelle attività non espressamente previste dalla legge come rientranti fra i suoi poteri, né sorrette da alcuna giustificazione di natura utilitaristica dal punto di vista economico e sociale, e pertanto esterne alla relazione tipica di interesse corrente tra dominus e bene.

L’esercizio antisociale della proprietà rimane soggetto al controllo giudiziale con riguardo a quei concreti comportamenti proprietari che sacrificano le ragioni dei terzi e che vengono perciò valutati secondo i canoni della responsabilità civile;

Quel che qui si intende è che, in presenza di un atto di disposizione patrimoniale, quale la rinuncia formale alla proprietà di un immobile, essenzialmente votato alla perdita del diritto, non può invocarsi lo scopo della funzione sociale – che l’art. 42, secondo comma, Cost. impone alla normazione conformativa del contenuto del diritto di proprietà – per decidere della validità di tale atto, affidando al giudice un “sindacato di costituzionalità” della medesima rinuncia abdicativa alla proprietà immobiliare in nome di un bilanciamento di interessi da sovrapporre a quello operato nel codice civile;

Per ricostruire altrimenti la nullità della rinuncia ad immobili “dannosi” come dipendente dalla impossibilità giuridica del suo oggetto, fa comunque difetto la base legale che ostacoli in modo assoluto il risultato cui essa è diretta;

Devono quindi enunciarsi i seguenti principi di diritto:

La rinuncia alla proprietà immobiliare è atto unilaterale e non recettizio, la cui funzione tipica è soltanto quella di dismettere il diritto, in quanto modalità di esercizio e di attuazione della facoltà di disporre della cosa accordata dall’art. 832 cod. civ., realizzatrice dell’interesse patrimoniale del titolare protetto dalla relazione assoluta  di  attribuzione,  producendosi  ex  lege  l’effetto  riflesso dell’acquisto dello Stato a titolo originario, in forza dell’art. 827 cod. civ., quale conseguenza della situazione di fatto della vacanza del bene. Ne discende che la rinuncia alla proprietà immobiliare espressa dal titolare ‹‹trova causa››, e quindi anche riscontro della meritevolezza dell’interesse perseguito, in sé stessa, e non nell’adesione di un ‹‹altro contraente››;

 Allorché la rinuncia alla proprietà immobiliare, atto di esercizio del potere di disposizione patrimoniale del proprietario funzionalmente diretto alla perdita del diritto, appaia, non di meno, animata da un «fine egoistico», non può comprendersi tra i possibili margini di intervento del giudice un rilievo di nullità virtuale per contrasto con il precetto dell’art. 42, secondo comma, Cost., o di nullità per illiceità della causa o del motivo: ciò sia perché le limitazioni della proprietà, preordinate ad assicurarne la funzione sociale, devono essere stabilite dal legislatore, sia perché non può ricavarsi dall’art. 42, secondo comma, Cost., un dovere di essere e di restare proprietario per «motivi di interesse generale». Inoltre, esprimendo la rinuncia abdicativa alla proprietà di un immobile essenzialmente l’interesse negativo del proprietario a disfarsi delle titolarità del bene, non è configurabile un abuso di tale atto di esercizio della facoltà dominicale di disposizione diretto a concretizzare un interesse positivo diverso da quello che ne giustifica il riconoscimento e a raggiungere un risultato economico non meritato;

Viene disposta la restituzione degli atti, rispettivamente, al Tribunale di L’Aquila e al Tribunale di Venezia;

Non vi è luogo a provvedere sulle spese sostenute nei procedimenti di rinvio pregiudiziale, non sussistendo in relazione ad essi una soccombenza riferibile alla iniziativa delle parti;

La Corte, pronunciando sui rinvii pregiudiziali disposti dal Tribunale di L’Aquila e dal Tribunale di Venezia con le ordinanze in epigrafe, enuncia i seguenti principi di diritto:

La rinuncia alla proprietà immobiliare è atto unilaterale e non recettizio, la cui funzione tipica è soltanto quella di dismettere il diritto, in quanto modalità di esercizio e di attuazione della facoltà di disporre della cosa accordata dall’art. 832 cod. civ., realizzatrice dell’interesse patrimoniale del titolare protetto dalla relazione assoluta di attribuzione, producendosi ex lege l’effetto riflesso dell’acquisto dello Stato a titolo originario, in forza dell’art. 827 cod. civ., quale conseguenza della situazione di fatto della vacanza del bene;

Ne discende che la rinuncia alla proprietà immobiliare espressa dal titolare ‹‹trova causa››, e quindi anche riscontro della meritevolezza dell’interesse perseguito, in sé stessa, e non nell’adesione di un ‹‹altro contraente››;

 Allorché la rinuncia alla proprietà immobiliare, atto di esercizio del potere di disposizione patrimoniale del proprietario funzionalmente diretto alla perdita del diritto, appaia, non di meno, animata da un «fine egoistico», non può comprendersi tra i possibili margini di intervento del giudice un rilievo di nullità virtuale per contrasto con il precetto dell’art. 42, secondo comma, Cost., o di nullità per illiceità della causa o del motivo: ciò sia perché le limitazioni della proprietà, preordinate ad assicurarne la funzione sociale, devono essere stabilite dal legislatore, sia perché non può ricavarsi dall’art. 42, secondo comma, Cost., un dovere di essere e di restare proprietario per «motivi di interesse generale». Inoltre, esprimendo la rinuncia abdicativa alla proprietà di un immobile essenzialmente l’interesse negativo del proprietario a disfarsi delle titolarità del bene, non è configurabile un abuso di tale atto di esercizio della facoltà dominicale di disposizione diretto a concretizzare un interesse positivo diverso da quello che ne giustifica il riconoscimento e a raggiungere un risultato economico non meritato;

Si dispone la restituzione degli atti al Tribunale di L’Aquila e al

Tribunale di Venezia.

 […]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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