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*Reati – Abuso d’ufficio – Legittimità costituzionale dell’abrogazione dell’abuso d’ufficio

by Giuseppe Bisceglia - Avvocato
9 Luglio 2025
in Diritto Penale
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Corte Costituzionale, sentenza 03 luglio 2025, n. 95

PRINCIPIO DI DIRITTO

Vanno  dichiarati inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera b), della legge 9 agosto 2024, n. 114 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all’ordinamento giudiziario e al codice dell’ordinamento militare), sollevate, complessivamente in riferimento agli artt. 3, 11 e 97 della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Locri, dal Tribunale ordinario di Firenze, sezione terza penale, dal Tribunale ordinario di Busto Arsizio, sezione penale, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Firenze, dal Tribunale ordinario di Teramo, dal Tribunale ordinario di Locri, sezione penale, dal Tribunale ordinario di Catania, sezione seconda penale, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Roma e dalla Corte di cassazione, sesta sezione penale

 

Vanno, altresì, dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera b), della legge n. 114 del 2024, sollevate, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., complessivamente in relazione agli artt. 1, 5, 7, paragrafo 4, 19 e 65, paragrafo 1, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dall’Assemblea generale dell’ONU il 31 ottobre 2003, ratificata e resa esecutiva con la legge 3 agosto 2009, n. 116, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Locri, dal Tribunale ordinario di Firenze, sezione terza penale, dal Tribunale ordinario di Busto Arsizio, sezione penale, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Firenze, dal Tribunale ordinario di Teramo, dal Tribunale ordinario di Locri, sezione penale, dal Tribunale ordinario di Bolzano, sezione penale, dal Tribunale ordinario di Catania, sezione seconda penale, dal Tribunale ordinario di Modena, sezione penale, dal Giudice delle indagini preliminari del Tribunale ordinario di Roma e dalla Corte di cassazione, sezione sesta penale.

TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE

1.– […] questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera b), della legge n. 114 del 2024, che ha abrogato l’art. 323 cod. pen., in riferimento complessivamente:

– all’art. 3 Cost.;

– all’art. 97 Cost.

– agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., ovvero al solo art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli obblighi discendenti complessivamente dagli artt. 1, 5, 7, paragrafo 4, 19 e 65 UNCAC.

2.– Le ordinanze prospettano questioni analoghe, sicché i relativi giudizi meritano di essere riuniti ai fini della decisione.

2.1.– In sintesi, i rimettenti sostengono in primo luogo che la scelta legislativa di abolire il delitto di abuso di ufficio contrasterebbe con gli obblighi internazionali derivanti dalla Convenzione di Mérida; con conseguente illegittimità costituzionale della disposizione censurata in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. (ovvero, secondo talune ordinanze, al solo art. 117, primo comma, Cost.).

Più in particolare, secondo le tredici ordinanze emesse da giudici di merito […], l’abrogazione del reato violerebbe le obbligazioni discendenti dalla UNCAC, dalla quale deriverebbe, a carico degli Stati parte che già prevedessero nel rispettivo ordinamento penale l’incriminazione dell’abuso d’ufficio al momento della ratifica della Convenzione, un “divieto di regresso” (o obbligo di stand still), e dunque il divieto di abrogare tale norma incriminatrice.

Con la propria ordinanza di rimessione (iscritta al n. 50 reg. ord. del 2025), la Corte di cassazione reputa invece che l’abolizione del delitto in questione abbia piuttosto determinato la violazione dell’obbligo di mantenere standard di efficace attuazione della UNCAC nel suo complesso, nonché rispetto allo specifico obiettivo di assicurare l’efficace attuazione dei sistemi di prevenzione della corruzione.

2.2.– Le ordinanze iscritte al n. 233 reg. ord. del 2024 e al n. 33 reg. ord. del 2025 dubitano poi della compatibilità della disposizione con l’art. 3 Cost., ritenendo che la scelta abrogativa del delitto di abuso d’ufficio costituisca il frutto di un esercizio irragionevole del potere legislativo, irrispettoso del principio di eguaglianza. Il legislatore avrebbe infatti creato irragionevoli disparità di trattamento tra condotte dotate di analogo contenuto offensivo, lasciando altresì prive di sanzione penale condotte più gravi di altre, che continuano a essere qualificate come reati.

2.3.– Infine, le ordinanze iscritte ai numeri 222 e 233 reg. ord. del 2024 e ai numeri 4, 8 e 33 reg. ord. del 2025 lamentano che l’abolizione del delitto di abuso d’ufficio abbia creato un vuoto di tutela contro aggressioni particolarmente gravi ai principi del buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione, con conseguente ulteriore vulnus all’art. 97 Cost.

3.– Devono essere anzitutto esaminate le numerose eccezioni di inammissibilità sollevate dall’interveniente Avvocatura generale dello Stato e dalle parti costituite.

Tali eccezioni possono essere distinte in due gruppi. Una prima serie di eccezioni, concernenti solo alcune delle ordinanze di rimessione, si appunta sull’asserita irrilevanza delle questioni prospettate, in relazione a carenze motivazionali in ordine alla necessità di fare applicazione della disposizione censurata nei singoli giudizi a quibus (infra, 4). Un secondo gruppo di eccezioni concerne invece, trasversalmente, tutte le ordinanze di rimessione, e si incentra sul divieto di questioni di legittimità in malam partem in materia penale (infra, 5).

4.– Prendendo le mosse dal primo gruppo di eccezioni, va preliminarmente ribadito che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (da ultimo, ex plurimis, sentenze n. 45 del 2024, punto 2 del Considerato in diritto, e n. 164 del 2023, punto 4 del Considerato in diritto), ai fini della rilevanza delle questioni è sufficiente che la disposizione censurata sia applicabile nel giudizio a quo e che la pronuncia di accoglimento possa influire sull’esercizio della funzione giurisdizionale quantomeno sotto il profilo del percorso argomentativo della decisione nel processo principale (ex plurimis, sentenze n. 25 del 2024 , punto 2.2. del Considerato in diritto, n. 249 del 2021, punto 6 del Considerato in diritto, n. 154 del 2021, punto 2.1. del Considerato in diritto; ordinanza n. 194 del 2022), specificamente – in materia penale – con riguardo alla formula di proscioglimento da adottarsi nel dispositivo, anche ove non muti l’esito assolutorio per l’imputato (sentenza n. 148 del 1983, punto 3 del Considerato in diritto, con principio successivamente ribadito, ex multis, dalla sentenza n. 394 del 2006, punto 6.3. del Considerato in diritto; sentenza n. 28 del 2010, punto 7 del Considerato in diritto; sentenza n. 223 del 2015, punto 4.3. del Considerato in diritto).

Alla luce di tali criteri, nessuna delle eccezioni di inammissibilità per difetto di motivazione sulla rilevanza formulate in relazione alle singole ordinanze di rimessione merita accoglimento.

In particolare:

– contrariamente a quanto eccepito dalla difesa dell’imputato C. C., nel giudizio di cui all’ordinanza iscritta al n. 222 reg. ord. del 2024, il giudice a quo ha ben chiarito che, quand’anche per gli imputati fosse già maturato il termine di prescrizione del reato, il collegio rimettente dovrebbe oggi pronunciare una sentenza di assoluzione «perché il fatto non è previsto dalla legge come reato», ex artt. 129, comma 2, e 530, comma 1, cod. proc. pen., prevalendo la suddetta causa assolutoria sulla improcedibilità per estinzione del reato per intervenuta prescrizione, stante il carattere di assoluta evidenza della abolitio criminis. L’accoglimento delle questioni prospettate aprirebbe invece necessariamente a esiti decisori diversi, anche solo sotto il profilo dell’eventuale formula di proscioglimento;

– contrariamente a quanto eccepito dalla difesa dell’imputato E.M. P. nel giudizio di cui all’ordinanza iscritta al n. 232 reg. ord. del 2024, il giudice a quo ha fornito ampia e non implausibile motivazione della rilevanza della questione, anche a fronte di un’imputazione per abuso d’ufficio formulata, nel caso di specie, in via alternativa rispetto a quelle di turbata libertà degli incanti e di turbata libertà del procedimento di scelta del contraente. Il rimettente ha chiarito, infatti, che la questione sollevata sarebbe rilevante perché «in caso di contestazione alternativa, ben potrebbe il Giudice pronunciarsi […] sulla insussistenza di una delle imputazioni e poi, nel prosieguo, in merito all’altra». La questione sarebbe egualmente rilevante anche se «si ritenesse che la contestazione alternativa, riguardando il medesimo fatto storico, impedisse una decisione autonoma su ognuna delle due imputazioni». Infatti, «nel caso in cui permanesse nel nostro ordinamento il delitto di cui all’art. 323 c.p.», il Tribunale non potrebbe prosciogliere immediatamente gli imputati ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., ma dovrebbe proseguire l’istruttoria dibattimentale. Tale duplice motivazione supera ampiamente il vaglio di non implausibilità sulla motivazione in punto di rilevanza demandato a questa Corte, la quale ha già chiarito – proprio in un caso in cui era stata formulata una imputazione alternativa – che in tale ipotesi «il giudice è chiamato a misurarsi con entrambe le fattispecie alternativamente evocate» (sentenza n. 127 del 2017, punto 2 del Considerato in diritto);

– contrariamente a quanto eccepito dalla difesa dell’imputato D. N. (peraltro senza alcuna enunciazione delle ragioni dell’eccezione) e dall’Avvocatura generale dello Stato, nel giudizio di cui all’ordinanza iscritta al n. 233 reg. ord. del 2024 il GUP rimettente ha fornito motivazione adeguata della rilevanza delle questioni, affermando: di dover decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio formulata dal pubblico ministero nei confronti di alcuni degli imputati per i fatti descritti nell’ordinanza e qualificati come abuso d’ufficio; di non poter ricondurre i fatti contestati ad altre fattispecie di reato; e di escludere che i reati si fossero estinti per prescrizione. L’accoglimento delle questioni inciderebbe dunque, come giustamente sottolinea il rimettente, «sulla possibilità di celebrare un processo, di addivenire a un giudizio di responsabilità penale per condotte certamente abusive (se verificate) o di proscioglimento nel merito»;

– contrariamente a quanto eccepito dall’Avvocatura generale dello Stato, nel giudizio di cui all’ordinanza iscritta al n. 4 reg. ord. del 2025 il rimettente ha chiarito le ragioni della rilevanza della questione, riferendo di dover fare applicazione della disposizione abrogatrice della cui costituzionalità dubita, pronunciando sentenza di proscioglimento immediato degli imputati, ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., perché il fatto non è più previsto come reato. Ove invece la questione di legittimità fosse accolta, ha proseguito il rimettente, il giudizio potrebbe proseguire per l’accertamento della responsabilità penale degli imputati: il che tra l’altro lascia chiaramente intendere che, ad avviso del Tribunale, non sussistono allo stato le condizioni per un proscioglimento immediato, ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., per ragioni diverse dall’abolitio del reato;

– contrariamente a quanto eccepito dall’Avvocatura generale dello Stato, nel giudizio di cui all’ordinanza iscritta al n. 17 reg. ord. del 2025 il rimettente ha pure chiarito la rilevanza della questione, precisando di dover fare immediata applicazione della disposizione abrogatrice con la sentenza di proscioglimento degli imputati perché il fatto non è più previsto come reato. Con ciò, ha proseguito il giudice a quo, resterebbe esclusa la possibilità di proseguire il giudizio e di giungere tanto a una sentenza di condanna e al conseguente vaglio della richiesta risarcitoria avanzata dalla parte civile, quanto al proscioglimento degli imputati con una formula assolutoria più favorevole di quella imposta dall’abrogazione del reato. Il giudice a quo, inoltre, ha motivato espressamente circa l’ininfluenza della eventuale maturazione del termine di prescrizione, sottolineando che i fatti contestati avrebbero perso, a seguito dell’abrogazione della fattispecie di reato, «qualsiasi connotazione criminosa che possa giustificare tale pronuncia di estinzione»: affermazione, quest’ultima, puntualmente confortata dalla giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 15 dicembre 1999-14 gennaio 2000, n. 356);

– contrariamente a quanto eccepito dall’Avvocatura generale dello Stato, nel giudizio di cui all’ordinanza iscritta al n. 18 reg. ord. del 2025 il rimettente ha fornito una motivazione sintetica, ma chiara, sulla rilevanza della questione, spiegando che, se fosse dichiarata l’illegittimità della norma abrogatrice, «si potrebbe giungere in ordine ai medesimi casi o ad un’assoluzione nel merito […] o ad una condanna, con conseguenti ripercussioni favorevoli o sfavorevoli sia per gli imputati sia per le persone offese costituite parti civili», mentre in caso contrario non resterebbe che la declaratoria immediata di improcedibilità per abolitio criminis. Tale motivazione deve ritenersi sufficiente, non potendo pretendersi che il giudice a quo, considerato anche lo stato del giudizio principale (pendente nelle fasi di replica della discussione finale, a dibattimento di primo grado ormai chiuso, in un momento in cui una decisione di proscioglimento nel merito andrebbe assunta al metro dell’art. 530 cod. proc. pen), sia tenuto a fornire una motivazione puntuale di tutti gli elementi dai quali dipende l’an della responsabilità penale degli imputati, anticipando in questo modo valutazioni che hanno la propria sede naturale nella sentenza che concluderà il processo (in tal senso la già richiamata sentenza n. 27 del 2025, punto 3.2 del Considerato in diritto);

– contrariamente a quanto eccepito dall’Avvocatura generale dello Stato, nel giudizio di cui all’ordinanza iscritta al n. 20 reg. ord. del 2025 il rimettente ha parimenti fornito una concisa, ma chiara, motivazione sulla rilevanza, illustrando di dover addivenire «automaticamente e immediatamente» – nell’ipotesi in cui non venisse dichiarata l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata – a una sentenza di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. per abolitio criminis;

– contrariamente a quanto eccepito dall’Avvocatura generale dello Stato, nel giudizio di cui all’ordinanza iscritta al n. 33 reg. ord. del 2025, infine, il rimettente – lungi dall’omettere ogni motivazione sulla rilevanza delle questioni – si è soffermato specificamente sui rapporti fra proscioglimento nel merito, con la più ampia formula liberatoria «perché il fatto non sussiste» o «perché il fatto non costituisce reato», e proscioglimento perché il fatto non è più previsto come reato, ritenendo quest’ultima formula pregiudiziale rispetto alle altre, con valutazione certamente plausibile, anche alla luce della già citata giurisprudenza di legittimità in materia (Cass., n. 356 del 2000).

5.– Devono a questo punto essere esaminate le eccezioni, formulate dall’Avvocatura generale dello Stato e dalle difese degli imputati nei giudizi a quibus costituitisi innanzi a questa Corte, che mirano a una pronuncia di inammissibilità di tutte le questioni prospettate, in quanto tendenti a una pronuncia in malam partem in materia penale.

La direzione in malam partem delle questioni non è messa in dubbio da alcuna delle ordinanze di rimessione (né dall’unica parte costituita ad adiuvandum): oggetto dei dubbi di legittimità costituzionale prospettati è l’art. 1, comma 1, lettera b), della legge n. 114 del 2024, che ha abrogato l’art. 323 cod. pen., in tal modo determinando l’abolitio del delitto di abuso di ufficio.

L’auspicio di tutti i rimettenti è che questa Corte dichiari l’illegittimità costituzionale della disposizione abrogatrice, con conseguente ripristino dell’incriminazione abrogata. Con un effetto, dunque, (ri)espansivo dell’area di rilevanza penale rispetto alla scelta riduttiva compiuta dal legislatore del 2024.

Premessa una ricapitolazione della costante giurisprudenza costituzionale su presupposti e limiti di ammissibilità di questioni in malam partem in materia penale (infra, 5.1.), si vaglierà separatamente l’ammissibilità delle questioni in questa sede prospettate, con riferimento anzitutto agli artt. 3 e 97 Cost. (infra, 5.2.), e poi agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. (infra, 5.3.).

5.1.– Questa Corte ha recentemente ribadito che, in materia penale, «l’adozione di pronunce con effetti in malam partem in materia penale risulta, in via generale, preclusa dal principio della riserva di legge sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost.».

Tale principio, «rimettendo al “soggetto-Parlamento” (sentenza n. 5 del 2014), che incarna la rappresentanza politica della Nazione (sentenza n. 394 del 2006), le scelte di politica criminale (con i relativi delicati bilanciamenti di diritti e interessi contrapposti), impedisce alla Corte, sia di creare nuove fattispecie o di estendere quelle esistenti a casi non previsti, sia di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti inerenti, comunque sia, alla punibilità» ([…])

Il principio ammette tuttavia varie eccezioni, riassunte dalla sentenza n. 37 del 2019 (punto 7.1. del Considerato in diritto) nei termini seguenti.

5.1.1.– In primo luogo, viene in considerazione «la necessità di evitare la creazione di “zone franche” immuni dal controllo di legittimità costituzionale, laddove il legislatore introduca, in violazione del principio di eguaglianza, norme penali di favore, che sottraggano irragionevolmente un determinato sottoinsieme di condotte alla regola della generale rilevanza penale di una più ampia classe di condotte, stabilita da una disposizione incriminatrice vigente, ovvero prevedano per detto sottoinsieme – altrettanto irragionevolmente – un trattamento sanzionatorio più favorevole (sentenza n. 394 del 2006)» (sentenza n. 37 del 2019, punto 7.1. del Considerato in diritto).

La legittimità costituzionale di siffatte “norme penali di favore” è dunque scrutinabile da questa Corte, ancorché l’eventuale accoglimento della questione determini necessariamente un ampliamento dell’area di rilevanza penale, coperta dalla norma incriminatrice il cui ambito applicativo è destinato a riespandersi in conseguenza della pronuncia di illegittimità costituzionale.

5.1.2.– La seconda categoria di eccezioni riguarda i vizi genetici del provvedimento abrogativo, quando a essere censurato è lo «scorretto esercizio del potere legislativo: da parte dei Consigli regionali, ai quali non spetta neutralizzare le scelte di criminalizzazione compiute dal legislatore nazionale (sentenza n. 46 del 2014, e ulteriori precedenti ivi citati); da parte del Governo, che abbia abrogato mediante decreto legislativo una disposizione penale, senza a ciò essere autorizzato dalla legge delega (sentenza n. 5 del 2014); ovvero anche da parte dello stesso Parlamento, che non abbia rispettato i principi stabiliti dalla Costituzione in materia di conversione dei decreti-legge (sentenza n. 32 del 2014). In tali ipotesi, qualora la disposizione dichiarata incostituzionale sia una disposizione che semplicemente abrogava una norma incriminatrice preesistente (come nel caso deciso dalla sentenza n. 5 del 2014), la dichiarazione di illegittimità costituzionale della prima non potrà che comportare il ripristino della seconda, in effetti mai (validamente) abrogata» (sentenza 37 del 2019, punto 7.1 del Considerato in diritto; in termini analoghi, più recentemente, sentenza n. 8 del 2022, punto 5 del Considerato in diritto, nonché – in precedenza – sentenza n. 46 del 2014, punto 3 del Considerato in diritto).

5.1.3.– Un terzo novero di deroghe è stato ammesso da questa Corte quando l’effetto peggiorativo della disciplina sanzionatoria in materia penale conseguente alla pronuncia di illegittimità costituzionale si configuri come «mera conseguenza indiretta della reductio ad legitimitatem di una norma processuale», derivante «dall’eliminazione di una previsione a carattere derogatorio di una disciplina generale» (sentenza n. 236 del 2018, punto 8 del Considerato in diritto).

5.1.4.– Infine, un controllo di legittimità costituzionale con potenziali effetti in malam partem può «risultare ammissibile ove si assuma la contrarietà della disposizione censurata a obblighi sovranazionali rilevanti ai sensi dell’art. 11 o dell’art. 117, primo comma, Cost.» (sentenza n. 37 del 2019, punto 7.1. del Considerato in diritto).

Un tale controllo è stato compiuto da questa Corte in relazione a una disposizione extrapenale che, sottraendo temporaneamente le ceneri di pirite dalla categoria dei rifiuti, aveva escluso, durante il periodo della sua vigenza, l’applicabilità delle sanzioni penali previste per la gestione illegale dei rifiuti.

Rilevato il contrasto, di cui il giudice rimettente si doleva, tra tale disposizione e gli obblighi stabiliti dalle direttive comunitarie in materia di rifiuti, questa Corte ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale per contrasto con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., osservando in particolare che, «se si stabilisse che il possibile effetto in malam partem della sentenza di questa Corte inibisce la verifica di conformità delle norme legislative interne rispetto alle norme comunitarie […], si toglierebbe a queste ultime ogni efficacia vincolante per il legislatore italiano, come effetto del semplice susseguirsi di norme interne diverse, che diverrebbero insindacabili a seguito della previsione, da parte del medesimo legislatore italiano, di sanzioni penali. La responsabilità penale, che la legge italiana prevede per l’inosservanza delle fattispecie penali connesse alle direttive comunitarie, per dare alle stesse maggior forza, diverrebbe paradossalmente una barriera insuperabile per l’accertamento della loro violazione» (sentenza n. 28 del 2010, punto 7 del Considerato in diritto).

Il principio della prevalenza del rispetto degli obblighi sovranazionali rispetto alla generale preclusione di pronunce che determinino un effetto in malam partem in materia penale è stato, poi, incidentalmente ribadito dalla sentenza n. 32 del 2014, la quale – nel dichiarare l’illegittimità costituzionale di modifiche alla disciplina penale in materia di stupefacenti attuate in sede di conversione di un decreto-legge in violazione dell’art. 77 Cost. – ha ritenuto che il proprio sindacato non fosse precluso dai possibili effetti in malam partem della pronuncia, osservando che la reviviscenza della norma illegittimamente abrogata fosse imposta, tra l’altro, dalla necessità di non lasciare impunite «alcune tipologie di condotte per le quali sussiste un obbligo sovranazionale di penalizzazione. Il che determinerebbe una violazione del diritto dell’Unione europea, che l’Italia è tenuta a rispettare in virtù degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.» (punto 5 del Considerato in diritto).

La stessa sentenza n. 37 del 2019 – che pure ha dichiarato inammissibili una serie di censure sollevate dal giudice rimettente nei confronti della disposizione che, nel 2016, aveva abrogato il delitto di ingiuria in relazione all’allegato contrasto di tale scelta legislativa con le norme di diritto internazionale dei diritti umani che tutelano i diritti all’onore e alla reputazione – ha fondato la propria decisione sul totale difetto di motivazione, da parte del rimettente, circa la sussistenza di uno specifico obbligo, derivante dal diritto internazionale, di assicurare la tutela del diritto in questione mediante l’adozione di sanzioni penali (punto 7.3. del Considerato in diritto). Il che ovviamente non esclude, ed anzi a contrario conferma, che – ove un obbligo di tutela penale sia effettivamente stabilito dal diritto internazionale – la sua violazione da parte del legislatore penale possa essere censurata innanzi a questa Corte.

5.1.5.– In tutte le ipotesi in cui è ammesso un sindacato in malam partem, peraltro, la giurisprudenza di questa Corte è univoca nel ritenere che, in forza del divieto di applicazione retroattiva della norma penale più sfavorevole di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., chi abbia commesso il fatto mentre era in vigore la disposizione più favorevole dichiarata costituzionalmente illegittima debba continuare a beneficiare di quest’ultima, in deroga ai normali effetti ex tunc delle sentenze di accoglimento della Corte.

L’eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale della legge penale che abroghi l’incriminazione preesistente o, comunque, preveda un trattamento penale più favorevole potrà invece dispiegare i propri effetti rispetto ai fatti posti in essere prima dell’entrata in vigore di quella legge, sotto l’impero di una legge penale più severa che, per effetto della pronuncia di questa Corte, dovesse essere ripristinata o in ogni caso veder riespandere il proprio ambito di applicazione.

In effetti, in tali ipotesi l’autore del fatto è stato posto in condizione di autodeterminarsi «sulla base del pregresso (e per lui meno favorevole) panorama normativo», sicché l’art. 25, secondo comma, Cost. non osterebbe a una sua condanna (sentenza n. 394 del 2006, punto 6.4. del Considerato in diritto). Né a tale condanna osterebbe il principio della generale retroattività della lex mitior, che la giurisprudenza di questa Corte ricava dall’art. 3 Cost. e, oggi, dall’art. 7 CEDU, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost. (ampiamente sul punto, sentenze n. 63 del 2019, punto 6.1. del Considerato in diritto, e n. 236 del 2011, punto 11 del Considerato in diritto), trattandosi di principio che «deve ritenersi suscettibile di deroghe legittime sul piano costituzionale», e che comunque «in tanto è destinato a trovare applicazione, in quanto la norma sopravvenuta sia, di per sé, costituzionalmente legittima» (sentenza n. 394 del 2006, punto 6.4. del Considerato in diritto; nello stesso senso, sentenza n. 143 del 2018, punto 6 del Considerato in diritto).

5.2.– Tutto ciò premesso, le censure formulate dai giudici rimettenti in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. sono inammissibili.

5.2.1.– Precedenti disposizioni legislative che, pur senza abolire il delitto di abuso d’ufficio, ne avevano significativamente ristretto l’ambito applicativo rispetto alla disciplina previgente sono già state censurate dinanzi a questa Corte in relazione ai medesimi parametri. Tuttavia, le relative questioni sono state dichiarate inammissibili – in particolare dalle sentenze n. 447 del 1998 e n. 8 del 2022 – proprio in relazione all’effetto in malam partem che sarebbe conseguito dal loro eventuale accoglimento.

La sentenza n. 447 del 1998 ha, in particolare, osservato che gli allora rimettenti non avevano indicato «l’esistenza di una norma costituzionale suscettibile di costituire essa stessa la base legale dell’incriminazione di tali condotte, e che possa dunque ritenersi direttamente violata dalla scelta del legislatore». Essi infatti si erano limitati, «da un lato, a lamentare una mera differenza di trattamento, che sarebbe di per sé ingiustificata, fra le condotte rese non più punibili e quelle per le quali permane invece la punibilità […]; dall’altro lato, a sostenere che i principi costituzionali di imparzialità e di buon andamento della pubblica amministrazione non sarebbero adeguatamente tutelati a causa della esclusione di taluni tipi di condotte dalla fattispecie di reato». Simili prospettazioni – si era rilevato – non possono fondare una questione di legittimità costituzionale mirante a estendere la portata di una norma incriminatrice «che si assuma troppo restrittiva nella individuazione delle condotte punite, in vista di una pronuncia di questa Corte che ne estenda la portata»: le pur indubitabili esigenze costituzionali di protezione di beni costituzionalmente rilevanti come l’imparzialità e l’andamento della pubblica amministrazione ben possono infatti «essere soddisfatte con diverse forme di precetti e di sanzioni (cfr. sentenza n. 317 del 1996)», in armonia con il principio di extrema ratio della tutela penale, cui il legislatore ricorre quando «lo ritenga necessario per l’assenza o la insufficienza o la inadeguatezza di altri mezzi di tutela».

Va d’altra parte escluso, aveva proseguito questa Corte, che possa «tradursi in una questione di legittimità costituzionale della norma incriminatrice il rilievo che altre condotte, diverse da quelle individuate come fatti di reato dal legislatore, avrebbero dovuto essere a loro volta incriminate per ragioni di parità di trattamento di situazioni omogenee, o in nome di esigenze di ragionevolezza o di armonia dell’ordinamento». Ciò in quanto la «mancanza della base legale – costituzionalmente necessaria – dell’incriminazione, cioè della scelta legislativa di considerare certe condotte come penalmente perseguibili, preclude radicalmente la possibilità di prospettare una estensione ad esse delle fattispecie incriminatrici attraverso una pronuncia di illegittimità costituzionale» (sentenza n. 447 del 1998, punto 3 del Considerato in diritto).

Come ulteriormente chiarito dalla sentenza n. 8 del 2022 in relazione a un’analoga censura ex art. 3 Cost., «ove pure, in ipotesi, la norma incriminatrice (non qualificabile come norma penale di favore) determinasse intollerabili disparità di trattamento o esiti irragionevoli, il riequilibrio potrebbe essere operato dalla Corte solo “verso il basso” (ossia in bonam partem): non già in malam partem, e in particolare tramite interventi dilatativi del perimetro di rilevanza penale (sulla inammissibilità di questioni in malam partem basate sulla denuncia di violazione dell’art. 3 Cost., ex plurimis, sentenza n. 411 del 1995; ordinanze n. 437 del 2006 e n. 580 del 2000)» (punto 7 del Considerato in diritto).

5.2.2.– Questa Corte ritiene di dover riconfermare tali principi in relazione alle odierne questioni, le quali concernono una disposizione che addirittura abroga una precedente incriminazione, e mirano alla integrale reviviscenza di quest’ultima. E ciò in riferimento all’allegata violazione tanto dell’art. 3 Cost. (infra, 5.2.3. e 5.2.4.) quanto dell’art. 97 Cost. (infra, 5.2.5.).

5.2.3.– Quanto alla censura ex art. 3 Cost., i rimettenti si dolgono in sostanza della disparità di trattamento tra le condotte che non sono più punibili in seguito all’abrogazione dell’art. 323 cod. pen., e altre condotte, in tesi anche meno offensive, che conservano oggi rilevanza penale.

Sul punto, conviene preliminarmente sottolineare che il legislatore gode di ampia discrezionalità nella delimitazione delle condotte punibili. Tale discrezionalità deve essere invero sottoposta a un controllo particolarmente attento da parte di questa Corte in relazione alle scelte di incriminazione, in quanto necessariamente limitative dei diritti fondamentali della persona (sentenza n. 46 del 2024, punto 3.1. del Considerato in diritto); ma deve essere riconosciuta in termini assai ampi rispetto alle scelte di non punire determinate condotte in precedenza incriminate, pur lesive di interessi costituzionalmente rilevanti o comunque meritevoli di tutela, sempre che il legislatore appresti altri strumenti di tutela di tali interessi, nell’ottica dell’extrema ratio della tutela penale – criterio, quest’ultimo, esso pure di rilevo costituzionale, alla luce del principio del minimo sacrificio necessario della libertà personale (sentenze n. 84 del 2024, punto 3.2. del Considerato in diritto; n. 22 del 2022, punto 5.2. del Considerato in diritto, e ivi ulteriori riferimenti).

Ma anche a prescindere da tale considerazione, la costante giurisprudenza costituzionale poc’anzi richiamata ha sempre escluso che una pronuncia di questa Corte possa intervenire a modificare il confine dei fatti penalmente rilevanti tracciato dal legislatore, con un effetto estensivo della responsabilità penale dei destinatari delle norme penali, soltanto per porre riparo a eventuali disparità di trattamento tra condotte sanzionate aventi, in ipotesi, analogo o minore disvalore. Un simile risultato, sinora, è sempre stato considerato precluso dalla riserva di legge in materia penale di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., che, invece, non si oppone alla riduzione dell’area di responsabilità penale tracciata dal legislatore a opera di questa stessa Corte, nell’ambito del proprio sindacato ex art. 3 Cost. (come accaduto, ad esempio, nella sentenza n. 508 del 2000, punto 4 del Considerato in diritto).

Da tale principio questa Corte non ravvisa ragioni cogenti per discostarsi (sulle ragioni che militano in favore del tendenziale rispetto degli orientamenti cristallizzati nei precedenti, sentenze n. 24 del 2025, punto 3 del Considerato in diritto; n. 203 del 2024, punto 4.5. del Considerato in diritto).

5.2.4.– Né la preclusione di un sindacato in malam partem in riferimento all’art. 3 Cost. potrebbe essere superata nel caso ora all’esame, come suggerisce il GIP del Tribunale di Roma nella propria ordinanza di rimessione (iscritta al n. 33 reg. ord. del 2025), inquadrando la disposizione censurata come “norma penale di favore” che sottrarrebbe, «senza alcuna ragione giustificatrice, una categoria di soggetti dall’attuazione di una norma penale generale».

La categoria delle “norme penali di favore” rispetto alle quali è ammesso un sindacato di legittimità costituzionale comprende infatti – secondo quanto di recente ribadito da questa Corte – quelle norme «che stabiliscano, per determinati soggetti o ipotesi, un trattamento penalistico più favorevole di quello che risulterebbe dall’applicazione di norme generali o comuni compresenti nell’ordinamento [corsivo aggiunto]. L’effetto in malam partem conseguente alla dichiarazione di illegittimità costituzionale di tali norme non vulnera la riserva al legislatore sulle scelte di criminalizzazione, rappresentando una conseguenza dell’automatica riespansione della norma generale o comune, dettata dallo stesso legislatore, al caso già oggetto di ingiustificata disciplina derogatoria. La qualificazione come norma penale di favore non può essere fatta, di contro, discendere, come nel caso di specie, dal raffronto tra una norma vigente e una norma anteriore, sostituita dalla prima con effetti di restringimento dell’area di rilevanza penale. In tal caso, la richiesta di sindacato in malam partem non mira a far riespandere una norma tuttora presente nell’ordinamento, ma a ripristinare la norma abrogata, espressiva di una scelta di criminalizzazione non più attuale: operazione preclusa alla Corte» (sentenza n. 8 del 2022, punto 7 del Considerato in diritto).

Nel caso ora all’esame, come giustamente rileva tra gli altri l’Avvocatura generale dello Stato, il raffronto suggerito dal rimettente (Ritenuto in fatto, punto 1.5.2.) non è, per l’appunto, tra una norma generale e una norma che sottragga talune categorie di soggetti o talune condotte al perimetro di punibilità di quella stessa norma, destinata a riespandersi una volta caducata la norma derogatoria illegittima. Il raffronto, piuttosto, è fra una norma incriminatrice vigente (e in particolare l’art. 353 cod. pen., che punisce le turbative della gara in un pubblico incanto o in una licitazione privata) e la disposizione che ha abrogato l’art. 323 cod. pen., nel cui ambito applicativo la giurisprudenza aveva ricondotto condotte parzialmente sovrapponibili a quelle che integrano le turbative d’asta.

In altre parole, come già nel caso esaminato da questa Corte nella sentenza n. 8 del 2022, la richiesta di sindacato in malam partem non mira qui a far “riespandere” una norma già presente nell’ordinamento, ma a “ripristinare” una norma abrogata. Ciò che la costante giurisprudenza di questa Corte ritiene non sia consentito, almeno in sede di sindacato ex art. 3 Cost.

5.2.5.– Quanto all’allegata violazione dell’art. 97 Cost., vari giudici rimettenti lamentano in sintesi che l’abolizione del reato di abuso d’ufficio, non accompagnata dall’introduzione di illeciti amministrativi o dal potenziamento di misure di prevenzione di condotte lesive del buon andamento e della imparzialità della pubblica amministrazione, avrebbe creato un vuoto di tutela rispetto a modalità di aggressione di tali beni, di rilievo costituzionale, in precedenza contrastate dal delitto di cui all’art. 323 cod. pen.

Consapevoli dell’orientamento che considera in via generale inammissibile un sindacato in malam partem in materia penale, taluni rimettenti invitano questa Corte a rimeditare i propri precedenti, almeno per quanto riguarda le censure formulate in riferimento all’art. 97 Cost., sottolineando come il quadro normativo attuale sia profondamente mutato rispetto a quello scrutinato in passato. Esso, ad avviso dei rimettenti, non sarebbe oggi più in grado di assicurare adeguata protezione ai principi di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione, anche a fronte della riduzione dell’ambito applicativo di altre norme incriminatrici operato nel frattempo dal legislatore. Ciò, in particolare, rispetto a molte condotte di abuso per omessa astensione, in presenza di conflitto di interessi o di situazioni di incompatibilità, nonché in quelle di violazioni di legge intenzionalmente poste in essere dal pubblico agente per danneggiare o favorire taluno; con conseguente non punibilità di condotte abusive compiute da pubblici ufficiali titolari di poteri rilevantissimi, in grado di incidere pesantemente su diritti inviolabili, costituzionalmente garantiti, a fronte della ritenuta inadeguatezza, rispetto allo strumento penale, degli altri sistemi di protezione del cittadino. Di talché la scelta di abrogare l’art. 323 cod. pen., lungi dal costituire legittimo esercizio della discrezionalità del legislatore, dovrebbe essere considerata arbitraria e, pertanto, costituzionalmente illegittima, lasciando del tutto privi di tutela i beni protetti dall’art. 97 Cost.

Censure del tutto analoghe erano state, tuttavia, formulate in relazione alle modifiche legislative riduttive dell’ambito di applicazione del delitto di cui all’art. 323 cod. pen. Come poc’anzi rammentato, tanto la sentenza n. 447 del 1998 quanto la sentenza n. 8 del 2022 hanno ritenuto in radice inammissibili tali censure, sulla base dell’argomento che le esigenze costituzionali di tutela sottese all’art. 97 Cost. non richiedono necessariamente l’attivazione della tutela penale, ben potendo essere soddisfatte attraverso una pluralità di strumenti alternativi preventivi e sanzionatori diversi dal diritto penale: strumenti che debbono, anzi, preferirsi – in omaggio al principio di extrema ratio – sempre che siano in grado di assicurare un’efficace tutela ai beni in parola.

In ogni caso, laddove non sussistano puntuali obblighi di incriminazione discendenti dalla Costituzione o da altre fonti vincolanti per il legislatore, non può che spettare a quest’ultimo la decisione circa l’an dell’eventuale tutela penale da assicurare agli interessi che la stessa Costituzione impone in via generale di proteggere, senza però specificare con quali strumenti tale protezione debba essere assicurata. Un eventuale sindacato di questa Corte sulle scelte compiute in proposito dal legislatore finirebbe, infatti, per non trovare alcuna base di legittimazione né nel testo, né nella stessa ratio, dell’art. 97 Cost.

La medesima considerazione va tenuta ferma anche a fronte dell’argomento, proposto dal Tribunale di Teramo nell’ordinanza iscritta al n. 4 reg. ord. del 2025, secondo cui la legittimazione di questa Corte a un sindacato in malam partem in riferimento all’art. 97 Cost. deriverebbe dal principio, enunciato dall’art. 28 Cost., per cui «[i] funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti». Tale previsione costituzionale sancisce, infatti, il principio della diretta responsabilità del pubblico dipendente in caso di violazione dei diritti stabiliti dalle leggi (anche penali) vigenti; ma tale principio non può essere dilatato in via interpretativa sino a fondare un obbligo costituzionale, gravante sul legislatore, di prevedere una sanzione penale per ogni condotta del pubblico dipendente che abbia abusato del proprio potere a danno di un privato.

Tutto ciò induce questa Corte, anche in questo caso, a confermare il proprio costante orientamento preclusivo all’esame nel merito di tutte le doglianze svolte dai rimettenti con riferimento specifico all’art. 97 Cost.

5.3.– Considerazioni in parte differenti si impongono in relazione all’ammissibilità delle censure formulate dai rimettenti in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione a un nutrito gruppo di obblighi discendenti dalla Convenzione di Mérida.

In proposito, conviene subito rilevare la fondatezza dell’eccezione dell’Avvocatura dello Stato relativa all’inammissibilità delle censure formulate da numerosi rimettenti in riferimento all’art. 11 Cost. Nessuno di essi, infatti, ha chiarito per quale ragione la violazione di obblighi di diritto internazionale pattizio darebbe luogo a una violazione – oltre che dell’art. 117, primo comma, Cost. – anche dell’art. 11 Cost., che la costante giurisprudenza di questa Corte considera coinvolto allorché vengano in considerazione obblighi derivanti dal diritto dell’Unione europea, rispetto ai quali operano le «limitazioni di sovranità» ivi menzionate.

Tale lacuna motivazionale delle ordinanze di rimessione costituisce causa di inammissibilità delle questioni dalle stesse prospettate (ex plurimis, ordinanza n. 159 del 2021; sentenza n. 37 del 2019, punti 5 e 6 del Considerato in diritto; ordinanze n. 12 del 2017 e n. 29 del 2015), che non può ritenersi sanata dalle considerazioni estesamente svolte nella memoria illustrativa e nella discussione orale in udienza dalla difesa della parte civile del procedimento davanti alla Corte di cassazione, costituita ad adiuvandum, miranti a ricondurre gli obblighi sanciti dalla Convenzione di Mérida all’ambito applicativo del diritto dell’Unione, in forza dell’approvazione della Convenzione stessa da parte dell’allora Comunità europea.

Contrariamente a quanto eccepito dall’Avvocatura generale dello Stato e da numerose parti costituite, devono invece ritenersi ammissibili le doglianze formulate da tutti i rimettenti in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. in relazione alle norme della Convenzione di Mérida.

Tutte queste questioni prospettano l’esistenza di obblighi internazionali derivanti dalla Convenzione, che sarebbero stati violati dalla scelta del legislatore di abrogare, mediante la disposizione censurata, l’incriminazione preesistente. Tanto basta, per le ragioni di seguito chiarite, ad assicurare l’ammissibilità delle questioni, restando poi riservata all’esame del merito ogni valutazione circa l’effettiva sussistenza di tali obblighi sul piano dell’interpretazione del diritto internazionale, e in particolare delle norme della Convenzione specificamente invocate dai rimettenti.

5.3.1.– Come si è poc’anzi rammentato (supra, 5.1.4.), la giurisprudenza di questa Corte considera ammissibili questioni in malam partem in materia penale allorché venga in considerazione il rispetto di «obblighi sovranazionali rilevanti ai sensi dell’art. 11 o dell’art. 117, primo comma, Cost.» (così, in particolare, la sentenza n. 37 del 2019, punto 7.1. del Considerato in diritto).

L’Avvocatura generale dello Stato e le difese di varie parti costituite ad opponendum sostengono che tale deroga sarebbe unicamente riferibile agli obblighi discendenti dal diritto dell’Unione europea e non, invece, agli obblighi internazionali di natura pattizia, come quelli statuiti dalla Convenzione di Mérida, rispetto ai quali non vi sarebbero precedenti specifici di sindacato costituzionale in malam partem in materia penale.

L’eccezione è infondata, perché: (a) il dato testuale dell’art. 117, primo comma, Cost. equipara i vincoli derivanti dal diritto dell’Unione e quelli statuiti dal diritto internazionale pattizio, dalla violazione di tali obblighi da parte della legge statale o regionale discendendo in entrambi i casi l’illegittimità costituzionale della legge medesima (infra, 5.3.2.); (b) questo meccanismo vale anche per le leggi penali, alla sua operatività non ostando – in particolare – il principio di legalità dei reati e delle pene di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. (infra, 5.3.3.); (c) il rispetto della ratio anche “democratica” del principio di legalità in materia penale è comunque assicurato dal coinvolgimento del Parlamento nel procedimento di ratifica delle convenzioni internazionali (infra, 5.3.4.).

5.3.2.– L’art. 117, primo comma, Cost., sancisce a carico del legislatore (statale e regionale) il generale obbligo di rispettare i «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario» e gli «obblighi internazionali».

Le due categorie di obblighi sono equiparate quanto agli effetti vincolanti per il legislatore statale e regionale, impregiudicata restando soltanto la diversa estensione dei limiti di tali vincoli, così come precisati dalla giurisprudenza di questa Corte a partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007: il nucleo dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona umana, rispetto ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario (oggi, dell’Unione europea); l’intero corpus delle norme di rango costituzionale, rispetto agli obblighi di diritto internazionale pattizio.

L’effetto della violazione degli obblighi unionali e internazionali da parte della legge, statale o regionale che sia, è però identico, e consiste nella illegittimità costituzionale della stessa, da dichiararsi da parte di questa Corte – salva naturalmente la possibilità per il giudice comune, rispetto al solo diritto dell’Unione europea dotato di effetto diretto, di disapplicare la legge nazionale o regionale che risulti con esso incompatibile (sul tema, da ultime, anche per ulteriori riferimenti alla giurisprudenza recente in materia, sentenza n. 31 del 2025, punto 4.1. del Considerato in diritto; ordinanza n. 21 del 2025, punto 6 del Considerato in diritto; sentenza n. 7 del 2025, punti 2.2.2. e 2.2.3. del Considerato in diritto; sentenza n. 1 del 2025, punto 3 del Considerato in diritto; sentenza n. 181 del 2024, punto 6.5. del Considerato in diritto).

5.3.3.– Questi principi valgono anche per le leggi in materia penale.

Ciò è incontestato per quanto concerne la possibilità per questa Corte di dichiarare l’illegittimità costituzionale di disposizioni penali in contrasto con gli obblighi internazionali, con effetto riduttivo dell’area di rilevanza penale (ad esempio, sentenze n. 150 del 2021 e n. 25 del 2019, dichiarative della parziale illegittimità costituzionale di leggi penali per il loro esclusivo contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost. in relazione a norme della CEDU). Ma non vi è ragione per ritenere che i medesimi principi non si applichino allorché questa Corte sia chiamata a censurare il contrasto con gli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione o dal diritto internazionale pattizio (anche diverso dalla CEDU: sentenze n. 120 del 2018, punto 10.1. del Considerato in diritto, e n. 194 del 2018, punto 14 del Considerato in diritto), con effetti potenzialmente espansivi della punibilità rispetto ai limiti fissati dal legislatore.

Come già rammentato, la sentenza n. 28 del 2010 concerneva una situazione in cui il legislatore italiano aveva escluso una particolare categoria di rifiuti – le ceneri di pirite – dalla disciplina generale in materia, e segnatamente dagli obblighi penalmente sanzionati in materia di rifiuti, in contrasto con le pertinenti direttive comunitarie. Questa Corte, ritenendo fondate le censure allora sollevate in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., aveva dichiarato costituzionalmente illegittima la disposizione derogatoria nazionale, provocando così la riespansione della disciplina penale generale in materia di rifiuti: con un effetto, dunque, espansivo della punibilità (e dunque, nella terminologia consolidata, in malam partem).

Lo stesso meccanismo ben può operare anche nei confronti degli obblighi derivanti dal diritto internazionale pattizio, equiparati dallo stesso art. 117, primo comma, Cost. ai vincoli derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea.

All’operare di tale meccanismo – nei confronti tanto degli obblighi unionali, quanto di quelli di natura internazionale pattizia – non osta, segnatamente, il principio di legalità in materia penale di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., sul quale hanno insistito varie parti costituite, anche nella discussione orale in udienza.

Non è dubbio, invero, che il principio di legalità in materia penale costituisca un principio fondamentale dell’ordinamento costituzionale, idoneo a operare quale “controlimite” rispetto alle stesse limitazioni di sovranità acconsentite dallo Stato italiano ai sensi dell’art. 11 Cost. Proprio muovendo da tale principio questa Corte ha ritenuto che non fosse compatibile con la stessa identità costituzionale italiana una soluzione interpretativa che facesse discendere direttamente da una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea un effetto di aggravamento della responsabilità penale di un individuo, sub specie di allungamento retroattivo dei termini di prescrizione di un reato, o addirittura di riapertura di un termine di prescrizione già spirato (ordinanza n. 24 del 2017, punti 2 e 5 del Ritenuto in fatto e considerato in diritto; sentenza n. 115 del 2018, punto 10 del Considerato in diritto).

Nessun contrasto con il principio di legalità in materia penale si verifica però allorché una norma di diritto dell’Unione o – per quanto qui più direttamente rileva – una norma di diritto internazionale pattizio si limiti a imporre un obbligo di criminalizzazione, cioè a vincolare il legislatore nazionale a introdurre o mantenere nel proprio ordinamento una legge penale che incrimini una data tipologia di condotta.

In tale ipotesi, infatti, la responsabilità penale di un individuo non discenderà direttamente dall’atto di diritto dell’Unione o dall’obbligo internazionale. La responsabilità penale individuale si fonderà, invece, unicamente sulla legge nazionale attuativa dell’obbligo internazionale, una volta che questa sia stata effettivamente introdotta nell’ordinamento dal legislatore nazionale.

Laddove poi – come auspicato dagli odierni rimettenti – questa Corte dovesse dichiarare l’illegittimità costituzionale di una legge abrogativa di una legge penale rispettosa di un obbligo unionale o internazionale di criminalizzazione, ritenendo che la sua abrogazione contravvenga a tale obbligo, l’effetto della sentenza sarebbe semplicemente quello di ripristinare la vigenza di una legge nazionale abrogata illegittimamente, perché in violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.: esattamente come accaduto più volte in passato, allorché le sentenze di questa Corte hanno ripristinato la vigenza di leggi penali abrogate dal legislatore in violazione delle norme costituzionali in materia di formazione delle leggi (sentenze n. 32 e n. 5 del 2014). Proprio come in quei casi, dopo la sentenza della Corte la responsabilità penale degli individui continuerebbe a fondarsi sull’originaria disciplina stabilita dal legislatore, e dunque a essere basata sulla legge statale vigente al momento del fatto; nel rispetto, peraltro, del principio di garanzia che esclude l’applicabilità della legge ripristinata ai fatti commessi durante il periodo di vigenza della legge abrogativa poi dichiarata incostituzionale dalla Corte (sul punto, supra, 5.1.5.). In piena consonanza, dunque, tanto con la riserva di legge, quanto con il divieto di applicazione retroattiva della legge penale, entrambi corollari del principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost.

5.3.4.– Nemmeno può ritenersi, come sostenuto da taluna delle parti costituite, che la ratio anche “democratica” della riserva di legge in materia penale – che vuole affidato al Parlamento, quale istituzione rappresentativa dell’intera comunità nazionale, il compito di valutare se apprestare una sanzione penale per proteggere determinati beni giuridici – venga in effetti svuotata, laddove si riconosca alle fonti unionali e internazionali una legittimazione a dettare indicazioni vincolanti per il legislatore nazionale in materia penale.

Gli obblighi di criminalizzazione stabiliti dal diritto internazionale pattizio sono infatti liberamente accettati dallo stesso Parlamento per il tramite della legge che autorizza la ratifica dei singoli trattati, la quale può altresì indicare al Governo di apporre riserve e dichiarazioni, nei limiti consentiti dal diritto internazionale, in ordine a loro specifiche previsioni all’atto della ratifica. Si deve dunque ritenere che, autorizzando tout court la ratifica, il Parlamento abbia consapevolmente condiviso le scelte compiute dallo strumento pattizio negoziato dal Governo con gli altri Stati firmatari (anche) in merito all’an e alle specifiche condizioni della criminalizzazione, o non criminalizzazione, di determinate condotte; e abbia così accettato di assumere, anche rispetto a tali scelte, impegni giuridicamente vincolanti nei confronti delle altre Parti contraenti, contestualmente assoggettando la propria successiva produzione normativa al rispetto degli obblighi medesimi ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost.

Né potrebbe predicarsi, come ancora paventato da talune difese delle parti costituite, una sorta di “tirannia” degli obblighi internazionali sul principio di legalità penale, o di “espropriazione” della riserva di legge, sulla base dell’argomento che – una volta assunto un obbligo internazionale di criminalizzazione – non sarebbe più concesso al legislatore modificare le sue scelte di politica criminale. Vero è, infatti, che dopo la ratifica di un trattato il legislatore italiano è vincolato agli obblighi dallo stesso derivanti ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost., anche nella materia penale; ma ciò non preclude allo Stato di discostarsi in seguito da tali obblighi con le modalità previste dallo stesso diritto internazionale, e in particolare promuovendo un emendamento al trattato, ovvero denunciandolo. Evento che si può verificare anche grazie all’intervento del Parlamento, nell’esercizio della sua essenziale funzione di indirizzo e controllo.

Rispetto in particolare alla Convenzione di Mérida, che qui viene in considerazione, con la legge n. 116 del 2009 il Parlamento ne ha autorizzato la ratifica senza formulare alcuna riserva, ordinandone contestualmente la piena e intera esecuzione: e ciò in esito a un dibattito parlamentare, sfociato in una legge di autorizzazione alla ratifica e di esecuzione, che ha modificato in più punti il quadro normativo nazionale proprio per conformarsi agli obblighi assunti con la Convenzione.

Tali obblighi debbono, pertanto, essere oggi considerati vincolanti per il legislatore italiano ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost., nella misura – naturalmente – in cui risultino compatibili con l’insieme dei superiori principi costituzionali.

6.– In conclusione, devono essere dichiarate inammissibili tutte le censure formulate dai rimettenti in riferimento agli artt. 3,11 e 97 Cost.

Devono, invece, essere ritenute ammissibili, e vanno esaminate nel merito, tutte le censure formulate dai rimettenti in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione alle previsioni della Convenzione di Mérida da essi evocate.

7.– Tali censure non sono fondate.

7.1.– I rimettenti, nel loro complesso, riconoscono che l’unica disposizione della Convenzione specificamente dedicata all’abuso d’ufficio («Abuse of functions», nella versione ufficiale inglese) è l’art. 19; e giustamente osservano che tale disposizione si limita a statuire che gli Stati parte hanno l’obbligo di considerare («shall consider adopting») la criminalizzazione di condotte in larga misura corrispondenti a quelle coperte dall’abrogata disposizione di cui all’art. 323 cod. pen.

A differenza dunque di altre disposizioni della Convenzione che impongono agli Stati parte un preciso obbligo di criminalizzazione (in particolare, gli artt. 15 e 16 in materia di corruzione, l’art. 17 in materia di peculato, l’art. 23 in materia di riciclaggio, l’art. 25 in materia di intralcio alla giustizia), l’art. 19 configura semplicemente – nel linguaggio della Legislative guide alla Convenzione, elaborata dall’United Nations Office on Drugs and Crime (UNODC) – una «non-mandatory offence»: e cioè una condotta la cui possibile criminalizzazione gli Stati hanno il mero obbligo (procedurale) di «considerare».

Secondo le ordinanze di rimessione iscritte ai numeri 201 e 233 reg. ord. del 2024, tuttavia, tale obbligo di «considerare» alluderebbe soltanto all’obbligo di verificare che l’introduzione del reato in questione sia compatibile con il sistema giuridico nazionale; di talché, in caso di riscontrata compatibilità, il legislatore dovrebbe senz’altro ritenersi obbligato a introdurre il reato nel proprio ordinamento, o se del caso a mantenerlo.

A parere invece delle altre undici ordinanze di rimessione provenienti dai giudici di merito, l’obbligo statuito dall’art. 19 dovrebbe leggersi in combinato disposto con altre disposizioni della Convenzione e con la ratio complessiva di quest’ultima, sì da comportare – se non l’obbligo di introdurre ex novo il reato, per gli ordinamenti che non lo contemplavano al momento della ratifica della Convenzione – quanto meno un obbligo di “non regressione” nella tutela penale, e dunque un divieto di abrogare la corrispondente incriminazione, ove già esistente.

Le ordinanze di rimessione fanno leva, in proposito:

– sull’art. 1, che include nelle finalità della convenzione «la promozione e il rafforzamento delle misure volte a prevenire e combattere la corruzione in modo più efficace», tra le quali si collocherebbero la criminalizzazione di condotte preparatorie o in vario modo collegate alla corruzione vera e propria, come quelle di abuso delle funzioni pubbliche;

– sull’art. 5, che impegna gli Stati parte a elaborare, applicare e mantenere «politiche di prevenzione contro la corruzione efficaci e coordinate che […] rispecchino i principi dello stato di diritto, di buona gestione degli affari pubblici e dei beni pubblici, d’integrità, di trasparenza e di responsabilità»;

– sull’art. 65, paragrafo 1, da cui discende il generale obbligo degli Stati di adottare tutte le misure necessarie, incluse quelle di natura legislativa, per assicurare l’esecuzione degli obblighi convenzionali;

– sull’art. 65, paragrafo 2, da cui si desume il principio secondo cui gli Stati possono adottare misure più severe di quelle previste dalla Convenzione; nonché, soprattutto,

– sull’art. 7, paragrafo 4, che stabilisce l’obbligo a carico degli Stati di adoperarsi, «conformemente ai principi fondamentali del proprio diritto interno, al fine di adottare, mantenere e rafforzare i sistemi che favoriscono la trasparenza e prevengono i conflitti d’interesse».

Abolendo il delitto di abuso d’ufficio – questa la conclusione dei rimettenti – lo Stato italiano avrebbe dunque violato i propri obblighi convenzionali, segnatamente quello – sancito dall’art. 7, paragrafo 4, da ultimo citato – di «mantenere e rafforzare» i sistemi esistenti finalizzati a promuovere la trasparenza nella pubblica amministrazione e a prevenire i conflitti di interessi.

7.2.– Dal canto suo, la Corte di cassazione assume – nella propria ordinanza di rimessione – che dall’art. 7, paragrafo 4, della Convenzione si evincerebbe non tanto un assoluto divieto di abolire l’incriminazione dell’abuso d’ufficio a carico di quegli Stati che, come l’Italia, già contemplassero questo reato nel proprio sistema penale; quanto, piuttosto, un obbligo di mantenere i complessivi standard di efficace attuazione della UNCAC, in particolare dei sistemi di prevenzione della corruzione. Sicché la censurata abolizione del reato si sarebbe posta in contrasto con tale obbligo in quanto non accompagnata, in concreto, da misure compensative in grado di assicurare un livello di tutela almeno equivalente a quello garantito, sino a quel momento, dall’incriminazione in parola; ciò che avrebbe realizzato, pertanto, un regresso netto nella efficace attuazione degli obblighi convenzionali da parte dello Stato italiano.

7.3.– Questa Corte, tuttavia, non è persuasa da alcuno di tali argomenti.

7.3.1.– Anzitutto, nessun elemento evincibile dal testo o dalla ratio dell’art. 19 della Convenzione autorizza a concludere che lo Stato sarebbe obbligato a introdurre (o a mantenere) nel proprio ordinamento l’incriminazione delle condotte di abuso di ufficio, alla sola condizione che tale incriminazione risulti compatibile con i principi generali dell’ordinamento nazionale.

L’inequivoco testo della disposizione enuncia un mero obbligo di “considerare” tale introduzione: e dunque non solo di assicurarsi della compatibilità dell’incriminazione con i principi generali dell’ordinamento penale nazionale (il che non è in discussione rispetto all’abuso d’ufficio, a differenza di quanto accade per altre più problematiche fattispecie penali, come quella di arricchimento illecito di cui al successivo art. 20); ma anche di valutare attentamente i pro e i contra di tale opzione.

In effetti, ogni scelta di criminalizzazione presenta ovvi vantaggi, in termini di più energica tutela degli interessi lesi dalla condotta che si voglia sottoporre a sanzione penale, ma anche una nutrita serie di svantaggi, quanto alla sua sicura incidenza sui diritti fondamentali dei destinatari del precetto, nonché ai suoi effetti collaterali a danno di altri interessi collettivi – come il possibile chilling effect rispetto a condotte lecite e anzi utili dal punto di vista sociale (in particolare, con riferimento ai rischi di “burocrazia difensiva” connessi all’incriminazione dell’abuso d’ufficio, sentenza n. 8 del 2022, punto 2.4. del Considerato in diritto).

La Convenzione ha scelto di affidare la valutazione comparativa dei benefici attesi e delle conseguenze negative dell’incriminazione delle condotte di abuso d’ufficio alla prudente discrezionalità del legislatore di ogni Stato; e ciò anche a fronte della varietà di soluzioni sul punto presenti negli ordinamenti penali degli Stati firmatari. Circostanza, quest’ultima, che – come risulta dai lavori preparatori della Convenzione – ha indotto gli Stati firmatari a trasformare le originarie proposte di introdurre un vero e proprio obbligo di incriminazione di questa specifica condotta, formulate da Messico, Colombia e Turchia, in un mero obbligo di “considerare” tale soluzione, recependo così una proposta formulata dalla Croazia in coordinamento con il Canada e con la stessa delegazione italiana (UNODC, Travaux préparatoires of the negotiations for the elaboration of the United Nations Convention Against Corruption, United Nations Publications, 2010, p. 191-193).

A questo punto, ciò che unicamente rileva, dal punto di vista della Convenzione, è che lo Stato adempia l’obbligazione (concepita come di mezzi, non già di risultato) di valutare attentamente la possibilità di dotarsi dell’incriminazione in parola, a fronte della complessità dei fattori in gioco e della rilevanza di tutti gli interessi coinvolti.

D’altra parte, non vi è alcuna ragione per ritenere che, una volta compiuta – prima o dopo la ratifica della Convenzione – la scelta di incriminare le condotte di abuso d’ufficio, lo stesso art. 19 precluda allo Stato di ritornare sui propri passi, e di (ri)considerare i pro e i contra dell’incriminazione, eventualmente pervenendo alla conclusione di abolirla.

Ciò è per l’appunto accaduto nel nostro Paese, in occasione dell’approvazione della disposizione qui censurata, la cui ratio è esplicitata nei lavori preparatori, in particolare nella relazione illustrativa al disegno di legge A. S. n. 808 – XIX Legislatura, di iniziativa governativa. In tale relazione si sottolinea l’opportunità di porre rimedio al persistente «squilibrio tra le iscrizioni della notizia di reato e decisioni di merito» relative alla figura criminosa in questione, rimasto sostanzialmente invariato anche dopo le modifiche legislative volte a realizzare una più rigorosa tipizzazione della fattispecie; si valorizza l’esistenza di un articolato sistema nazionale di repressione e prevenzione della «malpractice nel settore pubblico», composto da una vasta gamma di incriminazioni e un ventaglio di strumenti in funzione preventiva, tra i quali i piani anticorruzione e la vigilanza dell’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC); e si esprime l’intenzione di recuperare «risorse al sistema, non impegnando inutilmente l’apparato giudiziario e sollevando l’azione amministrativa ed il singolo indagato dalle ricadute negative derivanti da iscrizioni per fatti che risultano non rientrare in alcuna categoria di illecito penale». Valutazioni, tutte, attraverso le quali si deve ritenere adempiuto quell’obbligo di “considerazione” che unicamente discende dall’art. 19 della Convenzione, e rispetto al cui esito la stessa disposizione convenzionale si rimette alla discrezionalità del legislatore nazionale.

7.3.2.– Proprio nella consapevolezza dell’impossibilità di derivare un divieto di abrogazione della previgente disposizione incriminatrice dall’art. 19, la maggior parte delle ordinanze di rimessione – ivi compresa quella della Corte di cassazione – fondano le rispettive argomentazioni sul combinato disposto dell’art. 19 con altre previsioni della Convenzione, in particolare attribuendo un rilievo centrale al suo art. 7, paragrafo 4.

Tuttavia, quest’ultima disposizione deve essere letta nelle sue connessioni sistematiche con i paragrafi precedenti. L’art. 7, paragrafo 1, obbliga gli Stati a adoperarsi («endeavour») per adottare, mantenere e rafforzare sistemi di assunzione e gestione delle risorse umane nel pubblico impiego improntati a principi di efficienza, trasparenza e a criteri oggettivi, quali il merito, l’eguaglianza e le attitudini (paragrafo 1, lettera a). Tali sistemi devono includere procedure adeguate di selezione e formazione per le persone particolarmente esposte al rischio di corruzione e, se opportuno, la rotazione nelle rispettive posizioni (lettera b); devono promuovere la retribuzione adeguata degli agenti pubblici non elettivi (lettera c) e devono organizzare programmi di formazione che li rendano capaci di svolgere la funzione pubblica in modo corretto, onorevole e appropriato (lettera d). I successivi paragrafi 2 e 3, pur con formulazione meno stringente («shall also consider adopting», «shall also consider taking»), obbligano gli Stati a “considerare” l’adozione di criteri per le candidature agli uffici elettivi e per la trasparenza del finanziamento dei partiti politici. Il paragrafo 4, infine, dispone: «Each State Party shall, in accordance with the fundamental principles of its domestic law, endeavour to adopt, maintain and strengthen systems that promote transparency and prevent conflicts of interest».

Dunque, nel suo complesso l’art. 7 si occupa delle misure volte a prevenire la corruzione tramite l’applicazione di principi di efficienza, competenza e trasparenza nel settore pubblico, a tal fine imponendo agli Stati, attraverso il paragrafo 4, l’obbligo di adoperarsi per «adottare, mantenere e rafforzare i sistemi che favoriscono la trasparenza e prevengono i conflitti di interesse».

Che da tale disposizione, e in particolare dal paragrafo 4, sia desumibile implicitamente anche un “divieto di regressione” (o obbligo di “stand still”) nella repressione dell’abuso d’ufficio – divieto che si estrinsecherebbe in un divieto assoluto di abrogare la relativa incriminazione ove prevista nell’ordinamento dello Stato firmatario al momento della ratifica della Convenzione, o almeno, come sostenuto nell’ordinanza di rimessione della Corte di cassazione, in un divieto di abrogare l’incriminazione in assenza di misure compensatorie – è però smentito dai seguenti argomenti:

– l’intero art. 7 è inserito nel Capitolo II della Convenzione, in cui sono disciplinati gli obblighi relativi ai sistemi di «prevenzione» della corruzione, mentre gli obblighi repressivi di natura penale sono disciplinati dal successivo Capitolo III (in cui è invece collocato il già esaminato art. 19);

– in ogni caso, l’art. 7, paragrafo 4, non impone alcuna specifica misura allo Stato contraente, lasciando allo stesso ampia discrezionalità rispetto all’obiettivo di introdurre, mantenere e rinforzare i sistemi di prevenzione della corruzione;

– i «sistemi» cui si riferisce l’art. 7, paragrafo 4, peraltro, sono unicamente quelli finalizzati alla promozione della «trasparenza» e alla prevenzione dei «conflitti di interessi». Il primo obiettivo era del tutto estraneo alla sfera di tutela dell’abrogata incriminazione dell’abuso d’ufficio; mentre il secondo interferiva solo tangenzialmente – come possibile modalità della condotta – con tale incriminazione, incentrata primariamente sul risultato di danno al privato o di ingiusto vantaggio per il pubblico agente.

In un simile contesto, è assai arduo – come rilevato in dottrina, nonché da varie difese degli imputati – ipotizzare che dagli obblighi di natura puramente preventiva di cui all’art. 7, paragrafo 4, possa derivarsi in via interpretativa il divieto di abrogare una disposizione incriminatrice, la cui introduzione la stessa Convenzione rinuncia espressamente, nella naturale sedes materiae dedicata agli obblighi di natura penale, a indicare come doverosa per gli Stati parte.

Né risulta persuasiva l’ipotesi ermeneutica formulata dalla Corte di cassazione, secondo cui, in forza dell’art. 7, paragrafo 4, lo Stato che decidesse di abrogare l’incriminazione già esistente dell’abuso d’ufficio sarebbe tenuto a adottare misure compensatorie per mantenere il preesistente livello di promozione della trasparenza e della prevenzione dei conflitti di interessi. Infatti, anche ipotizzando che l’abrogato art. 323 cod. pen. potesse interpretarsi quale strumento funzionale a prevenire i conflitti di interesse nella pubblica amministrazione, dalla disposizione convenzionale in esame non pare evincibile alcun obbligo di risultato, il cui conseguimento possa essere valutato da questa Corte in sede di giudizio di legittimità costituzionale. Il contenuto precettivo di tale disposizione si esaurisce piuttosto – come evidenziato dal suo dato testuale, imperniato sul verbo «shall endeavour» – nell’obbligare lo Stato ad “adoperarsi” per raggiungere gli obiettivi indicati: senza imporgli però di adottare alcuno specifico mezzo, e in ogni caso senza fissare alcun preciso standard di efficacia dei meccanismi preventivi.

7.3.3.– Né, infine, uno scrutinio di questa Corte sulla complessiva efficacia del sistema di prevenzione e di repressione delle condotte illegittime dei pubblici agenti potrebbe legittimarsi sulla base delle altre disposizioni della Convenzione evocate da taluni rimettenti, sulle quali nemmeno può fondarsi l’ipotetico divieto di regressione, o obbligo di “stand still”, che gli stessi rimettenti ipotizzano.

Quanto all’art. 1, si tratta di disposizione meramente programmatica che enuncia le finalità della Convenzione: il cui concreto contenuto precettivo per gli Stati parte deriva però esclusivamente dalle successive disposizioni, tra le quali l’art. 19 più sopra esaminato.

Quanto all’art. 5, rubricato «Politiche e pratiche di prevenzione della corruzione» e anch’esso collocato, come l’art. 7, nel Capitolo II dedicato alle «Misure preventive», si tratta di previsione che si limita a descrivere ad ampio spettro gli obblighi degli Stati di adoperarsi allo scopo di prevenire le pratiche corruttive, senza però direttamente prescrivere alcuna specifica misura, tanto meno nella materia penale, regolata dal successivo Capitolo III.

Quanto, infine, all’art. 65, collocato tra le «Disposizioni finali», esso prevede al paragrafo 1 l’obbligo per ciascuno Stato parte di adottare le misure necessarie «per assicurare l’esecuzione dei suoi obblighi ai sensi della presente Convenzione», in quanto definiti però dalle disposizioni che precedono – tra cui, naturalmente, l’art. 19, nei limiti da esso fissati –, senza imporre esso stesso nuovi obblighi. Al paragrafo 2 si chiarisce poi che «[c]iascuno Stato Parte può adottare misure più restrittive o severe di quelle previste dalla presente Convenzione»: senza che con ciò si introduca alcun obbligo aggiuntivo per gli Stati, e soprattutto senza che si stabilisca – in difetto di qualsiasi appiglio testuale che possa avvalorare una tale conclusione, che limiterebbe incisivamente la discrezionalità del Parlamento nello svolgimento della propria politica criminale – alcun divieto di regresso rispetto alle misure di tutela penale che gli Stati avessero scelto autonomamente di adottare. Lasciando così sempre aperta, anche in tale ipotesi, la possibilità per lo Stato di liberamente riconsiderare le misure di tutela già adottate (per la medesima conclusione, nell’ambito del diritto internazionale dei diritti umani, Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 7 dicembre 2021, Filat contro Moldavia, paragrafo 33, ove si nega l’esistenza di un obbligo di non regressione rispetto a scelte di tutela più avanzata dei diritti rispetto agli standard convenzionali, che pure lo Stato parte è certamente libero di compiere ai sensi dell’art. 53 CEDU).

7.3.4.– Non occorre, infine, esaminare nel dettaglio le ulteriori disposizioni della Convenzione evocate dalla parte civile del giudizio iscritto al n. 50 reg. ord. del 2025 costituitasi innanzi a questa Corte, alla luce del costante orientamento secondo cui intervenienti e parti del giudizio di legittimità costituzionale non possono ampliare il thema decidendum cristallizzato nell’ordinanza di rimessione (ex plurimis, sentenza n. 198 del 2022, punto 5.1 del Considerato in diritto, e ivi ulteriori riferimenti).

8.– In definitiva, questa Corte ritiene di non potere, sulla base dei parametri evocati, sindacare la complessiva efficacia del sistema di prevenzione e contrasto alle condotte abusive dei pubblici agenti risultante dall’abolizione del delitto di abuso d’ufficio, sovrapponendo la propria valutazione a quella del legislatore.

Se gli indubbi vuoti di tutela penale che derivano dall’abolizione del reato – emblematicamente illustrati dalle vicende oggetto dei quattordici giudizi a quibus – possano ritenersi o meno compensati dai benefici che il legislatore si è ripromesso di ottenere, secondo quanto puntualmente illustrato nei lavori preparatori della riforma, è questione che investe esclusivamente la responsabilità politica del legislatore, non giustiziabile innanzi a questa Corte al metro dei parametri costituzionali e internazionali esaminati.

9.– Un’ultima precisazione appare opportuna.

Come si è chiarito, né il tenore letterale delle disposizioni della Convenzione di Mérida evocate dai rimettenti, né la loro ratio e collocazione sistematica, né – ancora – i relativi travaux préparatoires supportano in alcun modo la tesi secondo cui dalla Convenzione stessa deriverebbe un obbligo di introdurre il reato di abuso di ufficio o un divieto di abrogare la disposizione incriminatrice eventualmente già prevista nell’ordinamento interno. L’inesistenza, a giudizio di questa Corte, di un dubbio interpretativo in proposito dispensa dal valutare la possibilità, sulla quale ha insistito la parte civile costituita ad adiuvandum, di formulare un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea avente a oggetto l’interpretazione di dette disposizioni, che peraltro vincolano l’Unione nei soli limiti delle sue competenze: rinvio pregiudiziale che, secondo la stessa parte civile, sarebbe possibile in conseguenza dell’avvenuta approvazione della Convenzione da parte dell’allora Comunità europea, in forza della decisione del Consiglio del 25 settembre 2008 (2008/801/CE).

 

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