Corte Costituzionale, 31 luglio 2025, n. 142
PRINCIPIO DI DIRITTO
La Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibili le censure mosse dal Tribunale di Milano rispetto all’art. 4 del codice civile del 1865 e rispetto all’art. 1 della legge n. 555 del 1912.
Parimenti, sono inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera a), della legge n. 91 del 1992, sollevate in riferimento agli artt. 1, secondo comma, e 3 Cost., sotto il profilo della irragionevolezza e non proporzionalità, nonché in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli obblighi internazionali e ai vincoli derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea, questi ultimi con riguardo all’art. 9 TUE e all’art. 20 TFUE.
Infine, sono non fondate le questioni di legittimità costituzionale della medesima norma sollevate in riferimento all’art. 3 Cost., sotto il profilo della irragionevole disparità di trattamento.
TESTO RILEVANTE DELLA PRONUNCIA
1.– Con le ordinanze iscritte al n. 247 reg. ord. del 2024, e ai numeri 65, 66 e 86 reg. ord. del 2025, i Tribunali di Bologna, di Roma, di Milano e di Firenze hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera a), della legge n. 91 del 1992, nella parte in cui, stabilendo che «[è] cittadino per nascita: a) il figlio di padre o di madre cittadini», non prevede alcun limite all’acquisizione della cittadinanza iure sanguinis.
Il solo Tribunale di Milano ha censurato anche l’art. 4 del codice civile del 1865, nonché l’art. 1 della legge n. 555 del 1912, sempre nella parte in cui non pongono alcun limite all’acquisizione della cittadinanza iure sanguinis.
2.– In particolare, i giudici a quibus, chiamati ad applicare la disciplina censurata a ricorrenti che sono discendenti di cittadini o cittadine italiani, ma sono nati all’estero, ivi residenti e con la cittadinanza di un altro Stato, dubitano della legittimità costituzionale delle citate norme sotto molteplici profili.
2.1.– Tutti i rimettenti ritengono violati gli artt. 1, secondo comma, e 3 Cost., quest’ultimo sotto il profilo della irragionevolezza e non proporzionalità.
In particolare, sostengono che il riconoscimento della cittadinanza a favore di chi, in presenza dei richiamati elementi di collegamento con l’ordinamento di un Paese straniero, possa vantare solo la discendenza da un cittadino o da una cittadina italiani, senza avere altri legami con l’ordinamento interno, determinerebbe una profonda alterazione della nozione di popolo, incidendo sullo stesso esercizio della sovranità popolare e, in ultima analisi, sul funzionamento della democrazia.
2.2.– I Tribunali di Bologna, di Milano e di Firenze sollevano questioni di legittimità costituzionale anche in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., relativamente agli obblighi internazionali e ai vincoli derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea, questi ultimi con specifico riguardo all’art. 9 TUE e all’art. 20 TFUE.
Secondo i giudici a quibus, le citate fonti internazionali vincolerebbero gli Stati a prevedere norme sulla cittadinanza che attestino un legame effettivo con l’ordinamento giuridico attributivo dello status civitatis.
2.3.– Infine, il Tribunale di Roma e quello di Milano reputano la norma censurata lesiva dell’art. 3 Cost., per irragionevole disparità di trattamento rispetto a diversi termini di raffronto.
Il rimettente capitolino ravvisa quale tertium comparationis l’art. 4, comma 1, della legge n. 91 del 1992, che disciplina l’acquisizione della cittadinanza a favore del discendente di chi aveva, ma ha perso, lo status di cittadino italiano.
Il giudice a quo di Milano ritiene, invece, irragionevole la disparità di trattamento rispetto alla normativa che regola l’acquisizione della cittadinanza da parte del coniuge di cittadino o di cittadina italiani.
3.– Così compendiate, in estrema sintesi, le questioni sollevate nei diversi giudizi, si deve disporre la loro riunione affinché siano decisi con un’unica sentenza, avendo essi a oggetto medesime o analoghe norme ed essendo fondati su censure e su parametri in larga misura coincidenti (tra le tante, sentenze n. 72 del 2025, n. 171 del 2024 e n. 220 del 2023).
4.– Nei giudizi riuniti hanno presentato istanza di intervento varie associazioni, la cui partecipazione in qualità di parti deve ritenersi inammissibile.
4.1.– In particolare, sono stati già dichiarati inammissibili, con ordinanza n. 85 del 2025, gli interventi ad opponendum spiegati dal Circolo Trentino di San Paolo del Brasile e dal Circolo Domus Sardinia, nel giudizio introdotto con l’ordinanza del Tribunale di Firenze, iscritta al n. 86 reg. ord. del 2025.
4.2.– Parimenti, sono inammissibili gli interventi spiegati nel giudizio introdotto con l’ordinanza del Tribunale di Bologna, iscritta al n. 247 reg. ord. 2024, dalle associazioni AUCI – Avvocati uniti per la cittadinanza italiana e AGIS – Associazione giuristi iure sanguinis, con atti di identico tenore depositati l’11 febbraio 2025.
4.2.1.– Per costante orientamento di questa Corte, la partecipazione al giudizio incidentale di legittimità costituzionale è riservata, oltre che al Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale (artt. 3 e 4, commi 1 e 2, delle Norme integrative), a soggetti titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura (ex plurimis, ordinanze allegate alle sentenze n. 19 del 2025, n. 144 e n. 140 del 2024).
Quanto alla posizione di soggetti rappresentativi di interessi collettivi o di categoria, quali sono gli intervenienti, questa Corte ha più volte precisato che è inammissibile un loro intervento qualora essi vantino, rispetto all’oggetto del giudizio incidentale di legittimità costituzionale, un interesse solo indiretto, connesso in via generale agli scopi statutari di tutela dei propri iscritti (ordinanza allegata alla sentenza n. 19 del 2025, nonché sentenze n. 130 e n. 35 del 2023; ordinanza n. 202 del 2020).
Ciò vale tanto più in considerazione del vigente art. 6 delle Norme integrative, che consente alle formazioni sociali senza scopo di lucro e ai soggetti istituzionali portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione di legittimità costituzionale di presentare a questa Corte un’opinione scritta in qualità di amici curiae (così anche ordinanza allegata alla sentenza n. 144 del 2024).
4.2.2.– Ebbene, le associazioni intervenienti non sono titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio, che ne legittimi l’intervento, atteso che esse non sono titolari di una posizione giuridica suscettibile di essere pregiudicata immediatamente e irrimediabilmente dall’esito del giudizio incidentale.
Per converso, esse vantano un interesse solo indiretto rispetto all’oggetto del giudizio incidentale di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera a), della legge n. 91 del 1992, essendo tale interesse correlato, in generale, agli scopi statutari delle due associazioni, che assistono i professionisti dediti al patrocinio nelle procedure di riconoscimento e di conseguimento della cittadinanza italiana.
Per le ragioni esposte, gli interventi di AUCI e AGIS sono inammissibili.
5.– Si sono, invece, legittimamente costituite numerose parti ricorrenti nei giudizi a quibus, che hanno eccepito l’inammissibilità e, comunque, la non fondatezza delle questioni sollevate.
Alcune di esse hanno rilevato come – nella pendenza del presente giudizio – sia stato introdotto il d.l. n. 36 del 2025, come convertito, che ha innovato la disciplina censurata in maniera tutt’altro che marginale.
Nello specifico, le parti costituite con atto depositato in data 20 maggio 2025 hanno ritenuto che il citato decreto-legge sia applicabile al presente giudizio, mentre quelle che si sono costituite con atto depositato in data 16 maggio 2025 lo hanno escluso. Inoltre, le prime hanno chiesto a questa Corte di rimettere dinanzi a se stessa questioni di legittimità costituzionale della nuova normativa.
6.– Si rende, allora, necessario esaminare, in via preliminare, i tratti della disciplina oggetto delle odierne questioni e le modifiche a essa apportate dal citato decreto-legge.
6.1.– Il censurato art. 1, comma 1, lettera a), della legge n. 91 del 1992, stabilisce che «[è] cittadino per nascita: a) il figlio di padre o di madre cittadini».
Il criterio enunciato associa automaticamente il meccanismo acquisitivo della cittadinanza allo status filiationis.
Questo trova conferma nei successivi artt. 2,3 e 14 della legge n. 91 del 1992, che, rispettivamente, collegano l’acquisizione dello status civitatis al riconoscimento del figlio o all’adozione o alla sussistenza di un vincolo di filiazione che preesista all’acquisto o al riacquisto della cittadinanza da parte dell’ascendente.
Tale disciplina riprende quanto già previsto, seppure in un contesto ancora impermeabile al principio di eguaglianza fra uomini e donne, dalla legge n. 555 del 1912 (che, all’art. 1, primo comma, considerava «cittadino per nascita: 1° il figlio di padre cittadino») e, prima ancora, dal codice civile del 1865, che, all’art. 4 del Libro primo, Titolo I, riteneva «cittadino il figlio di padre cittadino», recependo, a sua volta, il modello del Code Napoléon del 1804, ai sensi del quale «[t]out enfant né d’un Français dans un pays étranger est Français» (art. 10 del Libro primo, Titolo I).
Rimosso il fattore discriminatorio dall’art. 1, primo comma, della legge n. 555 del 1912, grazie alla sentenza n. 30 del 1983 di questa Corte, la regola dell’acquisizione della cittadinanza attraverso il vincolo di filiazione è transitata, inizialmente, nel primo comma dell’art. 5 della legge n. 123 del 1983, il quale, al secondo comma, prevedeva, altresì, che il figlio con doppia cittadinanza, divenuto maggiorenne, avesse l’onere di optare per una sola cittadinanza entro un anno dal raggiungimento della maggiore età.
Di seguito, la legge n. 91 del 1992, per un verso, ha abrogato la legge n. 123 del 1983, senza riprodurre il contenuto precettivo del citato art. 5, secondo comma.
Per un altro verso, con la disposizione oggi censurata, ha confermato l’automatica correlazione fra status civitatis e status filiationis.
6.2.– In sintonia con i tratti propri del presupposto costitutivo della cittadinanza, ovverossia lo stato di figlio, la giurisprudenza costituzionale e quella di legittimità hanno qualificato la natura di tale modo di acquisto della cittadinanza come a titolo «originario» (la citata sentenza n. 30 del 1983, nonché Cass., sent. n. 25317 e n. 25318 del 2022).
Contestualmente, il diritto vivente ha sottolineato che lo status civitatis fondato sul vincolo di filiazione ha carattere «permanente ed è imprescrittibile [e] giustiziabile in ogni tempo in base alla semplice prova della fattispecie acquisitiva integrata dalla nascita da cittadino italiano» (le citate Cass., sent. n. 25317 e n. 25318 del 2022).
6.3.– A fronte del richiamato assetto normativo, è intervenuto, nella pendenza del presente giudizio, il d.l. n. 36 del 2025, come convertito, che ha inciso sull’automatica correlazione fra cittadinanza e status filiationis, nel caso di soggetti nati all’estero e in possesso di altra cittadinanza.
In particolare, l’art. 1, comma 1, del d.l. n. 36 del 2025, come convertito, ha aggiunto alla legge n. 91 del 1992 un nuovo art. 3-bis, il quale prevede che, «[i]n deroga agli articoli 1, 2, 3, 14 e 20 della presente legge, all’articolo 5 della legge 21 aprile 1983, n. 123, agli articoli 1,2,7,10,12 e 19 della legge 13 giugno 1912, n. 555, nonché agli articoli 4,5,7,8 e 9 del codice civile approvato con r.d. n. 2358 del 1865, è considerato non avere mai acquistato la cittadinanza italiana chi è nato all’estero anche prima della data di entrata in vigore del presente articolo ed è in possesso di altra cittadinanza, salvo che ricorra una delle seguenti condizioni».
Le lettere a), a-bis) e b) individuano – nella presentazione alle autorità competenti della domanda di accertamento della cittadinanza, corredata dalla necessaria documentazione e presentata «entro le 23:59, ora di Roma, […] del 27 marzo 2025» – lo spartiacque che separa la persistente applicabilità della pregressa disciplina dall’operatività delle nuove condizioni richieste per l’acquisizione della cittadinanza iure sanguinis.
Queste ultime sono, in particolare, indicate dalle lettere c) e d), le quali stabiliscono che la cittadinanza italiana si acquista attraverso il vincolo di filiazione: se l’ascendente di primo o di secondo grado possiede, o possedeva al momento della morte, esclusivamente la cittadinanza italiana; oppure, se il genitore o il genitore adottivo è stato residente in Italia per almeno due anni continuativi successivamente all’acquisto della cittadinanza italiana e prima della data di nascita o di adozione del figlio.
Vengono poi stabilite, all’art. 1, commi 1-bis e 1-ter, del d.l. n. 36 del 2025, come convertito (disposizioni che integrano l’art. 4 della legge n. 91 del 1992 con i commi 1-bis e 1-ter), varie condizioni cumulative per consentire al figlio minore di un genitore italiano, che non rientri nelle previsioni dell’art. 3-bis, di acquisire la cittadinanza.
Nel caso, poi, di acquisto o riacquisto della cittadinanza da parte del genitore, la fattispecie acquisitiva dello status civitatis a favore del figlio minore richiede la residenza di quest’ultimo in Italia, legale e continuativa, protratta per due anni o, qualora il figlio abbia meno di due anni, a partire dalla nascita (art. 1, comma 1-quater, del d.l. n. 36 del 2025, come convertito, che integra l’art. 14, comma 1, della legge n. 91 del 1992).
Infine, vengono estese al discendente del cittadino italiano le norme che operano per il discendente di chi ha perso la cittadinanza italiana (art. 1, comma 1-bis, del d.l. n. 36 del 2025, come convertito, che estende il raggio operativo dell’art. 4, comma 1, della legge n. 91 del 1992; nonché art. 1-bis, comma 2, del d.l. n. 36 del 2025, come convertito, che integra l’art. 9, comma 1, della legge n. 91 del 1992).
7.– Stante tale quadro normativo di riferimento, la nuova disciplina, al di là delle assonanze rispetto a quanto prospettato nelle ordinanze di rimessione, non si riverbera sulla rilevanza delle questioni sollevate dalle stesse.
Tutte le controversie oggetto dei giudizi principali sono state, infatti, introdotte sulla base di domande giudiziali presentate prima del 27 marzo 2025, sicché – ai sensi dell’art. 3-bis, comma 1, lettera b), della legge n. 91 del 1992, introdotto con l’art. 1, comma 1, del d.l. n. 36 del 2025, come convertito – resta applicabile ai giudizi a quibus la pregressa disciplina, cui si riferiscono le odierne censure.
Non sussistono, dunque, i presupposti per restituire gli atti ai rimettenti.
8.– Parimenti, non ricorrono le condizioni in presenza delle quali questa Corte può rimettere dinanzi a sé stessa questioni di legittimità costituzionale.
La nuova disciplina non deve essere applicata nel giudizio costituzionale (ordinanza n. 73 del 1965 e, da ultimo, ordinanza n. 35 del 2024), né sussiste un «rapporto di presupposizione» fra la stessa e quella dedotta dal giudice a quo, tale per cui l’intervento solo su quest’ultima non consentirebbe comunque di rimuovere il vulnus (ordinanze n. 94 del 2022 e n. 18 del 2021).
Parimenti, non si rinvengono i presupposti della particolare urgenza (ordinanza n. 73 del 1965) o l’esigenza di evitare che «la Corte – che è il solo organo competente a decidere delle questioni di costituzionalità delle leggi – sia tenuta ad applicare leggi incostituzionali» (ordinanza n. 22 del 1960 e, da ultimo, ordinanza n. 35 del 2024).
9.– Tanto premesso, si può procedere all’esame delle molteplici eccezioni di rito sollevate dalle parti, a partire da quelle che questa Corte reputa ictu oculi non fondate.
9.1.– Sono tali, anzitutto, le eccezioni di inammissibilità che ritengono non correttamente assolto l’onere di motivare la non manifesta infondatezza, in quanto le ordinanze si porrebbero in contrasto con l’orientamento di questa Corte, della Corte di cassazione, nonché degli stessi Tribunali rimettenti, che, ad avviso delle parti, avrebbero asserito e confermato la «legittimità costituzionale» della disciplina contestata negli atti introduttivi.
Occorre, anzitutto, rilevare che questa Corte, a oggi, non è mai stata investita dei dubbi di legittimità costituzionale che vengono in rilievo nelle odierne questioni. Ha avuto occasione, infatti, di pronunciarsi su tutt’altre censure riguardanti la medesima disposizione. In particolare, si è occupata della mancanza di una norma che consentisse l’acquisto della cittadinanza anche per linea materna (sentenza n. 30 del 1983), ma non della mancanza di una norma che limitasse il meccanismo acquisitivo iure sanguinis per persone nate all’estero, ivi residenti e con la cittadinanza di un altro Stato.
In ogni caso, è doveroso, soprattutto, rammentare che questa Corte – diversamente da quanto prospettato dalle parti – giudica l’eventuale illegittimità costituzionale delle norme; pertanto, anche quando si pronuncia per la non fondatezza di una questione, non accerta la conformità a Costituzione della norma censurata, ma si limita a escludere la sussistenza dello specifico vulnus lamentato.
9.2.– Palesemente non fondata è anche l’eccezione che lamenta il mancato esperimento del tentativo di interpretazione conforme alla Costituzione, opposta nei confronti dell’ordinanza di rimessione del Tribunale di Milano, che ha esplicitamente escluso il possibile superamento in via interpretativa dei dubbi di legittimità costituzionale posti dalla norma censurata.
La medesima eccezione, sollevata anche con riguardo alle ordinanze degli altri rimettenti, non è parimenti fondata.
È, infatti, di evidenza palmare che i giudici a quibus, nel richiedere un intervento additivo e manipolativo dell’art. 1, comma 1, lettera a), della legge n. 91 del 1992, abbiano implicitamente ritenuto che il suo dato testuale non potesse ricomprendere le complesse e molteplici aggiunte dagli stessi prospettate.
Il giudice non ha l’onere di esplicitare quanto già traspare, in maniera lampante, dal profilo letterale della disposizione.
Questa Corte ha più volte ribadito, specie di recente, che il dato testuale configura un limite invalicabile in presenza del quale il tentativo di interpretazione conforme cede il passo necessariamente al sindacato di legittimità costituzionale (tra le tante, sentenze n. 88 del 2025, n. 44 del 2024, n. 193 del 2022 e n. 221 del 2019).
10.– Proseguendo, ora, secondo l’ordine logico delle eccezioni, vengono, di seguito, all’esame quelle attinenti al difetto di rilevanza.
10.1.– Non fondata, anzitutto, è l’eccezione di irrilevanza delle questioni, sollevata da alcune parti, sul presupposto che i giudici rimettenti di Bologna, di Roma e di Firenze abbiano censurato solo l’art. 1, comma 1, lettera a), della legge n. 91 del 1992 e non anche le precedenti leggi, che regolavano l’acquisizione della cittadinanza iure sanguinis in capo agli ascendenti (la legge n. 123 del 1983, la legge n. 555 del 1912, sino a risalire al codice civile del 1865); e questo, benché alcuni ricorrenti fossero nati prima dell’entrata in vigore della legge n. 91 del 1992.
Simile eccezione è destituita di fondamento, in quanto la cittadinanza italiana, ai sensi dell’art. 1, comma 1, lettera a), della legge n. 91 del 1992 spetta a chi è figlio di cittadino o di cittadina italiani, senza che a ciò sia ostativa un’eventuale diversa regola vigente al momento in cui sorge il vincolo di filiazione.
La nascita, infatti, rappresenta il presupposto acquisitivo dello status filiationis (al pari del riconoscimento e dell’adozione), ma è lo stato di figlio, in quanto tale, che costituisce il titolo acquisitivo dello status civitatis.
10.2.– All’inverso, occorre rilevare d’ufficio l’inammissibilità, per difetto di rilevanza, delle questioni che il Tribunale di Milano solleva sull’intera catena normativa sopra richiamata e, precisamente, sull’art. 4 del codice civile del 1865 e sull’art. 1 della legge n. 555 del 1912.
Oggetto dei giudizi principali, infatti, non sono le leggi attributive della cittadinanza italiana in capo agli ascendenti degli attuali ricorrenti, che al più – e in via meramente eventuale – possono essere evocate a sostegno della prova della cittadinanza italiana del genitore di chi chiede l’accertamento del proprio status.
Di contro, la disciplina oggetto dei giudizi principali è quella che regola l’acquisizione della cittadinanza italiana dei ricorrenti; e questi, in virtù dell’art. 1, comma 1, lettera a), della legge n. 91 del 1992, sono cittadini italiani, in quanto figli di italiani, anche se nati prima del 1992.
10.3.– Quanto all’eccezione che contesta l’irrilevanza delle questioni per mancata dimostrazione, nei confronti dei ricorrenti, della carenza di legami effettivi con l’ordinamento italiano, essa dovrà essere esaminata unitamente a quella che denuncia il carattere manipolativo della previsione di detti legami (infra, punto 12 del Considerato in diritto).
11.– Occorre, invece, ora valutare l’eccezione di inammissibilità per essere la materia riservata alla discrezionalità del legislatore, fatta valere da tutte le difese delle parti.
In particolare, alcune di esse ritengono che questa Corte non possa «mettere in discussione quella che è stata e quella che è una scelta» del legislatore effettuata in materia di cittadinanza, frutto di una sua precisa valutazione «discrezionale».
Considerano, pertanto, l’eventuale accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale alla stregua di una «violazione dell’articolo 70 Cost. in relazione al detentore della funzione legislativa, dell’articolo 71 Cost. in relazione ai soggetti titolari di iniziativa legislativa e dell’articolo 134 Cost. in relazione alle funzioni di questa Ecc.ma Corte Costituzionale».
L’eccezione – nei termini sopra prospettati – non è fondata.
11.1.– Questa Corte riconosce «che il legislatore god[e] di ampia discrezionalità nella disciplina dell’attribuzione della cittadinanza» (sentenza n. 25 del 2025). Nondimeno, le norme dettate in materia, non diversamente da altre discipline connotate da elevata discrezionalità, «non si sottraggono per questo al giudizio di costituzionalità, in quanto devono pur sempre essere compiute secondo canoni di non manifesta irragionevolezza e di proporzionalità rispetto alle finalità perseguite (tra le altre, sentenze n. 88 del 2023, n. 194 del 2019, n. 202 del 2013 e n. 245 del 2011)» (sentenza n. 25 del 2025 e, in senso analogo, sentenza n. 195 del 2022).
In particolare, la giurisprudenza costituzionale ha escluso che un criterio fondativo della cittadinanza possa essere connotato in termini discriminatori (così la già citata sentenza n. 30 del 1983, che ha ravvisato una violazione dell’art. 3 Cost., nella disciplina che prevedeva «l’acquisto originario soltanto della cittadinanza del padre», senza contemplare il medesimo acquisto a titolo originario anche in caso di cittadinanza italiana della madre).
Di seguito, questa Corte ha ritenuto manifestamente irragionevoli e sproporzionate, nel loro applicarsi a persone affette da infermità o da menomazione di natura fisica o psichica, norme attributive della cittadinanza che richiedevano la dimostrazione di conoscenze o il compimento di atti nei loro confronti non esigibili (sentenze n. 25 del 2025 e n. 258 del 2017).
E ancora, ha dichiarato costituzionalmente illegittima una norma che irragionevolmente includeva, nel novero delle cause ostative al riconoscimento della cittadinanza, la morte del coniuge del richiedente, sopravvenuta in pendenza dei termini previsti per la conclusione del procedimento (sentenza n. 195 del 2022).
11.2.– Non sfugge, invero, a questa Corte la peculiarità della censura sollevata in riferimento agli artt. 1, secondo comma, e 3 Cost., che contesta il mancato rispetto della nozione di popolo quale sarebbe riflessa nelle norme che la Costituzione dedica alla cittadinanza.
Occorre, invero, a riguardo sottolineare che la Costituzione non dà una definizione di popolo e si limita a delineare tratti della cittadinanza, immersi nella complessità del testo costituzionale.
La Costituzione associa la cittadinanza primariamente alla partecipazione politica e ai diritti politici (Titolo IV della Parte prima della Costituzione).
Riferisce, poi, ai cittadini la titolarità di diritti e di doveri (fra i quali il dovere di difesa della Patria; quello di concorrere alle spese pubbliche e il dovere di fedeltà).
Tale attribuzione di diritti e di doveri si colloca, nondimeno, nel contesto di una fonte – la Costituzione –, i cui principi fondamentali garantiscono a ciascuna persona i diritti inviolabili e lo stesso principio di eguaglianza (già sentenza n. 120 del 1967 e, negli stessi termini, da ultimo sentenza n. 53 del 2024) e le cui norme riferiscono taluni doveri di solidarietà anche a non cittadini (si consideri il dovere di concorrere alle spese pubbliche, che già il testo costituzionale, all’art. 53 Cost., ascrive a “tutti”, o la facoltà di prestare il servizio civile nazionale, che questa Corte ha esteso agli stranieri, qualificando la prestazione del richiamato servizio «come adempimento di un dovere di solidarietà [e] come un’opportunità di integrazione e di formazione alla cittadinanza», in tal senso, sentenza n. 119 del 2015).
Ancora, la Costituzione richiama l’idea di cittadinanza quale appartenenza a una comunità che ha comuni radici culturali e linguistiche, ma, al contempo, disegna una comunità aperta al pluralismo e che tutela le minoranze. Infine, le norme costituzionali evocano una correlazione fra cittadinanza e territorio dello Stato, in quanto luogo che riflette un comune humus culturale e la condivisione dei principi costituzionali.
Dinanzi al senso articolato e complesso dei riferimenti costituzionali alla cittadinanza, spetta, dunque, al legislatore, che vanta un margine di discrezionalità particolarmente ampio, individuare i presupposti per l’acquisizione dello status.
Nondimeno, compete a questa Corte accertare – al metro della non manifesta irragionevolezza e sproporzione – che le norme che regolano l’acquisizione dello status civitatis non facciano ricorso a criteri del tutto estranei ai principi costituzionali e a quei molteplici tratti, che – come sopra evidenziato – connotano la cittadinanza.
Resta ferma la possibilità per il legislatore di declinare in concreto anche i contenuti della cittadinanza, alla luce dei principi costituzionali.
11.3.– Quanto sopra rilevato, trova corrispondenza nell’approccio che la Corte di giustizia ha adottato con riguardo ai vincoli imposti in materia di cittadinanza dal diritto dell’Unione europea, e in specie dall’art. 9 TUE e dall’art. 20TFUE.
In termini generali, la Corte di giustizia ha riconosciuto che «[l]a determinazione dei modi di acquisto e di perdita della cittadinanza rientra, in conformità al diritto internazionale, nella competenza di ciascuno Stato membro» (Corte di giustizia, sentenza 7 luglio 1992, causa C-369/90, Micheletti e altri, punto 10).
Al contempo, tuttavia, la medesima Corte ha precisato che la competenza statale «deve essere esercitata nel rispetto del diritto dell’Unione» (Corte di giustizia, grande sezione, sentenze 29 aprile 2025, causa C-181/23, Commissione europea contro Repubblica di Malta, punti 42, 95 e 98; 5 settembre 2023, causa C-689/21, Udlændinge- og Integrationsministeriet, punto 30; 18 gennaio 2022, causa C-118/20, JY, punto 49; 2 marzo 2010, causa C-135/08, Rottmann, punto 45; e la citata sentenza Micheletti, punto 10).
In una prima fase, è così pervenuta a censurare discipline statali che determinavano la perdita dello status civitatis nei confronti di uno Stato membro e, di riflesso, nei confronti dell’Unione europea.
In particolare, ha reputato che le norme sulla cittadinanza contenute nei Trattati fossero ostative a simili discipline, ove queste non consentissero, «in nessun momento, un esame individuale delle conseguenze determinate da tale perdita, per gli interessati, sotto il profilo del diritto dell’Unione» (Corte di giustizia, grande sezione, sentenza, 17 marzo 2019, causa C-221/17, Tjebbes e altri; in senso conforme, sentenza Udlændinge- og Integrationsministeriet, nonché, con riguardo a casi in cui si determinava la condizione di apolidia dell’interessato, le citate sentenze JY, punti 58, 59 e 73, e Rottmann, punto 55).
In una seconda fase, recentissima, la Corte di giustizia ha esteso il proprio sindacato anche alle norme attributive della cittadinanza, rilevando che «l’esercizio della competenza degli Stati membri in materia di definizione dei requisiti per la concessione della cittadinanza di uno Stato membro non è, alla stregua della loro competenza in materia di definizione delle condizioni di perdita della cittadinanza, illimitato» (la già citata sentenza Commissione europea contro Repubblica di Malta, punto 95).
In tale prospettiva, ha evidenziato che la cittadinanza europea si fonda «sui valori comuni contenuti nell’articolo 2 TUE e sulla fiducia reciproca che gli Stati membri si accordano quanto al fatto che nessuno di essi eserciti tale competenza in un modo che sia manifestamente incompatibile con la natura stessa della cittadinanza dell’Unione» (sentenza Commissione europea contro Repubblica di Malta, punto 95).
La Corte di giustizia ha poi aggiunto che i Trattati dell’Unione europea identificano il contenuto della cittadinanza europea: nella garanzia ai cittadini e ai loro familiari della libera circolazione, della libera prestazione dei servizi e della libertà di stabilimento interne; nella facoltà di godere dei diritti politici e nel diritto alla tutela delle autorità diplomatiche e consolari degli altri Stati membri, alle stesse condizioni dei cittadini di questi ultimi (ancora, sentenza Commissione europea contro Repubblica di Malta, punti 84-90).
Sulla base di tali premesse, la Corte di giustizia ha ritenuto che le norme statali in materia di cittadinanza non debbano essere esercitate «in un modo [da essere] manifestamente incompatibil[i] con la natura stessa della cittadinanza dell’Unione» (ancora, sentenza Commissione europea contro Repubblica di Malta, punto 95).
In tal senso, è stato ritenuto in contrasto con il diritto dell’Unione «un programma di naturalizzazione» che concedeva la cittadinanza a seguito di pagamenti o investimenti effettuati nello Stato membro, in quanto «assimilabile a una commercializzazione della concessione dello status di cittadino di uno Stato membro e, per estensione, di quella dello status di cittadino dell’Unione» (sempre sentenza Commissione europea contro Repubblica di Malta, punto 100).
11.4.– Alla luce delle pregresse considerazioni non è, dunque, fondata l’eccezione sollevata dalle parti, in quanto vòlta a escludere, in radice, in ragione della discrezionalità del legislatore, l’ammissibilità di una censura che contesti l’estraneità di una disciplina sulla cittadinanza rispetto sia ai principi costituzionali sia alle norme del TUE e del TFUE, come interpretate dalla Corte di giustizia UE.
12.– Tuttavia, occorre, di seguito, rilevare che i rimettenti, nel sollevare le questioni in riferimento agli artt. 1, primo comma, e 3 Cost., sotto il profilo della irragionevolezza e non proporzionalità, nonché in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 9 TUE e all’art. 20 TFUE, non contestano che il vincolo di filiazione, quale presupposto acquisitivo della cittadinanza, sia in quanto tale privo di corrispondenza con i tratti identificativi dello status civitatis nel testo costituzionale, così come nelle fonti dell’Unione europea.
Le censure non pongono in discussione l’idea secondo cui, in generale, l’appartenenza a una comunità familiare, che è parte della comunità statale, possa implicare l’appartenenza anche a quest’ultima; criterio sul quale, del resto, si fonda lo status civitatis della maggior parte dei cittadini italiani.
Viceversa, ciò di cui dubitano i giudici a quibus è che, in presenza di elementi di collegamento fra il richiedente l’accertamento della cittadinanza italiana e ordinamenti giuridici stranieri e in assenza di elementi di collegamento con l’ordinamento giuridico italiano in aggiunta allo ius sanguinis, il vincolo di filiazione possa risultare sufficiente alla funzione che è chiamato a svolgere quale fondamento della cittadinanza, in quanto la stessa comunità familiare, al verificarsi dei richiamati presupposti positivi e negativi, non sarebbe più in grado di trasmettere una appartenenza alla comunità statale.
12.1.– Ebbene, proprio rispetto a questo tipo di censura, le parti sollevano ulteriori, specifiche eccezioni di inammissibilità.
Anzitutto, obiettano che questa Corte non possa con un intervento manipolativo di sistema sostituirsi al legislatore nel decidere una pluralità di presupposti. Per un verso, dovrebbe stabilire gli elementi di collegamento con ordinamenti giuridici stranieri, in presenza dei quali si indebolirebbe irrimediabilmente la funzione propria dello ius sanguinis. Per un altro verso, dovrebbe indicare, in maniera combinata e sistematicamente correlata, i criteri di collegamento con l’ordinamento giuridico italiano in mancanza dei quali il vincolo di filiazione non potrebbe più svolgere la funzione sua propria di far acquisire la cittadinanza.
Simile eccezione fa corpo con quella che contesta il carattere generico delle censure, là dove alcuni rimettenti prospettano plurime soluzioni alternative, mentre altri neppure indicano in che modo dovrebbe sanarsi il ritenuto vulnus. A ciò si aggiunga che la genericità delle censure sarebbe tale da non farsi neppure carico – secondo le parti costituite in giudizio con l’atto depositato il 16 maggio 2024 – della diversità di situazioni sulle quali andrebbe a ricadere l’auspicato intervento di questa Corte.
Infine, alle richiamate eccezioni si collega quella che contesta l’irrilevanza delle censure, là dove i giudici a quibus avrebbero dato per assunto, senza fornire alcuna dimostrazione o possibilità di prova contraria, che i rimettenti non abbiano quegli altri legami con l’ordinamento italiano, che consentirebbero di evitare il vulnus.
12.2.– Le eccezioni sono fondate.
12.2.1.– Anche solo identificare profili di correlazione con l’ordinamento giuridico straniero, in presenza dei quali la funzione attributiva dello status civitatis propria dello status filiationis risulterebbe indebolita, implica la necessità di effettuare scelte discrezionali fra una molteplicità di possibili opzioni.
Non a caso, le ordinanze di rimessione si limitano genericamente a descrivere la situazione in cui si trovano i ricorrenti nei giudizi principali, che sono nati all’estero, sono cittadini di un altro Stato e sono ivi residenti.
Questa Corte dovrebbe allora decidere se dare rilievo alla nascita all’estero e se essa debba concorrere con entrambi gli altri presupposti o con uno solo di essi; dovrebbe poi valutare se considerare la residenza all’estero dell’ascendente o del discendente o di entrambi, e in quale momento; infine, dovrebbe ponderare il senso del riferimento alla doppia cittadinanza, che varia a seconda che riguardi il discendente o anche l’ascendente.
A ciò si aggiunga che intervenire su ciascuno di tali elementi comporta, non solo valutazioni discrezionali, ma anche rilevanti implicazioni di sistema.
12.2.2.– I caratteri propri di un intervento manipolativo e di sistema, qual è quello prospettato dai giudici a quibus, emergono poi con ulteriore evidenza, ove si consideri che questa Corte sarebbe chiamata a decidere, fra i tanti tratti identificativi della cittadinanza, quello o quelli idonei a dare sufficiente dimostrazione della circostanza che, nonostante la presenza di elementi di collegamento con l’ordinamento giuridico straniero, l’appartenenza al nucleo familiare continui a svolgere la sua funzione giustificativa di una appartenenza anche alla comunità statale.
Questa Corte dovrebbe allora sostituirsi al legislatore nel valutare se valorizzare il legame culturale e linguistico con la comunità statale, tenendo conto della condizione dei cittadini residenti all’estero, o, viceversa, prediligere un collegamento con il territorio.
Non a caso, le stesse prospettazioni dei giudici a quibus spaziano fra plurime e diverse soluzioni.
La genericità e il carattere manipolativo delle censure emergono vieppiù, ove si consideri che i rimettenti neppure si confrontano con la notevole varietà di ipotesi sulle quali l’intervento prospettato dai rimettenti andrebbe potenzialmente a incidere: su coloro che hanno già richiesto l’accertamento della cittadinanza; su coloro che non lo hanno ancora richiesto, ma vantano lo status filiationis; su coloro che acquisiranno tale status.
12.3.– In definitiva, quello che si richiede a questa Corte è un intervento manipolativo oltremodo complesso che potrebbe attingere a un ventaglio quanto mai ampio di opzioni, rispetto alle quali si impongono scelte intrise di discrezionalità e che hanno incisive ricadute a livello di sistema.
Per le ragioni esposte, le questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimento agli artt. 1, secondo comma, 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 9 TUE e all’art. 20 TFUE, sono inammissibili.
13.– Parimenti inammissibile, per mancata individuazione della norma internazionale interposta al parametro, è la questione di legittimità costituzionale che lamenta la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli obblighi internazionali.
I rimettenti non specificano quale sia la fonte del diritto internazionale lesa, dalla quale discenderebbe il mancato rispetto di obblighi internazionali.
Non sono evocate convenzioni internazionali, che direttamente o indirettamente riguardino la cittadinanza. Non è richiamata la fonte della consuetudine internazionale, che peraltro avrebbe dovuto suggerire una censura anche con riguardo all’art. 10 Cost. Non vi sono, infine, riferimenti ai principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili, che sono fonti del diritto internazionale ai sensi dell’art. 38 dello statuto della Corte internazionale di giustizia.
Per converso, i giudici a quibus si limitano a richiamare il caso Liechtenstein contro Guatemala (CIG, sentenza 6 aprile 1955), sovrapponendo, indebitamente, il piano dei criteri attributivi della cittadinanza con quello, nient’affatto equivalente, che attiene alla possibilità di far valere la cittadinanza nelle relazioni internazionali (solo a tali fini la citata pronuncia e la più recente CIG, sentenza 4 febbraio 2021, Qatar contro Emirati Arabi Uniti, presuppongono l’esistenza di un vincolo effettivo e di un legame genuino con l’ordinamento statuale).
Anche la censura sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., relativamente agli obblighi internazionali è, pertanto, inammissibile.
14.– Sono, viceversa, ammissibili le questioni sollevate rispettivamente dal Tribunale di Roma e da quello di Milano, in riferimento all’art. 3 Cost., sotto il profilo della irragionevole disparità di trattamento.
I giudici a quibus, infatti, pur avendo operato taluni confronti generici fra la norma censurata, nella sua applicabilità alla situazione in cui si trovano i rimettenti, e varie discipline attributive della cittadinanza, hanno poi identificato, con sufficiente determinatezza, due precisi tertia comparationis.
14.1.– In particolare, il rimettente capitolino ritiene che l’art. 1, comma 1, lettera a), della legge n. 91 del 1992, in quanto applicabile a persone nate, residenti all’estero e con la cittadinanza del Paese straniero, comporterebbe una irragionevole disparità di trattamento rispetto all’art. 4, comma 1, della medesima legge, che, fra le varie norme con cui pone a raffronto quella oggetto dell’odierno giudizio, ritiene la «più appropriatamente confrontabile».
In ambo i casi – secondo il giudice a quo – verrebbe, infatti, in considerazione una cittadinanza acquisita ipso iure sulla base della ricognizione dei requisiti occorrenti, che, dunque, si configurerebbe alla stregua di un diritto soggettivo e non di un interesse legittimo.
14.2.– Il Tribunale di Milano, a sua volta, dopo aver messo a confronto la norma censurata con varie previsioni attributive della cittadinanza, identifica, quale tertium comparationis, la disciplina che regola l’acquisizione della cittadinanza in capo al coniuge, richiedendo la dimostrazione di un livello intermedio di conoscenza della lingua italiana o, in alternativa, la sottoscrizione di un accordo di integrazione.
15.– Nel merito, le questioni non sono fondate.
Una censura di irragionevole disparità di trattamento impone a questa Corte, anzitutto, di verificare, alla luce della ratio della disciplina, l’omogeneità fra le situazioni posto a confronto. Secondo un costante orientamento della giurisprudenza costituzionale, si è, infatti, in presenza di una violazione dell’art. 3 Cost. «qualora situazioni sostanzialmente identiche siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso e non quando alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non assimilabili» (ex plurimis, sentenze n. 171 del 2022, n. 71 del 2021, n. 85 del 2020, n. 13 del 2018 e n. 71 del 2015).
15.1.– Tale sostanziale identità di situazioni difetta anzitutto nella censura mossa dal Tribunale di Roma.
L’art. 4, comma 1, della legge n. 91 del 1992 disciplina ipotesi di acquisto dello status civitatis da parte di stranieri che siano figli di persone che hanno perso la cittadinanza italiana. La norma censurata regola, invece, l’acquisto iure sanguinis della cittadinanza da parte di discendenti di persone che sono cittadini o cittadine italiani.
È, quindi, assorbente il rilievo concernente la mancanza di omogeneità fra le situazioni messe a confronto.
15.2.– Il presupposto dell’omogeneità fra le situazioni poste a raffronto è parimenti carente con riguardo alla censura sollevata dal Tribunale di Milano.
L’acquisto della cittadinanza per matrimonio con un cittadino o una cittadina italiani si fonda su un tipo di vincolo – quello costituito, per l’appunto, dal matrimonio – che non è sovrapponibile, neppure in considerazione della ratio legis della disciplina, con il vincolo di filiazione.
Anche tale censura non è, pertanto, fondata.
16.– In conclusione, sono inammissibili le censure mosse dal Tribunale di Milano rispetto all’art. 4 del codice civile del 1865 e rispetto all’art. 1 della legge n. 555 del 1912.
Parimenti, sono inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera a), della legge n. 91 del 1992, sollevate in riferimento agli artt. 1, secondo comma, e 3 Cost., sotto il profilo della irragionevolezza e non proporzionalità, nonché in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli obblighi internazionali e ai vincoli derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea, questi ultimi con riguardo all’art. 9 TUE e all’art. 20 TFUE.
Infine, sono non fondate le questioni di legittimità costituzionale della medesima norma sollevate in riferimento all’art. 3 Cost., sotto il profilo della irragionevole disparità di trattamento.