Corte Costituzionale, sentenza 23 maggio 2025, n. 73
PRINCIPIO DI DIRITTO
Va dichiarata inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 5, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di sorveglianza di Palermo;
Va, altresì, dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998, sollevata, in riferimento all’art. 27, terzo comma, Cost., dal Tribunale di sorveglianza di Palermo.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di sorveglianza di Palermo ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998, «almeno nella parte in cui non prevede che il Magistrato di Sorveglianza possa disporre – in assenza del consenso dell’interessato – l’espulsione dello straniero, identificato, detenuto, che si trova in taluna delle condizioni indicate dall’art. 13, comma 2, del D.Lgs. 286/1998 che deve scontare una pena detentiva, anche residua, non superiore a due anni e che non sia condannato per i delitti previsti dall’art. 12, commi 1, 3, 3 bis, 3 ter del D.Lgs. 286/1998 ovvero per uno o più delitti previsti dall’art. 407, comma 2, lett. a), c.p.p., fatta eccezione per quelli consumati o tentati di cui agli articoli 628, terzo comma e 629, secondo comma, del codice penale».
Il giudice a quo espone di dover decidere dell’opposizione presentata da un cittadino tunisino detenuto avverso il decreto di espulsione adottato dal Magistrato di sorveglianza in attuazione della disposizione censurata, non risultando la persona condannata per alcuno dei reati ostativi ivi previsti ed essendo la pena residua da espiare inferiore a due anni di reclusione.
Ritiene il rimettente che, a prescindere dalla sua natura amministrativa o trattamentale, la misura espulsiva di cui all’art. 16, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998 avrebbe carattere sanzionatorio e afflittivo; essa determinerebbe l’improvvisa interruzione del percorso trattamentale, pur fruttuosamente intrapreso, configurando un automatismo che priva il magistrato di sorveglianza di qualsivoglia potere di bilanciamento tra la prosecuzione del trattamento, oggetto di un vero e proprio diritto soggettivo del detenuto, e la finalità di riduzione del sovraffollamento carcerario, cui l’espulsione mira, in violazione degli artt. 3 e 27 Cost.
2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha eccepito l’inammissibilità delle questioni per erronea ricostruzione del quadro normativo, non avendo il provvedimento di cui all’art. 16, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998, per la consolidata giurisprudenza di legittimità, carattere trattamentale, bensì amministrativo, trattandosi di misura atipica e in bonam partem, in quanto meno afflittiva della espiazione della pena in carcere; inoltre, le questioni sarebbero inammissibili per difetto di motivazione in riferimento ai parametri evocati, poiché le censure sarebbero generiche quanto alla asserita violazione dell’art. 27 Cost. e totalmente assenti quanto alla denunciata violazione dell’art. 3 Cost.
2.1.– La prima eccezione di inammissibilità non è fondata.
Motivando in ordine all’impossibilità di procedere a un’interpretazione costituzionalmente conforme, il rimettente prende posizione sul consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità relativo al carattere amministrativo della misura, dichiarando di non condividerlo; d’altra parte, la natura della misura, se amministrativa o trattamentale, attiene al merito della questione e non alla sua ammissibilità (tra le molte, sentenze n. 163, n. 105 e n. 6 del 2024, n. 202 del 2023 e n. 139 del 2022).
2.2.– La seconda eccezione di inammissibilità è fondata quanto alla dedotta violazione dell’art. 3 Cost.
La disposizione costituzionale è meramente evocata dal rimettente, in assenza di qualsivoglia apparato motivazionale. Sebbene nell’ordinanza di rimessione alcune linee argomentative, soltanto accennate, possano essere implicitamente ricondotte a profili di irragionevolezza intrinseca o di violazione del principio di eguaglianza, tali profili non sono sorretti da alcuna motivazione.
Per ciò che attiene ai profili di irragionevolezza, l’ordinanza contiene affermazioni apodittiche, quale quella che la misura espulsiva finirebbe per contraddire il fine cui è rivolta, il contrasto all’immigrazione illegale, in quanto indurrebbe le persone espulse coattivamente nel corso del trattamento penitenziario a elaborare strategie per rientrare illegalmente in Italia.
Quanto al profilo della denunciata violazione del principio di eguaglianza, nessuna motivazione è data intorno agli elementi di somiglianza tra le misure indistintamente invocate dal rimettente, alcune amministrative e altre trattamentali, né sulle ragioni che giustificherebbero una loro analoga o diversa considerazione ai fini della questione sottoposta.
2.3.– In riferimento all’art. 27 Cost., invece, la questione deve intendersi circoscritta alla sola violazione del terzo comma, con specifico riguardo al contrasto della disposizione censurata con il principio del finalismo rieducativo della pena, essendo questo l’unico principio, tra quelli espressi dalla disposizione costituzionale, che l’ordinanza di rimessione espressamente evoca e intorno al quale ruotano tutte le censure proposte, attinenti all’interferenza della misura espulsiva con il percorso trattamentale.
3.– Nel merito, la questione non è fondata.
4.– È opportuno premettere una sintetica illustrazione dell’istituto della espulsione alternativa alla detenzione, previsto dall’art. 16, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998.
La misura è stata introdotta dall’art. 15 della legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), che ha interamente sostituito l’art. 16 t.u. immigrazione, con finalità essenzialmente deflattiva della popolazione carceraria.
I presupposti per l’espulsione previsti dall’art. 16, comma 5, t.u. immigrazione sono cinque: a) lo stato detentivo; b) la durata della pena residua non superiore a due anni; c) l’identificazione certa del soggetto, tanto che, ai sensi del comma 6 del medesimo art. 16, non può procedersi all’espulsione di straniero non identificato; d) il fatto che la pena in corso di espiazione non sia stata irrogata per i delitti previsti dall’art. 12, commi 1, 3, 3-bis e 3-ter dello stesso testo unico, ovvero per uno o più delitti previsti dall’art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, fatta eccezione per quelli consumati o tentati di cui agli artt. 628, terzo comma, e 629, secondo comma, del codice penale; e) infine, l’irregolarità del soggiorno, dovendo lo straniero trovarsi in una delle condizioni previste dall’art. 13, comma 2, t.u. immigrazione, che legittimano l’espulsione amministrativa.
L’istituto ha natura ibrida. Il provvedimento di espulsione, infatti, comportando la sospensione della esecuzione della pena, deve essere adottato dal magistrato di sorveglianza. Il medesimo provvedimento, tuttavia, anticipa l’espulsione amministrativa dovuta alla irregolarità del soggiorno, che in ogni caso colpirebbe l’interessato al termine dell’esecuzione.
I due profili, della incidenza sull’esecuzione della pena e della espulsione amministrativa, si integrano in una fattispecie complessa che può portare alla estinzione della pena. La misura determina, infatti, una sorta di sospensione temporanea della potestà punitiva dello Stato giacché, secondo quanto previsto dall’art. 16, comma 8, t.u. immigrazione, se il cittadino straniero non rientra irregolarmente nel territorio italiano entro il termine di dieci anni, la pena si estingue; in caso contrario, la potestà punitiva si riespande, lo stato di detenzione è ripristinato e l’esecuzione della pena riprende il suo corso.
5.– Questa Corte è già stata chiamata a pronunciarsi sul presunto automatismo espulsivo della misura, del quale venivano denunciati plurimi profili di violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza e di contrasto con l’art. 27, terzo comma, Cost., sul presupposto che l’espulsione dovesse essere ascritta alla sfera dell’esecuzione penale, come misura trattamentale o vera e propria sanzione penale.
All’epoca, questa Corte ritenne le questioni manifestamente infondate per erroneità del presupposto interpretativo, affermando che la misura di cui all’art. 16, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998 ha natura sostanzialmente amministrativa, in quanto presenta elementi comuni alle altre misure espulsive disposte dall’autorità amministrativa (ordinanze n. 422 e n. 226 del 2004).
A tale conclusione si giunse sulla base delle considerazioni che avevano già indotto questa Corte a ritenere di natura amministrativa la diversa misura espulsiva disposta dal giudice della cognizione penale, oggi disciplinata dal comma 1 dello stesso art. 16 t.u. immigrazione, quale sanzione sostitutiva della pena.
A prescindere dalla qualificazione formale come «sanzione» sostitutiva della detenzione, si osservò che la misura solo indirettamente riveste un contenuto afflittivo, posto che il suo effetto tipico si risolve nell’allontanamento dal territorio dello Stato di persone che vi sono entrate o vi si trattengono irregolarmente (ordinanza n. 369 del 1999). La natura amministrativa della misura, pertanto, condusse a distinguerla dalle misure alternative alla detenzione, finalizzate alla rieducazione e risocializzazione del condannato, e a ritenere non pertinente il richiamo all’art. 27, terzo comma, Cost. (ancora, ordinanze n. 422 e n. 226 del 2004).
A fronte di un quadro normativo in parte diverso, d’altra parte, questa Corte aveva già avuto modo di affermare che l’espulsione dello straniero in pendenza di misura cautelare o di esecuzione della pena detentiva, giustificata essenzialmente dall’interesse pubblico alla riduzione dell’affollamento carcerario, non potesse essere valutata in riferimento alla finalità costituzionale della pena, di cui all’art. 27, terzo comma, Cost., proprio perché determina la sospensione del trattamento e riflette la scelta, non arbitraria né palesemente irragionevole del legislatore, di una temporanea astensione dello Stato dalla potestà punitiva, in corrispondenza dell’allontanamento dello straniero dal territorio nazionale (sentenze n. 283 e n. 62 del 1994; ordinanza n. 176 del 1997).
6.– Tale orientamento, consolidato anche nella giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 15 maggio-17 ottobre 2024, n. 38183, e 31 gennaio-31 maggio 2024, n. 21906), va confermato, anche perché il quadro normativo non è sostanzialmente mutato, e anzi si è arricchito di ulteriori garanzie processuali e sostanziali.
6.1.– La natura amministrativa del provvedimento di cui all’art. 16, comma 5, t.u. immigrazione, benché esso sia disposto dal magistrato di sorveglianza, si desume innanzitutto dai rinvii interni che lo stesso art. 16 opera proprio nel comma 5, disposizione censurata, all’art. 13, comma 2, t.u. immigrazione, che disciplina le condizioni di irregolarità del soggiorno, cui consegue l’espulsione amministrativa, e nel comma 9, che rinvia all’art. 19 del medesimo testo unico, non considerato dal rimettente, che vieta l’espulsione nei casi di vulnerabilità oggettiva o soggettiva dell’interessato.
Emergono da tali rinvii gli elementi sostanziali e formali che accomunano l’espulsione in luogo della detenzione, di cui all’art. 16, comma 5, t.u. immigrazione, alle altre forme di espulsione amministrativa: la forma del provvedimento, il decreto motivato; le preclusioni connesse alle già richiamate condizioni di vulnerabilità di cui all’art. 19 t.u. immigrazione; le modalità di esecuzione, affidate non al pubblico ministero, ma al questore, cui spetta disporre l’accompagnamento alla frontiera; gli effetti tipici della misura, ossia l’allontanamento dal territorio nazionale e l’obbligo di non farvi rientro entro un certo termine, anticipando in questo modo un esito che si produrrebbe comunque una volta conclusa l’espiazione della pena.
6.2.– Quanto alle garanzie processuali, esse consistono nel decreto motivato, disposto dal magistrato di sorveglianza ai sensi dell’art. 16, comma 6, t.u. immigrazione, e nel diritto di proporre opposizione al tribunale di sorveglianza, che ha la funzione di assicurare l’esercizio del diritto di difesa e il contraddittorio tra le parti, anche se differito. Inoltre, ai sensi del comma 7 dell’art. 16, l’esecuzione del decreto di espulsione è sospesa fino alla decorrenza dei termini di impugnazione o alla decisione del tribunale di sorveglianza. Lo stato di detenzione permane e l’espulsione non è eseguita sino a quando non siano stati acquisiti i necessari documenti di viaggio.
Come questa Corte ha già chiarito, sussiste l’obbligo di comunicare allo straniero il decreto di espulsione, unitamente all’indicazione delle modalità di impugnazione, in una lingua da lui conosciuta o, ove non sia possibile, in lingua francese, inglese o spagnola (ordinanza n. 226 del 2004).
Rispetto al quadro normativo vigente nel 2004, l’attuale formulazione dell’art. 16, comma 6, t.u. immigrazione ha rafforzato le garanzie difensive connesse al contraddittorio differito. La disposizione ora vigente, risultante dall’art. 6, comma 1, lettera d), del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146 (Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria), convertito, con modificazioni, nella legge 21 febbraio 2014, n. 10, prevede l’obbligo di notificazione del decreto di espulsione anche al pubblico ministero, che è divenuto anch’egli legittimato all’impugnazione, nonché l’obbligo di notificazione al difensore della persona interessata, stabilendo che, se lo straniero non è assistito da un difensore di fiducia, il magistrato provvede alla nomina di un difensore d’ufficio.
6.3.– Quanto alle garanzie sostanziali, questa Corte ha già avuto modo di rilevare che il magistrato di sorveglianza, prima di emettere il decreto di espulsione, è chiamato ad acquisire non solo le informazioni sull’identità e sulla nazionalità dello straniero, ma qualsiasi informazione necessaria o utile al fine di accertare la sussistenza dei presupposti e delle condizioni che legittimano l’espulsione (ordinanze n. 422 e n. 226 del 2004).
Assume particolare rilievo, da questo punto di vista, il già menzionato rinvio che il comma 9 dell’art. 16 opera ai divieti di espulsione per le condizioni di vulnerabilità di cui all’art. 19 t.u. immigrazione. Tali divieti sono stati oggetto di interpretazione estensiva e analogica nella giurisprudenza di legittimità, garantendo, in questo modo, sia il rispetto di diritti e beni costituzionali di cui questa stessa Corte ha imposto l’osservanza in relazione a provvedimenti espulsivi, per esempio del diritto alla salute (sentenza n. 252 del 2001) e della protezione dei legami familiari, in particolare con soggetti minori (sentenza n. 202 del 2013), sia il rispetto delle norme dell’Unione europea, ove applicabili, sia la conformità alle norme convenzionali, in particolare all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in relazione al diritto al rispetto della vita privata e familiare, per come interpretato dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Come ha chiarito da tempo la giurisprudenza di legittimità, sono queste le condizioni che il magistrato di sorveglianza deve rispettare al momento dell’adozione della misura espulsiva e che escludono, per ciò stesso, l’esistenza di qualsivoglia automatismo, richiedendo, invece, una valutazione discrezionale (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 7-26 novembre 2024, n. 43082, 13 gennaio-23 marzo 2022, n. 10296, 21 settembre-5 novembre 2021, n. 39783 e 30 ottobre-13 novembre 2019, n. 45973).
Anche nel giudizio a quo, d’altra parte, il rimettente dà atto delle informazioni acquisite dalla Questura, sicché l’espulsione non porrebbe a rischio di persecuzione la persona condannata, che non ha legami di parentela o di coniugio nel territorio nazionale e non risulta titolare di regolare permesso di soggiorno.
7.– La misura di cui all’art. 16, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998, pertanto, resta, dal punto di vista sostanziale, non equiparabile alle misure alternative alla detenzione previste dall’ordinamento penitenziario. Proprio il fatto che si tratti dell’anticipazione di una misura espulsiva comunque irrogabile una volta concluso il trattamento comporta che essa sia soggetta al medesimo bilanciamento, in relazione alle condizioni personali e familiari dell’interessato, cui è subordinata l’adozione della misura da parte dell’autorità amministrativa. Tale bilanciamento è, peraltro, rafforzato perché è posto direttamente in capo all’autorità giurisdizionale e perché è destinato a operare nel rispetto del contraddittorio processuale, ancorché differito.
Non può, dunque, ritenersi sussistente alcun automatismo espulsivo, dovendo il magistrato di sorveglianza procedere a una ponderazione di interessi quanto agli effetti dell’eventuale espulsione sulle condizioni personali e familiari della persona interessata, la quale, giova ribadirlo, si trova in una condizione che ne imporrebbe, comunque, l’espulsione una volta espiata la pena.
In un ordinamento costituzionale ispirato al principio di libertà, inoltre, come correttamente rileva l’Avvocatura, non trova alcuno spazio un diritto soggettivo del detenuto a rimanere in carcere. L’astensione temporanea dallo Stato dall’esercizio della potestà punitiva comporta la riespansione della libertà personale, e ciò sempre a condizione che non sussistano le condizioni di pericolo di persecuzione, di trattamenti disumani o degradanti e le altre condizioni indicate dall’art. 19 t.u. immigrazione.
8.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998, pertanto, deve essere dichiarata non fondata in riferimento all’art. 27, terzo comma, Cost.