CONSIGLIO DI STATO, SEZ. II – sentenza 27.06.2025 n. 5622
PRINCIPIO DI DIRITTO
La sentenza esprime un orientamento secondo il quale la formazione tacita del silenzio assenso presuppone, quale condizione imprescindibile, non solo il decorso del tempo dalla presentazione della domanda senza che sia presa in esame e sia intervenuta risposta dall’Amministrazione, ma la contestuale presenza di tutte le condizioni, i requisiti e i presupposti richiesti dalla legge, ossia degli elementi costitutivi della fattispecie di cui si deduce l’avvenuto perfezionamento, con la conseguenza che il silenzio – assenso non si forma nel caso in cui la fattispecie rappresentata non sia conforme a quella normativamente prevista: nel caso trattato manca un elemento essenziale: la data di realizzazione dell’intervento da sanare, non potendo operare, conseguentemente l’istituto del silenzio – assenso.
TESTO RILEVANTE DELLE DECISIONE
“Dall’applicazione di tali principi alla vicenda per cui è causa, discende che nella presente fattispecie – come correttamente rilevato dal Giudice di primo grado – non può ritenersi formato alcun silenzio-assenso, essendo la relativa domanda di condono ex lege n. 724/1994 dolosamente infedele quanto a datazione (rectius termine di ultimazione) dell’opera abusiva e cioè con riferimento ad un requisito oggettivo essenziale per l’ammissibilità del condono in base alla predetta legge n. 724/1994 (i.e. ultimazione dell’opera entro il 31 dicembre 1993). Detto elemento (i.e. dolosa falsità della domanda e consequenziale assenza del predetto requisito oggettivo) risulta accertato giudizialmente in via definitiva ed inoppugnabile (e cioè con valenza di “giudicato”) dalla appellata sentenza del T.a.r. Toscana, che – come si è visto – non è stata impugnata sul punto.
Ciò esclude che possa ritenersi formato il silenzio-assenso sulla domanda di condono del dante causa dello stesso appellante Dai requisiti di validità – il cui difetto, come abbiamo visto, non impedisce il perfezionarsi della fattispecie – va distinta l’ipotesi della radicale ‘inconfigurabilità’ giuridica dell’istanza: quest’ultima, cioè, per potere innescare il meccanismo di formazione silenziosa dell’atto, deve essere quantomeno aderente al ‘modello normativo astratto’ prefigurato dal legislatore. Per tali ragioni, il decorso del tempo non potere rilevare ai fini della formazione del silenzio-assenso”.
COMMENTO
La Sezione II del Consiglio di Stato, con sentenza 27 giugno 2025, n. 5622, ha ribadito un consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui non può trovare applicazione l’istituto del “silenzio-assenso” in materia edilizia qualora il privato abbia reso, in modo consapevole, una rappresentazione non veritiera dei fatti, segnatamente in relazione alla data di ultimazione e realizzazione dell’opera. In tal caso, ogni eventuale pretesa sanatoria fondata sull’inerzia dell’Amministrazione risulta priva di fondamento giuridico, restando intatti i poteri della PA di procedere all’annullamento d’ufficio del titolo e all’adozione delle misure sanzionatorie, ivi compreso l’ordine di ripristino dello stato dei luoghi. In presenza di interventi edilizi realizzati in assenza o difformità dal titolo abilitativo, non è configurabile alcun legittimo affidamento meritevole di tutela, né può invocarsi il decorso del tempo quale causa di stabilizzazione della situazione
illecita, permanendo in capo all’Amministrazione il potere-dovere di intervenire per la rimozione dell’abuso. In tale contesto, l’eventuale inottemperanza all’ordine di demolizione, coerentemente con la natura repressiva e ripristinatoria della misura, comporta l’acquisizione gratuita del bene al patrimonio comunale, ai sensi della normativa vigente.
La quivi commentata sentenza di appello si sofferma su una serie di profili e condotte che non esonerano il proprietario dagli obblighi di ripristinare l’abuso e, di converso, l’impossibilità dell’applicazione del silenzio assenso in presenza di una infedele rappresentazione della data di ultimazione dei lavori, osservando che il condono doveva ritenersi non ammissibile, essendo la data di realizzazione dell’immobile successiva alla data “limite” ai fini della possibilità di condonare l’intervento.
Il silenzio assenso e falsa dichiarazione sulla data dell’intervento
In materia di condono edilizio c.d. “straordinario”, ai sensi della legge n. 724 del 1994, si è affermato in via consolidata che la formazione del silenzio-assenso, per effetto del decorso del termine biennale previsto dalla citata normativa, presuppone la sussistenza di tutti i requisiti sostanziali e formali richiesti ai fini dell’accoglibilità dell’istanza. Ne consegue che l’inerzia dell’Amministrazione non può produrre alcun effetto sanante qualora la domanda sia carente dei presupposti oggettivi e/o soggettivi richiesti dalla legge, ovvero risulti affetta da elementi di falsità o reticenza, in particolare con riferimento alla dichiarazione relativa alla data di ultimazione dell’opera, la quale costituisce requisito imprescindibile ai fini dell’ammissibilità della procedura di condono.
In siffatta ipotesi, la carenza dei presupposti legittimanti impedisce ab origine la formazione del titolo abilitativo per silentium, dovendosi escludere qualsivoglia efficacia sanante in capo a istanze connotate da falsità, reticenze o comunque non conformi ai requisiti normativamente prescritti. L’assenza degli elementi essenziali previsti dalla disciplina di settore, in particolare quelli inerenti alla veridicità delle dichiarazioni rese, preclude l’operatività dell’istituto del silenzio-assenso e comporta l’inammissibilità della domanda di sanatoria, non potendo l’inerzia dell’Amministrazione supplire alla mancanza dei presupposti di fatto e di diritto richiesti ex lege.
L’inesatta e consapevolmente mendace rappresentazione dei fatti, con specifico riferimento alla data di ultimazione dei lavori, preclude in modo assoluto la possibilità che possa ritenersi intervenuta la formazione del titolo abilitativo per silentium in relazione all’istanza di condono edilizio, ancor più ove la falsità delle dichiarazioni rese risulti accertata in modo definitivo. In tal caso, non si è al cospetto di una mera irregolarità della domanda, bensì di un vizio radicale che incide sull’ammissibilità stessa dell’istanza, escludendone in radice ogni efficacia.
Di talchè, l’accertata realizzazione dell’intervento edilizio oltre il termine perentorio stabilito ex lege – fissato al 31 dicembre 1993 – comporta l’inammissibilità della domanda per difetto di un presupposto imprescindibile, impedendo in modo strutturale l’attivazione del procedimento di formazione tacita del provvedimento sanante. Trattasi, in tale evenienza, di una ipotesi di inconfigurabilità giuridica della fattispecie sanante, atteso che il superamento del limite temporale previsto dalla normativa sul condono integra un ostacolo normativo insormontabile alla regolarizzazione dell’abuso edilizio mediante il ricorso all’istituto del silenzio-assenso.
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TESTO RILEVANTE DELLE DECISIONE
“Per consolidato orientamento giurisprudenziale (cfr. ex multis Cons. Stato, Sez. II, 22 novembre 2021, n. 7817; Cons. Stato, Sez. VI, 26 marzo 2021, n. 2575), la tutela del legittimo affidamento di colui che abbia ottenuto un atto a esso favorevole, trova applicazione unicamente se il comportamento della parte interessata, nel corso del procedimento di formazione dell’atto (o degli effetti legali discendenti da una dichiarazione o segnalazione), non abbia indotto in errore l’Amministrazione, distorcendo la realtà
fattuale oppure determinando una non veritiera percezione della realtà o della sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge. Nella fattispecie in esame, la falsa (e dolosa) rappresentazione della realtà in ordine alla datazione dell’abuso ha avuto un effetto determinante al fine di indurre l’Amministrazione a ritenere ammissibile la domanda di condono, e ciò è sufficiente a legittimare l’intervento in autotutela del Comune”.
COMMENTO
Legittimo affidamento
Il principio del legittimo affidamento non può essere invocato in presenza di dichiarazioni mendaci, atteso che esso trova applicazione esclusivamente laddove la condotta del privato, nel corso del procedimento amministrativo ovvero nella fase prodromica alla formazione degli effetti giuridici dell’atto, si sia mantenuta conforme a buona fede e correttezza, senza aver indotto in errore l’Amministrazione procedente né alterato la rappresentazione della realtà fattuale o della sussistenza dei presupposti normativi richiesti. In difetto di tali condizioni, e in particolare qualora emerga che la parte abbia dolosamente fornito elementi inesatti o reticenti, deve escludersi in radice l’operatività del legittimo affidamento, venendo meno ogni presupposto idoneo a fondare un’aspettativa giuridicamente tutelabile circa il consolidamento di situazioni di vantaggio ottenute in violazione della normativa vigente.
Depone in tal senso il dato testuale dell’art. 21-nonies, comma 2-bis, della legge n. 241 del 1990 e s.m.i., il quale dispone che i provvedimenti amministrativi ottenuti sulla base di una falsa rappresentazione dei fatti ovvero mediante dichiarazioni sostitutive di certificazione o dell’atto di notorietà false o mendaci, rese attraverso condotte costituenti reato accertate con sentenza passata in giudicato, sono suscettibili di annullamento d’ufficio anche decorso il termine ordinario di dodici mesi previsto dal comma 1 del medesimo articolo, restando peraltro impregiudicata l’applicazione delle sanzioni penali e delle misure sanzionatorie di cui al capo VI del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445. Tuttavia, la previsione dell’accertamento penale definitivo è circoscritta alle ipotesi di mendacio contenuto in dichiarazioni sostitutive, mentre la falsa rappresentazione dei fatti, in quanto tale, è di per sé idonea a legittimare l’esercizio del potere di autotutela, prescindendo dalla sussistenza di una qualificazione penalistica della condotta o dall’intervenuta pronuncia giurisdizionale in sede penale. Ne deriva che l’Amministrazione conserva il potere di annullare in ogni tempo i provvedimenti viziati ab origine per effetto di rappresentazioni non veritiere, ancorché tali comportamenti non siano stati oggetto di accertamento penale definitivo.
In conclusione, nell’ipotesi in cui l’atto amministrativo risulti viziato da una falsa rappresentazione dei fatti, il dies a quo per il computo del termine “ragionevole” entro cui l’Amministrazione può esercitare il potere di annullamento d’ufficio deve individuarsi nel momento in cui la stessa acquisisce piena conoscenza degli elementi di illegittimità che inficiano il provvedimento, e non già dalla sua adozione.
In ambito edilizio, peraltro, la mera risalenza nel tempo dell’abuso non è circostanza idonea a radicare un legittimo affidamento in capo al privato, atteso che la natura abusiva dell’intervento esclude ex se la configurabilità di situazioni giuridiche soggettive meritevoli di tutela. Ne consegue che l’esercizio del potere repressivo, ivi compreso quello sanzionatorio e demolitorio, si configura come doveroso e vincolato, non richiedendosi un’apposita motivazione ulteriore in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico specifico diverso da quello, immanente, al ripristino della legalità violata.
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TESTO RILEVANTE DELLE DECISIONE
“La distinzione tra “proprietario” e “responsabile dell’abuso”, contenuta nel richiamato art. 31, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001, ha indotto la giurisprudenza a ritenere che sia ininfluente l’accertamento della responsabilità del titolare del diritto di proprietà.
In ipotesi di realizzazione di opere edilizie abusive è considerato, in primis, responsabile il proprietario, sebbene non in ragione di una sua responsabilità effettiva o presunta nella commissione dell’illecito edilizio, ma solo in virtù del suo rapporto materiale con la res; grava, infatti, su di lui l’obbligo di collaborazione attiva, tra cui rientra senz’altro la rimozione dell’abuso edilizio, indipendentemente dal fatto che egli fosse o meno responsabile di tale illecito, atteso che la legge “… si limita a prevedere la legittimazione passiva del proprietario non responsabile all’esecuzione dell’ordine di demolizione, senza richiedere l’effettivo accertamento di una qualche sua responsabilità (cfr. Cons. Stato, sez. II, 12 settembre 2019, n. 6147) …” (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 13 gennaio 2020, n. 300).
Al riguardo, giova ribadire che legittimo destinatario dell’ordinanza di demolizione è, di certo, colui il quale, pur non avendo commesso la violazione edilizia, “… si trovi al momento dell’irrogazione in un rapporto diretto con il manufatto illecitamente realizzato, tale da poter ripristinare l’ordine, prima ancora materiale che giuridico, alterato con la sopravvenienza oggettiva di un’opera, priva di un giusto titolo …” (cfr. Cons. Giust. Amm. Regione Sicilia, Sezioni riunite, parere 16 febbraio 2023, n. 81).
Ed ancora rileva, ai fini della definizione della presente controversia, il precedente di Cons. Stato, Sez. VI, 11 dicembre 2018, n. 6983 secondo cui “… l’acquirente dell’immobile abusivo o del sedime su cui è stato realizzato succede in tutti i rapporti giuridici attivi e passivi relativi al bene ceduto facenti capo al precedente proprietario, ivi compresa l’abusiva trasformazione, subendo gli effetti sia del diniego di sanatoria, sia dell’ingiunzione di demolizione successivamente impartita, pur essendo l’abuso commesso prima del passaggio di proprietà (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 10 gennaio 2007, n. 40). …”.
COMMENTO
Autore materiale dell’abuso
L’art. 31, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001 prevede che «Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l’esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell’articolo 32, ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l’area che viene acquisita di diritto, ai sensi del comma 3».
La fonte individua il responsabile dell’abuso, ossia, in primis il destinatario dell’ordinanza di demolizione nella persona del “proprietario”, in virtù del suo diritto dominicale pieno ed esclusivo, risultando il soggetto che ha il potere/dovere di rimuovere concretamente l’abuso, potere/dovere che compete indubbiamente al proprietario, anche se non responsabile in via diretta.
Viene chiarita la responsabilità in capo all’acquirente di un bene immobile, il quale, ove nell’atto di trasferimento sia presente la dicitura di una sanatoria del bene in itinere, e, quindi, non ancora sanata, usando una diligenza media avrebbe potuto e dovuto verificare, mediante un tecnico, la sanabilità stessa, assumendo la consapevolezza della presenza di un abuso non ancora sanato.
A cura di
Avv. Riccardo Lisi