Corte Costituzionale, sentenza 23 aprile 2025, n. 51
PRINCIPIO DI DIRITTO
Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 4, della legge della Regione Lazio 18 luglio 2017, n. 7 (Disposizioni per la rigenerazione urbana e per il recupero edilizio);
Va, altresì, dichiarata inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 4, della legge reg. Lazio n. 7 del 2017, sollevata, in riferimento all’art. 97 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione seconda bis
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il TAR Lazio ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 4, della legge reg. Lazio n. 7 del 2017, in riferimento agli artt. 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lettera p), e sesto comma, e 118 Cost.
Ad avviso del giudice a quo, la disposizione censurata determinerebbe l’«evidente stravolgimento» della funzione pianificatoria comunale in materia urbanistica, l’alterazione del corretto riparto delle rispettive funzioni tra la Regione e i comuni e la lesione dell’autonomia riconosciuta a questi, poiché consentirebbe, in via transitoria, l’esecuzione diretta di interventi di ristrutturazione edilizia con mutamento della destinazione d’uso in deroga alle previsioni dello strumento urbanistico, senza l’intermediazione del permesso di costruire di cui all’art. 14, comma 1-bis, t.u. edilizia e quindi in assenza di una valutazione da parte del Consiglio comunale.
2.– La disposizione censurata si inserisce nell’articolato quadro delle misure con cui la legge reg. Lazio n. 7 del 2017 ha inteso dare attuazione all’art. 5, comma 9, del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70 (Semestre Europeo – Prime disposizioni urgenti per l’economia), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 2011, n. 106, volto a realizzare obiettivi di riqualificazione delle aree urbane degradate.
2.1.– A questo scopo, il legislatore statale ha abilitato le regioni ad approvare «specifiche leggi», con la finalità «di incentivare la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente nonché di promuovere e agevolare la riqualificazione di aree urbane degradate con presenza di funzioni eterogenee e tessuti edilizi disorganici o incompiuti nonché di edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da rilocalizzare, tenuto conto anche della necessità di favorire lo sviluppo dell’efficienza energetica e delle fonti rinnovabili».
La medesima disposizione dell’art. 5, comma 9, del d.l. n. 70 del 2011, come convertito, ha inoltre stabilito che – «per incentivare tali azioni anche con interventi di demolizione e ricostruzione» – le leggi regionali «prevedano: a) il riconoscimento di una volumetria aggiuntiva rispetto a quella preesistente come misura premiale; b) la delocalizzazione delle relative volumetrie in area o aree diverse; c) l’ammissibilità delle modifiche di destinazione d’uso, purché si tratti di destinazioni tra loro compatibili o complementari; d) le modifiche della sagoma necessarie per l’armonizzazione architettonica con gli organismi edilizi esistenti».
Come riconosciuto da questa Corte, l’art. 5, comma 9, del d.l. n. 70 del 2011, come convertito, affida alle Regioni il compito di approvare leggi per incentivare, tra l’altro, la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente, anche mediante la previsione del riconoscimento di una volumetria aggiuntiva come misura premiale. Ciò purché gli interventi non siano riferiti a edifici abusivi, siti nei centri storici o in aree di inedificabilità assoluta, con esclusione dei soli edifici per i quali sia stato rilasciato il titolo abilitativo edilizio in sanatoria: nozione, quest’ultima, da interpretare in senso restrittivo, in coerenza con la terminologia adoperata dal legislatore e con la ratio della normativa (sentenza n. 24 del 2022).
Pertanto, la norma statale in questione – lungi dal prevedere una completa e generalizzata liberalizzazione di interventi di demolizione e ricostruzione degli edifici esistenti con modifica delle destinazioni d’uso preesistenti – ha inteso consentire interventi sul tessuto edilizio esistente all’esclusivo fine di perseguire gli obiettivi di razionalizzazione e riqualificazione di aree urbane degradate.
2.2.– Nell’ambito delle coordinate stabilite dalla legge statale, la legge reg. Lazio n. 7 del 2017 ha quindi dettato «Disposizioni per la rigenerazione urbana e per il recupero edilizio», espressamente volte a «promuovere, incentivare e realizzare, al fine di migliorare la qualità della vita dei cittadini, la rigenerazione urbana intesa in senso ampio e integrato comprendente, quindi, aspetti sociali, economici, urbanistici ed edilizi, anche per promuovere o rilanciare territori soggetti a situazioni di disagio o degrado sociali ed economici […] incentivare la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente, favorire il recupero delle periferie […], aumentare le dotazioni territoriali mediante l’incremento di aree pubbliche […] contenere il consumo di suolo quale bene comune e risorsa non rinnovabile […]; promuovere lo sviluppo del verde urbano» (art. 1, comma 1, lettere a, b, c, f e g).
Per realizzare queste finalità, la stessa legge regionale ha introdotto una serie di misure premiali e di incentivi al rinnovo del patrimonio edilizio che consentono la deroga a determinati standard urbanistici, in funzione della loro idoneità a perseguire obiettivi di riqualificazione delle aree urbane degradate, garantendo al contempo la riduzione del consumo di suolo.
2.3.– Fra le molteplici misure di rigenerazione urbana introdotte dalla legge regionale in esame, nel presente giudizio vengono in rilievo quelle previste dall’art. 4, che detta «Disposizioni per il cambio di destinazione d’uso degli edifici».
Il comma 1 di tale disposizione consente ai comuni di «prevedere nei propri strumenti urbanistici generali, previa acquisizione di idoneo titolo abilitativo di cui al d.p.r. 380/2001, l’ammissibilità di interventi di ristrutturazione edilizia, compresa la demolizione e ricostruzione, di singoli edifici aventi una superficie lorda complessiva fino ad un massimo di 10.000 mq, con mutamento della destinazione d’uso tra le categorie funzionali individuate all’articolo 23 ter del d.p.r. 380/2001 con esclusione di quella rurale». Gli interventi di trasformazione edilizia consentiti dalla disposizione in esame sono quindi limitati a singoli edifici con superficie massima di 10.000 metri quadri, nonché al mutamento di destinazione d’uso tra alcune delle categorie funzionali di cui all’art. 23-ter t.u. edilizia.
La medesima disposizione individua altresì le modalità procedurali da seguire per l’approvazione delle modifiche e integrazioni degli strumenti urbanistici generali, stabilendo che i comuni possano esercitare tale facoltà «con apposita deliberazione di consiglio comunale da approvare mediante le procedure di cui all’articolo 1, comma 3, della l.r. 36/1987», il quale disciplina un procedimento semplificato e accelerato, che prevede – tra l’altro – che il provvedimento di approvazione della modifica e integrazione del piano, dopo essere stato trasmesso alla Regione Lazio, divenga efficace «decorsi quindici giorni senza che siano stati effettuati rilievi».
2.4.– Oggetto delle censure del rimettente è la disposizione del successivo comma 4 dello stesso art. 4, ove si stabilisce che «[n]elle more dell’approvazione della deliberazione del consiglio comunale di cui al comma 1, e comunque non oltre dodici mesi dall’entrata in vigore della presente legge, previa richiesta di idoneo titolo abilitativo edilizio di cui al d.p.r. 380/2001, le disposizioni di cui al presente articolo si applicano agli edifici esistenti legittimi o legittimati purché non ricadenti: a) nell’ambito di consorzi industriali e di piani degli insediamenti produttivi; b) all’interno delle zone omogenee D di cui al decreto del Ministero dei lavori pubblici 1444/1968».
La disposizione censurata subordina dunque l’ammissibilità degli interventi edilizi ivi previsti alla «previa richiesta di idoneo titolo abilitativo edilizio di cui al d.p.r. 380/2001», senza peraltro indicare specificamente, nella vasta gamma di titoli edilizi previsti dal t.u. edilizia, quale sia necessario ai fini della realizzazione degli interventi previsti dal comma 1.
A questo riguardo, il giudice a quo ritiene che, sia pure in via transitoria, l’«idoneo titolo abilitativo edilizio», richiesto dall’art. 4, comma 4, non sia il permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici, di cui all’art. 14, comma 1-bis, t.u. edilizia.
Si tratta di un’interpretazione già sostenuta dalla giurisprudenza amministrativa, la quale ha affermato che per «idoneo titolo abilitativo», di cui alla disposizione censurata, deve intendersi il permesso di costruire ordinario di cui all’art. 10 t.u. edilizia, o la SCIA prevista dagli artt. 22 e 23 del medesimo testo unico (TAR Lazio, n. 10469 del 2021). Questa giurisprudenza, richiamata e condivisa dal giudice a quo, fa leva su una serie di atti della Regione Lazio che avvalorano tale ricostruzione (in particolare, la deliberazione della Giunta regionale 19 dicembre 2017, n. 867, recante «Approvazione circolare esplicativa: “Indirizzi e direttive per l’applicazione delle ‘Disposizioni per la rigenerazione urbana ed il recupero edilizio’ di cui alla legge regionale 18 luglio 2017, n. 7”»; il parere dell’ufficio speciale per la rigenerazione urbana della Regione Lazio del 14 novembre 2019, nonché il successivo parere della direzione regionale per le politiche abitative dell’11 agosto 2022, che richiama la circolare sopra indicata).
Sulla base di tale interpretazione, si può quindi ritenere che la disposizione censurata abbia consentito, in attesa delle delibere di cui al comma 1 e comunque sino al 19 luglio 2018, l’esecuzione degli interventi di trasformazione edilizia di cui si discute in assenza del permesso di costruire in deroga di cui all’art. 14, comma 1-bis, t.u. edilizia e quindi in assenza della delibera del Consiglio comunale.
3.– Ciò premesso, deve essere respinta l’eccezione di inammissibilità sollevata da Roma Capitale.
Ad avviso della difesa comunale, un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata imporrebbe di ritenere che, anche nel periodo transitorio, il titolo abilitativo richiesto fosse il permesso di costruire in deroga.
Tuttavia, per quanto si è osservato al precedente punto 2, l’interpretazione da cui muove il giudice rimettente deve ritenersi corretta.
4.– Sempre in via preliminare, va dichiarata l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 4, della legge reg. Lazio n. 7 del 2017, sollevata in riferimento all’art. 97 Cost.
Nel caso in esame, ancorché sia denunciato il contrasto con plurimi parametri costituzionali (artt. 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lettera p, e sesto comma, e 118 Cost.), la questione sollevata dal giudice a quo appare unitaria, poiché tutte le censure si articolano intorno al profilo della compressione da parte della legge regionale della funzione pianificatoria comunale e, in definitiva, del potere dei comuni di autodeterminarsi in ordine all’assetto e all’utilizzazione del loro territorio.
Tuttavia, tra i plurimi parametri evocati, il riferimento all’art. 97 Cost. non appare correlato alla denunciata limitazione dell’autonomia comunale in materia di pianificazione urbanistica. In effetti, esso risulta estraneo al contenuto delle censure formulate dal rimettente, oltre che incoerente con le motivazioni svolte. La questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all’art. 97 Cost. risulta pertanto inammissibile.
5.– Nel merito, sono fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 4, della legge reg. Lazio n. 7 del 2017, sollevate in riferimento agli artt. 5, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lettera p), e sesto comma, e 118 Cost.
5.1.– Come è noto, fin dalla legge 25 giugno 1865, n. 2359 (Sulle espropriazioni per causa di utilità pubblica), la funzione di pianificazione urbanistica è stata tradizionalmente rimessa all’autonomia dei comuni. Questa attribuzione non è stata modificata dalla successiva evoluzione dell’ordinamento regionale. Infatti, nell’attuare il nuovo Titolo V della Costituzione e nell’esercizio della competenza esclusiva attribuita dall’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., il legislatore statale ha qualificato come funzioni fondamentali dei comuni «la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale» (art. 14, comma 27, lettera d, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, recante «Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica», convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n. 122).
Pertanto, come riconosciuto da questa Corte, con l’art. 14, comma 27, lettera d), del d.l. n. 78 del 2010, come convertito, «[i]l legislatore statale ha […] sottratto allo specifico potere regionale di allocazione ai sensi dell’art. 118, secondo comma, Cost. la funzione di pianificazione comunale, stabilendo che questa rimanga assegnata, in linea di massima, al livello dell’ente più vicino al cittadino, in cui storicamente essa si è radicata come funzione propria, e l’ha riconosciuta come parte integrante della dotazione tipica e caratterizzante dell’ente locale» (sentenza n. 179 del 2019).
Va inoltre rammentato che la funzione di pianificazione comunale rientra in quel nucleo di funzioni amministrative intimamente connesse al riconoscimento del principio dell’autonomia dei comuni e non può essere oltre misura compressa dal legislatore regionale, fino al punto da negarla. La competenza legislativa regionale in materia urbanistica, dunque, «non può mai essere esercitata in modo che ne risulti vanificata l’autonomia dei comuni» (sentenze n. 70 e n. 17 del 2023, n. 202 del 2021, n. 179 del 2019 e n. 83 del 1997).
5.2.– Questa Corte ha peraltro affermato che l’autonomia comunale «non implica una riserva intangibile di funzioni, né esclude che il legislatore competente possa modulare gli spazi dell’autonomia municipale» (sentenze n. 70 e n. 17 del 2023, n. 202 del 2021, n. 179 del 2019, n. 160 del 2016 e n. 378 del 2000). È stato escluso che il sistema di pianificazione assurga a principio così assoluto e stringente da impedire alla legge regionale – fonte normativa primaria sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici locali – di prevedere interventi in deroga a tali strumenti (sentenze n. 119 del 2024, n. 202 e n. 124 del 2021, n. 119 del 2020, n. 179 del 2019, n. 245 del 2018 e n. 46 del 2014).
Infatti, «il rispetto delle autonomie comunali deve armonizzarsi con la verifica e la protezione di concorrenti interessi generali, collegati ad una valutazione più ampia delle esigenze diffuse nel territorio: ciò giustifica l’eventuale emanazione di disposizioni legislative (statali e regionali) che vengano ad incidere su funzioni già assegnate agli enti locali» (sentenza n. 378 del 2000, richiamata dalle successive sentenze n. 142 del 2024, n. 202 del 2021, n. 179 del 2019, n. 126 del 2018 e n. 478 del 2002).
Invero, come più volte sottolineato dalla giurisprudenza di questa Corte, la pianificazione territoriale non è funzionale solo all’interesse all’ordinato sviluppo edilizio, ma è volta anche al contemperamento di una pluralità di differenti interessi pubblici, incidenti sul medesimo territorio, che trovano il proprio fondamento in principi costituzionali (sentenze n. 142 del 2024, n. 219 e n. 202 del 2021 e similmente sentenze n. 90, n. 19 e n. 17 del 2023 e n. 229 del 2022).
Nell’esercizio delle funzioni fondamentali di pianificazione urbanistica, l’autonomia comunale può quindi essere compressa per esigenze di tutela di interessi generali che richiedano di essere curati a un livello territoriale più ampio.
La funzione pianificatoria spetta al comune, ma può essere attribuita ad altri livelli di governo in ragione della dimensione sovracomunale dell’interesse tutelato e delle sue esigenze di protezione unitaria (sentenza n. 179 del 2019). La dialettica istituzionale sottesa al principio di sussidiarietà verticale impone di valutare, nell’ambito della funzione pianificatoria attribuita ai comuni, «quanto la legge regionale toglie all’autonomia comunale e quanto di questa residua, in nome di quali interessi sovracomunali attua questa sottrazione, quali compensazioni procedurali essa prevede e per quale periodo temporale la dispone» (sentenze n. 119 del 2020 e n. 179 del 2019).
Le leggi regionali che comportino deroghe al principio di pianificazione sono dunque soggette a un giudizio di proporzionalità con riguardo all’adeguatezza e necessarietà della limitazione imposta all’autonomia comunale in merito a una funzione amministrativa che il legislatore statale ha individuato come connotato fondamentale dell’autonomia stessa.
5.3.– Occorre ora valutare se la disposizione censurata incida sulla funzione di pianificazione urbanistica e se, in tal caso, l’incidenza sia proporzionata.
Per il primo profilo, la disposizione censurata certamente condiziona la potestà pianificatoria comunale.
Nelle more dell’adozione delle delibere di adeguamento dei piani urbanistici, l’art. 4, comma 4, della legge reg. Lazio n. 7 del 2017 consente interventi di ristrutturazione con mutamento di destinazione d’uso senza necessità di ricorrere al permesso di costruire in deroga e quindi in assenza di una verifica in sede consiliare in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico da ritenere prevalente sulle previsioni dello strumento urbanistico.
Nel procedimento per il rilascio del permesso di costruire in deroga di cui all’art. 14-bis t.u. edilizia, la delibera del Consiglio comunale rappresenta infatti un momento essenziale: è in questa sede che si colloca la valutazione circa l’opportunità di consentire lo scostamento dalla disciplina del piano regolatore o dei piani attuativi. A tale riguardo, questa Corte ha recentemente riconosciuto che, nell’ambito dell’apposito procedimento previsto dall’art. 14, comma 1-bis, t.u. edilizia, il Consiglio comunale attesta che la «realizzazione [dello specifico intervento] è diretta a soddisfare un interesse pubblico che si ritiene prevalente, a determinate condizioni, rispetto all’assetto generale definito dal piano» (sentenza n. 142 del 2024).
La mancata previsione nella disposizione censurata dello strumento del permesso di costruire in deroga comporta dunque la sottrazione degli interventi di trasformazione edilizia, previsti dal comma 1 dell’art. 4 in esame, alla essenziale verifica del Consiglio comunale in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico che giustifichi scelte diverse da quelle previste dal piano.
5.4.– Si può passare quindi alla valutazione concernente la proporzionalità.
Ebbene, sotto tale profilo, le misure di semplificazione derogatoria previste dalla disposizione censurata incidono in modo sproporzionato e pertanto illegittimo sulla funzione fondamentale dei comuni in materia di pianificazione urbanistica. A tale conclusione si giunge considerando tale disposizione nel contesto della legge regionale in cui essa è inserita.
Va evidenziato, innanzitutto, il nesso tra il comma 4 e il comma 1 dell’art. 4 della legge reg. Lazio n. 7 del 2017. L’ultima disposizione riconosce ai comuni la facoltà di regolare nei propri strumenti urbanistici nuove possibilità edificatorie con mutamento della destinazione d’uso. Tuttavia, è stato lo stesso legislatore regionale a imporre, come si è visto, la relativa procedura, nonché i contenuti, gli scopi e i limiti entro i quali può essere esercitata tale facoltà.
La disposizione censurata ha inciso in modo ancora più penetrante nella potestà pianificatoria, poiché ha esautorato i Consigli comunali, sia pure in via temporanea, da qualsiasi valutazione dell’interesse pubblico sotteso alla realizzazione degli interventi edilizi richiesti.
Va inoltre considerato il rapporto tra la disposizione censurata e le finalità generali proprie della legge reg. Lazio n. 7 del 2017.
L’obiettivo specifico perseguito dal legislatore regionale con l’art. 4, comma 4, di tale legge è quello di accelerare il processo di attuazione a livello municipale delle finalità di rigenerazione del tessuto urbano, stimolando le amministrazioni comunali a modificare tempestivamente i loro strumenti urbanistici per adeguarli alle disposizioni impartite dal legislatore regionale.
Tuttavia, durante il periodo transitorio, l’evidenziata sottrazione di determinanti interventi di trasformazione edilizia alla valutazione del Consiglio comunale comporta il rischio di un aumento incontrollato del carico urbanistico e degli insediamenti abitativi.
Ciò risulta distonico rispetto a quelle stesse finalità generali che la legge regionale – in dichiarata attuazione dei principi posti dal d.l. n. 70 del 2011, come convertito – ha esplicitato. Come si è visto in precedenza, tale legge intende, infatti, realizzare una rigenerazione urbana «intesa in senso ampio e integrato», comprendente non solo aspetti edilizi e urbanistici, ma anche profili economici e sociali, con l’obiettivo di «aumentare le dotazioni territoriali mediante l’incremento di aree pubbliche», di «promuovere lo sviluppo del verde urbano», nonché di «rilanciare territori soggetti a situazioni di disagio o degrado sociali ed economici».
La disposizione in esame non si rivela idonea a conseguire tali finalità generali: essa, infatti, consente deroghe che possono vanificare la valenza sociale dell’intervento legislativo. Ciò è particolarmente evidente nel caso di specie, in cui si tratta di realizzare due ville adibite a uso residenziale in un’area destinata dal piano regolatore generale a «verde e servizi pubblici locali».
5.5.– In definitiva, ancorché in via temporanea, la disposizione in esame priva i Consigli comunali di un effettivo spazio di decisione e di controllo in ordine all’ammissibilità di interventi di trasformazione edilizia in deroga alle previsioni del piano, anche in contrasto con la menzionata finalità generale della legge regionale di pervenire a una rigenerazione urbana attenta a esigenze sociali.
Tutto ciò comporta l’illegittima lesione dell’autonomia comunale presidiata dagli artt. 5, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lettera p), e sesto comma, e 118 Cost.