Tribunale di Messina, Sezione I, sentenza 09 marzo 2025 n. 439
PRINCIPIO DI DIRITTO
Va ripartito l’onere della prova della violazione dei doveri coniugali e del rapporto diretto tra il comportamento posto in essere dal coniuge e il generarsi dello stato di intollerabilità della prosecuzione della convivenza, sotto il profilo processuale, in base alla regola generale posta dall’art. 2697 c.c., cosicchè grava sul coniuge che richiede l’addebito; mentre grava sull’altro coniuge la prova di quei fatti che possano privare di rilevanza i fatti allegati dalla parte istante, come per esempio, la non anteriorità del comportamento adottato rispetto al verificarsi dell’effettiva crisi coniugale.
Quanto all’affidamento del figlio minore la legge n. 54 dell’8.02.2006, contenente “disposizioni in materia di separazione dei genitori ed affidamento condiviso dei figli”, ha stabilito il principio che pure nella disgregazione del nucleo familiare, al minore spetta il diritto alla “bigenitorialità”, già previsto dall’art. 9 della Convenzione internazionale di Ginevra del 20.11.1989 sui diritti dei minori, nonché il diritto alla conservazione da parte del minore di rapporti significativi anche con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
[…]
Ritiene il Collegio che alla luce delle risultanze processuali, vada pronunciata la separazione personale dei coniugi.
Invero, ai sensi dell’art. 151 c.c., la pronuncia della separazione giudiziale non è vincolata a presupposti tassativi e specifici, ma è, piuttosto, collegata all’accertamento dell’esistenza di fatti che rendono intollerabile per i coniugi la prosecuzione della convivenza, e della sussistenza di fatti obiettivamente apprezzabili e, quindi, giuridicamente controllabili, che rendono intollerabile la prosecuzione della convivenza, diviene, pertanto, il presupposto della separazione, anche quando il comportamento non sia direttamente imputabile alla condotta dell’uno o dell’altro coniuge (Cass. 10.06.1992 n. 7148).
Ove tale situazione di intollerabilità si verifichi, anche rispetto ad un solo coniuge, deve ritenersi che questi abbia diritto a chiedere la separazione, con la conseguenza che la relativa domanda costituisce esercizio di un suo diritto (Cass. Civ., sez. I, sentenza 30 gennaio 2013 n. 2183).
I fatti desunti dalla trattazione della causa dimostrano in modo inequivocabile che la prosecuzione della convivenza è divenuta ormai da tempo intollerabile ex art. 151, primo comma, c.c..
Infatti, in una doverosa visione evolutiva del rapporto coniugale, in base a tutti gli elementi di conoscenza disponibili, ivi compreso il comportamento processuale delle parti, può serenamente affermarsi l’esistenza, in entrambi i coniugi, di una condizione di disaffezione al matrimonio tale da rendere incompatibile, allo stato, pure a prescindere da elementi di addebitabilità da parte di uno o dell’altro, la convivenza e le risultanze del tentativo di conciliazione.
Invero, è certa la comune volontà dei coniugi di pervenire ad una disgregazione del nucleo familiare, posto che entrambi hanno sul punto rassegnato conclusioni conformi ed in sede di udienza presidenziale è emerso chiaramente come il contenuto del rapporto coniugale fosse già da tempo inidoneo a realizzare la personalità dell’una o dell’altro.
Va, dunque, pronunciata la separazione personale come richiesta sia dalla ricorrente che dal resistente.
Riguardo alla domanda di addebito formulata dalla ricorrente, si deve premettere che, pur essendo la obiettiva impossibilità di continuare la convivenza il presupposto fondamentale per la separazione personale dei coniugi, nondimeno, l’esistenza di comportamenti contrari ai doveri coniugali acquista rilievo, ai sensi del 2° comma dell’art. 151 c.c., al fine della pronuncia di addebito, ove venga formulata apposita domanda dalla parte interessata.
La dottrina dominante e la costante giurisprudenza della Suprema Corte hanno sottolineato che il legislatore ha voluto in tal modo attribuire rilievo, in modo autonomo rispetto alla pronuncia di separazione (vedi in tal senso Cass. civ. sez. un. 3.12.2001 n. 15248), alla presenza di situazioni di grave colpa di uno dei coniugi, derivanti da violazioni notevoli e coscienti dei doveri matrimoniali, che abbiano costituito la causa della intollerabilità della convivenza.
Inoltre l’addebito non è fondato sulla mera inosservanza dei doveri che l’art. 143 c.c. pone a carico dei coniugi, ma sulla effettiva incidenza di detta violazione nel determinarsi della situazione di intollerabilità della convivenza (Cass. 20.12.1995 n. 13021; Cass. 12.01.2000 n. 279).
Sotto il profilo processuale, in base alla regola generale posta dall’art. 2697 c.c., l’onere di provare la violazione dei doveri coniugali ed il rapporto diretto tra il comportamento posto in essere dal coniuge e il generarsi dello stato di intollerabilità della prosecuzione della convivenza grava sul coniuge che richiede l’addebito; mentre grava sull’altro coniuge la prova di quei fatti che possano privare di rilevanza i fatti allegati dalla parte istante, come per esempio, la non anteriorità del comportamento adottato rispetto al verificarsi dell’effettiva crisi coniugale.
Nella fattispecie in esame, nondimeno, la ricorrente non ha dimostrato il nucleo fondamentale delle sue accuse e non vi sono elementi per ritenere che la disgregazione della unità familiare sia stata una conseguenza del disinteresse del marito per le esigenze della moglie e dei figli.
Di conseguenza, la domanda di addebito della separazione proposta da (omissis) va rigettata.
Va, invece, dichiarata inammissibile la domanda di addebito della separazione proposta da (omissis).
Invero, non è chiaro se il resistente abbia inteso proporre domanda di addebito della separazione a carico della moglie, essendosi limitato a chiedere che si prendessero in esame le condotte tenute dalla moglie “ai fini dell’addebito” senza però chiarire se con tale espressione intendesse richiedere esclusivamente il rigetto della domanda di addebito della separazione proposta dalla controparte o chiedere a sua volta, in via riconvenzionale, l’addebito della separazione a carico della moglie.
In ogni caso, una eventuale domanda riconvenzionale di addebito della separazione sarebbe inammissibile, il quanto il resistente non si è costituito nel termine di trenta giorni prima dell’udienza, prescritto dall’art. 473 bis .16 c.p.c. per la rituale proposizione di domande riconvenzionali.
Non vale, poi, sottolineare che i fatti dai quali poteva desumersi la violazione dei doveri coniugali da parte della moglie erano stati da lui appresi solo recentemente, poiché, a prescindere dal fatto che di ciò non è stata fornita alcuna prova, in ogni caso, il principio che l’addebitabilità della separazione può essere pronunciata anche per fatti sopravvenuti o comunque conosciuti nel corso del giudizio di separazione, non esclude il rispetto delle norme processuali, con la conseguenza che tali fatti possono acquistare rilievo solo se la richiesta di addebito sia stata proposta tempestivamente (Cass. civ. Sez. 1, Sentenza 1919 del 22.03.1984).
Quanto all’affidamento del figlio minore (omissis) nato a (omissis) P.G. (omissis) il (omissis), si deve premettere che la legge n. 54 dell’8.02.2006, contenente “disposizioni in materia di separazione dei genitori ed affidamento condiviso dei figli”, ha stabilito il principio che pure nella disgregazione del nucleo familiare, al minore spetta il diritto alla “bigenitorialità”, già previsto dall’art. 9 della Convenzione internazionale di Ginevra del 20.11.1989 sui diritti dei minori, nonché il diritto alla conservazione da parte del minore di rapporti significativi anche con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale.
Coerentemente con il suddetto principio, l’art. 337 ter c.c. prevede in via generale che “il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”.
Il comma 2° dell’art. 337 ter stabilisce, poi, che il (omissis) nell’adottare i provvedimenti relativi alla prole “valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori […].
Prende atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori. Adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole”.
Nella valutazione dell’interesse morale e materiale della prole, il legislatore ha, pertanto, eliminato l’assoluta discrezionalità che esisteva precedentemente in materia ed ha imposto al (omissis) uno specifico obbligo di motivazione non più solo in positivo sulla idoneità del genitore affidatario, ma anche in negativo o sulla inidoneità educativa del genitore che in tal modo si escluda dal pari esercizio della potestà genitoriale o, comunque, sulla non rispondenza all’interesse del figlio dell’adozione, nel caso concreto, del modello legale prioritario di affidamento (Cass. civ., Sez. I, 18.06.2008, n. 16593).
La differenza tra l’affido condiviso e quello monogenitoriale si coglie, essenzialmente, nella maggiore elasticità e continuità di rapporti tra genitori e figli e nella corresponsabilizzazione dei genitori, i quali devono riuscire ad adottare, nella educazione dei figli minori, una linea comune e devono impegnarsi a realizzarla entrambi.
Nel caso in esame non sono emersi elementi che inducano ad escludere l’affidamento condiviso del figlio, conformemente, peraltro alle richieste di entrambe le parti e, ed in simili casi, non emergendo un concreto pregiudizio per la prole, occorre salvaguardare il diritto del figlio ad avere due genitori.
Nelle decisioni concernenti l’affidamento della prole occorre, infatti, avere riguardo in modo esclusivo “all’interesse morale e materiale” dei figli.
La decisione del giudice non è, infatti, un “premio” dato ad uno dei genitori ed una “punizione” o, peggio ancora, un “ammonimento” per l’altro, ma è rivolta a disegnare un nuovo assetto di relazioni in conseguenza della disgregazione della società familiare, cercando di evitare che la patologia della coppia si risolva in un pregiudizio per gli incolpevoli figli.
Naturalmente, anche nel regime dell’affido condiviso occorre individuare la domiciliazione privilegiata della prole presso uno dei due genitori, al fine di assicurare la stabilità dei rapporti familiari e la continuità dell’habitat domestico, indispensabili per una crescita serena ed equilibrata.
È pacifico, d’altronde, che l’affido condiviso non determina una parificazione circa modalità e tempi di svolgimento del rapporto tra i figli e ciascuno dei genitori. Nel caso in esame appare opportuno domiciliare il figlio minore presso il padre, avendo lo stesso ragazzo affermato con fermezza di volere continuare a vivere con il padre.
(omissis), il minore è ormai adolescente e le sue opinioni, come previsto dall’art. 473 bis .4 comma 1 c.p.c., devono essere tenute in considerazione, provenendo da un soggetto maturo e consapevole, mentre non sono stati allegati elementi di alcun tipo per potere presumere che tale domiciliazione possa essere pregiudizievole per il figlio o che il padre non sia in grado di accudire il figlio, avendo, peraltro il (omissis) mostrato in sede di audizione si essere attento e preoccupato per il disagio mostrato dal figlio a seguito della separazione dei genitori.
Quanto ai rapporti tra madre e figlio, non sembra che sia necessario dettare una disciplina dettagliata, in quanto il figlio appare in grado di gestire in via autonoma la relazione con entrambi i genitori, sicché appare sufficiente specificare che il figlio potrà stare con la madre nei fine settimana a settimane alterne ed almeno un pomeriggio infrasettimanale ogni settimana.
In ogni caso, nello spirito dell’affidamento condiviso, le parti potranno sempre concordare modalità di incontro diverse da quelle stabilite, ove ritenute più rispondenti alle esigenze dei coniugi e del figlio.
Quanto al mantenimento dei figli, è pacifico che tanto il figlio maggiorenne (omissis) nato a (omissis) P.G. (omissis) il (omissis), quanto il figlio minorenne (omissis) nato a (omissis) P.G. (omissis) il (omissis) hanno diritto ad essere mantenuti dai genitori, non avendo una loro autonomia economica ed essendo entrambi impegnati negli studi. Si deve, poi, tenere in considerazione che il figlio maggiorenne (omissis) ha espresso l’intenzione di continuare a vivere con la madre.
Ciò premesso, costituisce principio consolidato in giurisprudenza che, in seguito alla separazione, la prole, anche dopo il raggiungimento della maggiore età, ha diritto ad un mantenimento tale da garantire un tenore di vita corrispondente alle risorse economiche della famiglia ed analogo, per quanto possibile, a quello goduto in precedenza (Cass. 2000 15065; 1993 n. 3363).
Il mantenimento, infatti, mira a rendere omogeneo lo standard di vita dei genitori e dei figli, integrando in una comune condizione economico-sociale le persone legate dal rispettivo diritto e obbligo; ciò spiega anche perché il diritto al mantenimento sorga al momento stesso in cui nasce il rapporto familiare su cui si fonda, tenuto conto che il fatto stesso della procreazione determina l’impegno e la responsabilità del genitore verso la prole, i quali prescindono dai rapporti d’affetto che in concreto si instaurano con il genitore o dalla disponibilità delle parti ad instaurarli (Cass. civ. 09.-04.2010 n. 9300).
La costante giurisprudenza della Suprema Corte ha sostenuto, poi, che il principio generale di tutela della prole, desumibile da varie norme dell’ordinamento (art. 30 cost., art. 147,315 bis, 316 bis, 337 ter, 337 septies c.c.), porta ad assimilare la posizione del figlio divenuto maggiorenne, ma tuttora dipendente non per sua colpa dai genitori, a quella del figlio minore.
Per quanto concerne le modalità con le quali entrambi i genitori devono provvedere al mantenimento della prole, il legislatore ha stabilito nell’art. 337 ter c.c., che, “salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito” ed ha, quindi, indicato i criteri che il (omissis) deve seguire nel determinare la misura dell’assegno periodico, tra i quali vengono in considerazione le “esigenze del figlio”, “i tempi di permanenza presso ciascun genitore” e “la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore”.
Occorre, pertanto, analizzare tutti gli elementi concreti rivelatori della capacità economica dei coniugi, posto che il principio di proporzionalità impone di effettuare una valutazione comparata dei redditi di entrambi i genitori, ma l’esame delle risorse economiche dei genitori va effettuato in relazione alle esigenze attuali dei figli ed al tenore di vita da questi goduto, tenendo conto del contesto sociale di appartenenza dei figli e delle loro abitudini di vita ( Civ., Sez. I, ord. 26 gennaio 2024 n. 2536, Cass. Civ. Sez. I, Ord. 11 dicembre 2023, n. (omissis); Corte di Cass. n. 4811/2018).
Sennonché, nel caso in esame, vivendo un figlio con un genitore e l’altro figlio con l’altro genitore, ciascuno provvederà in via diretta al soddisfacimento delle esigenze del figlio con lui convivente e sarà tenuto a contribuire al mantenimento del figlio convivente con l’altro genitore.
La misura di tale contributo a carico di ciascun genitore ed a favore dell’altro, tenuto conto dei criteri sopra indicati, deve essere determinata in una somma di denaro pressoché equivalente per entrambi i genitori, poiché si può presumere che le esigenze di ciascuno dei figli siano in qualche modo simili ed anche i redditi delle parti sostanzialmente si equivalgono.
[…] sicché, facendo la media dei redditi degli ultimi tre anni, risulta che la situazione economica dei coniugi è quasi uguale.
Considerato, allora, che ciascuna parte dovrebbe corrispondere all’altro genitore un assegno di importo uguale a quello che avrebbe diritto a ricevere, appare preferibile stabilire che ciascun genitore provvederà in via esclusiva alle esigenze del figlio con lo stesso convivente.
Quanto all’assegnazione della casa coniugale, l’art. 337 sexies considera prioritario ai fini del godimento del suddetto bene l’interesse dei figli, compresi quelli maggiorenni ma ancora non autonomi, a non interrompere, a causa della separazione dei genitori, quel vincolo intimo con l’habitat dell’ambiente domestico, da intendersi come il centro degli affetti, degli interessi e delle consuetudini in cui si esprime e si articola la vita familiare (Cass., n. 14348/2012) e la relativa pronuncia, in quanto finalizzata alla tutela dell’interesse della prole, di rilevanza pubblicistica, non richiede neppure una specifica domanda di parte (Cass. civ. 11.04.2000 n. 4558).
Ai fini dell’assegnazione della casa coniugale non può, invece, rilevare l’eventuale situazione di disagio patito da uno dei coniugi o che conseguirebbe all’assegnazione della casa all’altro coniuge, poiché è pacifico che il provvedimento di assegnazione della casa coniugale non può avere una finalità di riequilibrio economico ed una funzione assistenziale per il coniuge economicamente più debole (Cass. civ. 01.08.2013 18440).
Orbene, ritiene il collegio che la soluzione preferibile sia quella di assegnare la casa coniugale al (omissis) con il quale vivrà il figlio minorenne (omissis) poiché l’interesse del figlio minore a permanere in detta casa appare più pregnante rispetto all’analogo interesse del figlio maggiorenne (omissis) tenuto conto non solo della minore età del primo, ma anche del fatto che il figlio (omissis) ormai è proiettato verso un futuro lontano da (omissis) avendo espresso il desiderio di continuare gli sudi presso il (omissis) di (omissis) sicché appare evidente che per lui il legame con la casa nella quale è cresciuto non assume uno specifico rilievo, mentre per il figlio (omissis) detta abitazione è non solo il luogo ove è cresciuto, ma anche il luogo dove ha gli amici e dove mantiene tutte le relazioni più significative.
Naturalmente il provvedimento di assegnazione della casa coniugale comprende anche l’assegnazione degli arredi, trattandosi di una statuizione inscindibilmente legata alla prima, diretta ad assolvere l’identica funzione di assicurare alla prole la continuità dell’habitat domestico.
Appare, infine, equo compensare interamente tra le parti le spese processuali, tenuto conto della natura della controversia, della soccombenza reciproca e della difficile prevedibilità dell’esito della lite in relazione alla complessità della situazione di fatto ed alla sua mutevolezza nel tempo.