Consiglio di Stato, Sezione IV, sentenza 13 maggio 2025 n. 4103
PRINCIPIO DI DIRITTO
Il provvedimento di convalida agisce esclusivamente sulla fattispecie (e solo mediatamente sul piano della validità) e non già sugli effetti (che rimangono integralmente riconducibili all’atto convalidato), per cui appare, invero, chiaro che gli effetti dell’atto convalidato sono idonei a consolidarsi fin dall’inizio per la circostanza che, una volta intervenuta la sanatoria (che giuridicamente opera ex nunc), gli effetti già prodotti dall’atto annullabile — precari fino all’intervenuta convalida —, non risultano più rimuovibili per il fatto dell’invalidità.
Ne discende che la convalida non costituisce un “nuovo” provvedimento valido sostitutivo del precedente invalidamente adottato, bensì un atto che, perfezionando la fattispecie dell’atto annullabile, ne previene l’annullamento, dotando in tal modo di stabilità gli effetti (precari) medio tempore prodottisi.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- In via generale, rileva il Collegio che il potere di convalida è espressione, nel contesto dei poteri amministrativi di secondo grado, del canone ermeneutico di c.d. conservazione dei valori (atti ed effetti) giuridici, il quale, ricollegandosi ai più generali principi di buon andamento ed economia procedimentale, esprime la preferenza accordata dall’ordinamento all’opzione conservativa, rispetto a quella eliminatoria.
1.1. La potestà in oggetto è, dunque, da ritenersi alternativa all’annullamento d’ufficio , come testimonia la comune collocazione sistematica di entrambi gli istituti all’interno dell’art. 21-nonies l. n. 241/1990 , il quale ha dotato la figura in esame di un più solido fondamento legale, superando per tabulas le precedenti ricostruzioni che la ritenevano implicita nella capacità generale di autotutela .
1.2. Per quanto scarna, la proposizione normativa delinea la convalida come un istituto di carattere generale, volto a rendere l’atto stabile a tutti gli effetti per i quali è preordinato, ogniqualvolta il pubblico interesse ne richieda il consolidamento.
1.3. Sotto altro profilo, la collocazione della norma nel medesimo articolo dedicato all’annullamento d’ufficio, conferma la comune ambientazione dei due istituti nell’ambito dell’autotutela.
1.4. Tale collocazione sistematica appare altresì espressiva di un principio di preferenza per la scelta amministrativa volta alla correzione e alla conservazione ‒ ove possibile ‒ di quanto precedentemente disposto, rispetto all’opzione eliminatoria.
1.5. La convalida del provvedimento amministrativo deve, dunque, ritenersi, da un punto di vista di teoria generale, più correttamente espressione di un potere di “sanatoria” dell’atto invalido, in quanto essa opera, quale proprio effetto tipico, il consolidamento degli effetti (precari, in quanto rimuovibili) prodotti dalla fattispecie dell’atto annullabile, mutandone il modello di operatività secondo una nuova fattispecie (sussidiaria e necessariamente complessa) di validità (in quanto tale, produttiva di effetti non rimuovibili mediante l’annullamento o l’auto-annullamento).
1.6. Sotto tale profilo, come rilevato dalla più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, la convalida non determina una modificazione strutturale del provvedimento viziato (non configurabile neppure logicamente, essendosi la fattispecie stessa già integralmente conclusa), bensì il sorgere di una fattispecie complessa, derivante dalla « saldatura » con il provvedimento convalidato, fonte di una sintesi effettuale autonoma (Consiglio di Stato, Sez. VI, 27 aprile 2021, n. 3385).
1.7. Una volta acclarato che il provvedimento di convalida agisce esclusivamente sulla fattispecie (e solo mediatamente sul piano della validità) e non già sugli effetti (che rimangono integralmente riconducibili all’atto convalidato), appare, invero, chiaro che gli effetti dell’atto convalidato sono idonei a consolidarsi fin dall’inizio per la circostanza che, una volta intervenuta la sanatoria (che giuridicamente opera ex nunc), gli effetti già prodotti dall’atto annullabile — precari fino all’intervenuta convalida —, non risultano più rimuovibili per il fatto dell’invalidità.
1.8. Ne discende che la convalida non costituisce un “nuovo” provvedimento valido sostitutivo del precedente invalidamente adottato, bensì un atto che, perfezionando la fattispecie dell’atto annullabile, ne previene l’annullamento, dotando in tal modo di stabilità gli effetti (precari) medio tempore prodottisi.
1.9. Sul piano funzionale, la convalida è preordinata alla cura del pubblico interesse a dare stabilità e sicurezza a un atto invalido, in quanto la situazione, che da esso è derivata, ne richiede appunto il consolidamento. […]
- L’art. 21-nonies prevede che l’esercizio del potere di convalida avvenga entro un “termine ragionevole”.
2.1. Tale previsione, con riferimento al potere di convalida, solleva alcune perplessità, prontamente rilevate dalla dottrina più attenta, se non altro in virtù del rilievo che, contrariamente a quanto accade in relazione al provvedimento di annullamento (nel quale può registrarsi una contrapposizione di interessi tra l’amministrazione che intende rimuovere l’atto e l’affidamento del destinatario nel mantenimento dell’atto a lui favorevole), nel caso della convalida entrambe le parti sono interessate ad una soluzione conservativa.
2.2. Solo nel caso dell’annullamento d’ufficio ha, quindi, senso circoscrivere temporalmente la ritrattabilità dell’atto da parte dell’amministrazione (autotutela demolitoria), a protezione dell’affidamento del privato, posto che nel caso della convalida l’interesse alla stabilizzazione dell’atto, attraverso la sanatoria dell’invalidità (autotutela conservativa), permane comunque, anche una volta superato il termine ragionevole.
2.3. Per emendare tale criticità, parte della dottrina suggerisce di intendere, nel caso della convalida, il riferimento al termine ragionevole non già quale prescrizione a pena di “decadenza” dal potere, bensì quale intimazione a rimuovere la condizione di precarietà dell’atto con la massima celerità possibile, in funzione della particolarità della vicenda concreta.
2.4. In ogni caso, anche a prescindere dalle precedenti considerazioni, il Collegio osserva che sotto il profilo temporale, nella vicenda in esame sussistono profili tali da giustificare l’adozione dell’atto di convalida dopo più di tre anni dal rilascio del provvedimento assoggettato al potere di riesame, venendo in rilievo una fattispecie di inesatta rappresentazione della realtà da parte del privato che, ai sensi dell’art. 21-nonies, l. n. 241 cit., consente all’Amministrazione di intervenire in autotutela anche dopo lo spirare del termine ragionevole fissato dalla legge.
2.5. Infatti, a fronte di una falsa, infedele, erronea o inesatta rappresentazione della realtà da parte dell’interessato, l’interesse pubblico all’eliminazione di un titolo abilitativo illegittimo è certamente preponderante, e tale da consentire di valutare con maggiore elasticità il presupposto temporale per l’esercizio del potere di secondo grado. […]
- Con un quarto mezzo di gravame la parte appellante lamenta l’erroneità della decisione impugnata nella parte in cui ha respinto i motivi quarto e quinto del ricorso di primo grado con i quali erano stati, rispettivamente, dedotti il vizio di eccesso di potere (in quanto sarebbe infondata la tesi posta dall’Amministrazione a fondamento del procedimento di riesame secondo la quale sarebbe necessaria la previa approvazione dello strumento attuativo) e la violazione dell’art. 3 delle n.t.a. del PRG, come modificato per effetto della delibera di Giunta regionale n. 456 del 25 luglio 2006 ( che, ad avviso dell’appellante, sarebbe applicabile in luogo dell’art. 32 anche agli interventi di ristrutturazione, che sarebbero così direttamente autorizzabili anche in difetto di approvazione dello strumento attuativo). […]
3.1. L’art. 41-quinquies, comma 6, legge n. 1150 del 1942, prevede che: “nei comuni dotati di piano regolatore generale o di programma di fabbricazione, nelle zone in cui siano consentite costruzioni per volumi superiori a 3 metri cubi per metro quadrato di area edificabile, ovvero siano consentite altezze superiori a m 2,5, non possono essere realizzati edifici con volumi ed altezze superiori a detti limiti, se non previa approvazione di apposito piano particolareggiato o lottizzazione convenzionata estesi alla intera zona e contenenti la disposizione planivolumetrica degli edifici previsti nella zona stessa.”.
3.2. La disposizione è chiara nell’imporre la redazione di un piano particolareggiato in relazione a interventi che prevedono la realizzazione di volumi superiori a 3 metri cubi per metro quadrato di area edificabile. Nel caso in esame, l’intervento proposto dalla odierna parte appellante presuppone la previa approvazione di un piano particolareggiato, posto che esso si caratterizza per avere un indice di fabbricabilità di 5 mc/mq.
3.3. Il forte impatto sul territorio del proposto intervento – il quale si caratterizza per la realizzazione, in luogo del preesistente opificio, di tre medie strutture di vendita ed uffici direzionali – impone, dunque, la necessaria verifica del suo armonico inserimento all’interno del territorio in esame, che solo l’ approvazione del piano attuativo è in grado di realizzare. In tal senso, il Comune, nel provvedimento di annullamento d’ufficio del permesso di costruire n. 182/2008, ha avuto modo di chiarire che l’edificio della società appellante si caratterizza per una forte carico insediativo, non supportato da adeguati spazi a destinazione pubblica.
3.4. La necessità, in relazione all’intervento edilizio in esame, della previa redazione di un piano attuativo trova, inoltre, ulteriore conferma nel disposto di cui all’art. 32 delle n.t.a. del PRG di (omissis).
3.5. Quest’ultima previsione, infatti, pur consentendo nelle zone omogenee D1 le destinazioni d’uso a uffici privati e pubblici, commercio, banche, edifici per spettacoli, alberghi ed autorimesse pubbliche, condiziona la realizzazione degli “interventi” edilizi alla previa redazione di un piano particolareggiato o di un piano di lottizzazione convenzionata con soluzioni planivolumetriche a carattere unitario.
3.6. Come correttamente rilevato nella decisione impugnata, il generico riferimento, da parte di quest’ultima previsione, alla categoria degli “interventi” deve essere inteso nel senso di ricomprendere nel suo ambito applicativo anche interventi di ristrutturazione edilizia, che, come quello di che trattasi, sono rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare a un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi e impianti.
3.7. Tale interpretazione è, del resto, coerente con l’art. 9, comma 2, d.P.R. n. 380, che, a sua volta, prevede, come si avrà modo di ulteriormente argomentare oltre, come unica eccezione alla previa redazione del piano particolareggiato la fattispecie, non ricorrente nel caso in esame, degli interventi di ristrutturazione non comportanti una radicale trasformazione del territorio.
3.8. Nessun elemento di segno contrario è, infine, rinvenibile, diversamente da quanto ritenuto dalla parte appellante, nell’art. 3 delle medesime n.t.a. del PRG di (omissis), il quale stabilisce che: “Per costruzioni esistenti, anche in contrasto con le previsioni del P.R.G. purché legittimate, quando non diversamente prescritto in relazione alle singole sottozone o da piani sovraordinati, possono essere autorizzati gli interventi di cui alla lettera a) b) c) d) di cui all’art. 3 del Testo Unico n. 380/2001.….”.
3.9. Contrariamente a quanto ritenuto dalla società appellante, il citato art. 3., nel fare salvo quanto diversamente prescritto in relazione alle singole sottozone o da piani sovraordinati, non può consentire l’intervento edilizio proposto dalla parte appellante, perché l’area in esame ricade in Sottozona D1, per la quale il P.R.G. prescrive la specifica modalità edificatoria attuativa del piano particolareggiato (o, in alternativa, la lottizzazione convenzionata con soluzioni planovolumetriche a carattere unitario).
- Con un quinto mezzo di gravame la parte appellante lamenta l’erroneità della decisione impugnata nella parte in cui ha respinto i motivi sesto e settimo del ricorso di primo grado con i quali erano stati, rispettivamente, dedotti la violazione, sotto un primo profilo, dell’art. 9, comma 2, d.P.R. n. 380, oltre ad eccesso di potere per difetto di istruttoria (dato che tale disposizione ammetterebbe, nella prima parte del secondo comma, pur in assenza di piano, gli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, restauro e risanamento conservativo, nonché di ristrutturazione edilizia, di “singole unità immobiliari o parti di esse”, tale dovendosi considerare l’intervento proposto, che è catastalmente identificato in modo unitario al foglio n. 14, part. n. 1) e la violazione, sotto un secondo profilo, dell’art. 9, comma 2, d.P.R. n. 380, oltre a eccesso di potere per difetto di istruttoria (in quanto la superficie a destinazione commerciale/direzionale a servizio della preesistente industria ammonterebbe a mq 2.145,80 e non a mq 1.525,04, come erroneamente assunto dall’Amministrazione nel provvedimento di annullamento, dovendosi a tal fine computare anche i locali precedentemente adibiti a magazzino dei prodotti finiti, che quindi non andrebbero considerati ai fini del rispetto del limite del 25% stabilito per il mutamento di destinazione d’uso). […]
4.1. Come è noto, l’art. 9 comma 2 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 prevede che “Nelle aree nelle quali non siano stati approvati gli strumenti urbanistici attuativi previsti dagli strumenti urbanistici generali come presupposto per l’edificazione, oltre agli interventi indicati al comma 1, lettera a), sono consentiti gli interventi di cui alla lettera d) del primo comma dell’articolo 3 del presente testo unico che riguardino singole unità immobiliari o parti di esse. Tali ultimi interventi sono consentiti anche se riguardino globalmente uno o più edifici e modifichino fino al 25 per cento delle destinazioni preesistenti, purché il titolare del permesso si impegni, con atto trascritto a favore del comune e a cura e spese dell’interessato, a praticare, limitatamente alla percentuale mantenuta ad uso residenziale, prezzi di vendita e canoni di locazione concordati con il comune ed a concorrere negli oneri di urbanizzazione di cui alla sezione II del capo II del presente titolo.”.
4.2. La giurisprudenza, anche della Sezione, considera la previsione in esame come una norma generale ed imperativa in materia di governo del territorio, che impone, ai fini degli interventi diretti costruttivi, il rispetto delle previsioni del piano regolatore generale richiedenti, per una determinata zona, la pianificazione di dettaglio, con la conseguenza che in presenza di una normativa urbanistica generale che preveda, per il rilascio del titolo edilizio in una determinata zona l’esistenza di un piano attuativo, non è consentito superare questa prescrizione (Sez. IV, 26 ottobre 2020, n. 6502), mentre sono ritenuti eccezionali e di stretta interpretazione i casi in cui il PRG consenta il rilascio del permesso di costruire diretto, senza previa approvazione dello strumento attuativo (Cons. Stato Sez. IV, 14 aprile 2020, n. 2390).
4.3. Tanto premesso, l’interpretazione che la parte appellante opera dell’art. 9, comma 2, secondo cui nel caso di intervento di ristrutturazione riguardante una singola unità immobiliare non opererebbe il limite del 25%, non può essere condivisa.
4.4. In senso contrario, depone, in primo luogo, la formulazione letterale della disposizione in esame, che, coerentemente con la finalità di prevenire i fenomeni di degrado e di tutelare la proprietà immobiliare non escludendo del tutto l’esercizio dello ius aedificandi, per un verso si riferisce, con una espressione declinata al plurale, alle “singole unità immobiliari” e, per altro verso, mostra con l’utilizzo della successiva congiunzione “anche” di volere parificare il regime degli interventi di ristrutturazione c.d. leggeri entro limite del 25%.
4.5. Tale interpretazione trova, più in generale, riscontro nella complessiva ratio sottesa all’intero art. 9 in esame, la quale risiede, all’evidenza, nella necessità di evitare che interventi particolarmente impattanti sul piano urbanistico – edilizio (cosiddetta ristrutturazione “pesante”) possano essere realizzati prescindendo da un armonico disegno pianificatorio.
4.6. Tali ragioni, di carattere letterale e teleologico, impongono, dunque, un particolare rigore nell’esegesi della prima parte della 9, comma 2, d.P.R, e si oppongono alla tesi prospettata dall’appellante, che, ove accolta, darebbe luogo alla possibilità che interventi particolarmente impattanti (oltre il limite del 25%) possano essere realizzati prescindendo da un armonico disegno pianificatorio.
4.7 Parimenti da respingere è la doglianza avente ad oggetto il calcolo delle superfici a destinazione direzionale/commerciale esistenti prima dell’intervento.
4.8. In senso contrario, il Collegio osserva che l’art. 4, comma 1, lett. c), d.lgs. 31 marzo 1998 n. 114, nel definire la “superficie di vendita di un esercizio commerciale” chiarisce che in essa non è ricompresa “quella destinata a magazzini, depositi, locali di lavorazione, uffici e servizi”.
4.9. Al riguardo è stato chiarito, in maniera condivisibile, che non è possibile considerare come aventi destinazione commerciale i locali che, nella precedente attività industriale, erano adibiti a magazzino dei prodotti finiti posto che in tal caso non si registra un’attività di circolazione delle merci prodotte (e quindi, un’attività commerciale), con conseguente creazione di carichi urbanistici diversi da quelli collegabili alla produzione delle stesse merci nell’ambito e all’interno della stessa struttura (Cons. Stato, sez. V, 27 dicembre 2001 n. 6411).
- Con un sesto mezzo di gravame la parte appellante lamenta l’erroneità della decisione impugnata nella parte in cui ha respinto l’ottavo motivo del ricorso di primo grado con il quale era stato dedotto il vizio di eccesso di potere per erroneità dei presupposti, difetto di istruttoria e motivazione perché, contrariamente a quanto assunto nel provvedimento gravato, il fabbricato oggetto di intervento ricadrebbe in un lotto intercluso e, quindi, l’edificazione su di esso sarebbe possibile anche in difetto di pianificazione attuativa. […]
5.1. Premette il Collegio che, secondo un costante indirizzo giurisprudenziale, sul piano strettamente urbanistico, il lotto intercluso identifica una situazione di fatto, contrassegnata da una pressoché completa edificazione della zona che la rende addirittura incompatibile con un piano attuativo (ex multis, Cons Stato sez. II, del 13 giugno 2024, n. 5308).
5.2. In base a tale consolidato indirizzo interpretativo, il “lotto intercluso” consiste, dunque, in un’area compresa in una zona totalmente dotata di opere di urbanizzazione primaria e secondaria, cioè da opere e servizi realizzati per soddisfare i necessari bisogni della collettività quali strade, spazi di sosta, fognature, reti di distribuzione del gas, dell’acqua e dell’energia elettrica, scuole, etc.
5.3. Al riguardo, è stato evidenziato che, per poter qualificare un’area come lotto intercluso, non è necessaria l’interclusione della stessa da tutti i lati, bensì l’esistenza di un’area c.d. “relitto”, autonomamente edificabile perché già urbanisticamente definita, ossia compiutamente e definitivamente collegata e integrata con già esistenti opere di urbanizzazione (strade, servizi, piazze, giardini) e/ o con altri immobili adiacenti (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 3 dicembre 2019, n. 8270).
5.4. Da quanto osservato discende che, con la nozione di “lotto intercluso”, ci si riferisce, pertanto, a fattispecie del tutto eccezionali e di stretta interpretazione in cui è consentito il rilascio del permesso di costruire diretto, senza previa approvazione dello strumento attuativo (Cons. Stato, Sez. V, 16 aprile 2024, n. 3474).
5.5. L’eccezionalità della categoria in esame è comunemente argomentata in base alla considerazione per cui il piano particolareggiato, quale presupposto per il rilascio del permesso di costruire, “si impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata” (Cons. Stato, sez. II, 9 dicembre 2020 n. 7843; sez. IV, 21 agosto 2013 n. 4200; sez. V, 29 febbraio 2012 n. 1177).
5.6. Al riguardo, è stato ulteriormente chiarito (cfr. Cons. St., sez. IV, 2839 del 21 marzo 2023; sez. II, 6 aprile 2021, n. 2777; sez. IV, 13 aprile 2016, n. 1434; cfr. sez. IV, 21 agosto 2013, n. 4200) che, pure in presenza di una zona (in tesi) già urbanizzata, la necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo, ma non anche nell’ipotesi in cui, per effetto di una edificazione disomogenea, ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all’abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona, ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria nella zona o integrando l’urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli standard minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l’armonico collegamento con le zone contigue, già asservite all’edificazione (Cons. Stato, Sez. II, 07 febbraio 2025, n. 964; Consiglio di Stato, sez. V, 16 aprile 2024, n. 3474).
5.7. L’esigenza di un piano di ricucitura del tessuto urbano, quale presupposto per il rilascio del permesso di costruire, è , del resto, necessaria, anche al fine di realizzare un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti.
5.8. Alla luce di consolidate coordinate interpretative, la valutazione circa la congruità del grado di urbanizzazione è rimessa all’esclusivo apprezzamento discrezionale del Comune il quale, ove intenda rilasciare direttamente il titolo edilizio, deve compiere una penetrante istruttoria per accertare che la pianificazione esecutiva non conservi, comunque, una qualche utile funzione, anche solo al limitato fine di recuperare margini di efficienza abitativa, nonché di riordino e completamento razionale dell’abitato o di una singola area.
5.9. Conseguentemente, incombe sul Comune l’obbligo di puntuale motivazione solo nell’ipotesi in cui venga rilasciato il permesso di costruire, essendo in caso contrario sufficiente il richiamo alla mancanza del piano attuativo (Cons. Stato, sez. IV, 10 giugno 2010 n. 3699).
- Con un ultimo mezzo di gravame la parte appellante lamenta la erroneità della decisione impugnata nella parte in cui ha disatteso la domanda di risarcimento del danno. […]
6.1. Dal complesso delle osservazioni che precedono, sulla base delle quali è stata accertata la legittimità dell’azione amministrativa, consegue l’assenza di responsabilità da parte delle amministrazioni resistenti.
6.2. Sul punto invero è sufficiente richiamare la recente decisione della Adunanza Plenaria n. 7/2021, che, nel solco della storica sentenza delle Sezioni Unite numero 500 del 1999, ha ribadito la riconducibilità della responsabilità dell’amministrazione per l’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o per il mancato esercizio di quella doverosa al paradigma della responsabilità da fatto illecito.
6.3. Secondo i principi ribaditi da quest’ultimo autorevole arresto giurisprudenziale, elemento centrale nella fattispecie di responsabilità da illegittima attività provvedimentale è l’ingiustizia del danno, da dimostrare in giudizio, diversamente da quanto avviene per la responsabilità da inadempimento contrattuale, in cui la valutazione sull’ingiustizia del danno è assorbita dalla violazione della regola contrattuale.
6.4. Declinato nel settore relativo al «risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi», di cui all’art. 7, comma 4, cod. proc. amm., il requisito dell’ingiustizia del danno implica che il risarcimento potrà essere riconosciuto se l’esercizio illegittimo del potere amministrativo abbia leso un bene della vita del privato, che quest’ultimo avrebbe avuto titolo per mantenere o ottenere, secondo la dicotomia “interessi legittimi oppositivi – pretensivi”.