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*Obbligazioni e contratti – Somme trattenute indebitamente e natura di debito di valore

by Dott. Alessio Alfieri
19 Maggio 2025
in Diritto Civile
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Corte di Cassazione, Sez. II Penale, sentenza 8 maggio 2025 n. 17497

PRINCIPIO DI DIRITTO

Anche nei reati in contratto, ove sia accertato che la realizzazione del profitto avente ad oggetto una somma di denaro sia frutto di una condotta illecita penalmente sanzionata, pur non procedibile per il maturarsi dell’effetto estintivo della prescrizione, il debito di valuta originariamente sussistente “perde” le sue caratteristiche iniziali e diviene, in conseguenza della consumazione del reato, proprio un debito di valore.

TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE

  1. Il ricorso non è fondato e deve, pertanto, essere respinto.

Ed invero, va innanzi tutto segnalato che la corte di appello, con le specifiche osservazioni svolte a pagina 6 della motivazione, ha sottolineato come, essendosi proceduto a valutazione equitativa del danno, complessivamente determinato in Euro 10.000, ha valutato che l’importo stabilito dal Tribunale deve ritenersi congruo; a tale valutazione si è pervenuti confermando le considerazioni svolte dal giudice di primo grado circa la particolarità del momento in cui il reato veniva consumato in danno delle persone offese, che si vedevano sottratte somme destinate al loro viaggio di nozze ed erano state costrette a contattare i donanti al fine di calcolare gli importi loro illecitamente sottratti.

E sotto tale profilo, pertanto, le pronunce di primo e secondo grado, avendo fatto riferimento a precisi elementi di fatto, appaiono non censurabili nella presente sede.

  1. Quanto al motivo con il quale si è dedotta la natura di debito di valuta dell’obbligazione pecuniaria di restituzione delle somme trattenute indebitamente dalla A.A., lo stesso è anche esso non fondato.

Va ricordato come nella giurisprudenza della Corte di legittimità sia stato enucleato un discrimen fra profitto conseguente da un “reato contratto” e profitto derivante da un “reato in contratto”.

Nel primo caso – in cui la legge qualifica come reato unicamente la stipula di un contratto a prescindere dalla sua esecuzione – si determina un’immedesimazione del reato col negozio giuridico e quest’ultimo risulta integralmente contaminato da illiceità, con l’effetto che il relativo profitto è conseguenza immediata e diretta della medesima ed è, pertanto, assoggettabile a confisca; nel secondo caso – in cui il comportamento penalmente rilevante non coincide con la stipulazione del contratto in sé, ma va ad incidere unicamente sulla fase di formazione della volontà contrattuale o su quella di esecuzione del programma negoziale – è possibile enucleare aspetti leciti del relativo rapporto, perché il contratto è assolutamente lecito e valido inter partes, con la conseguenza che il corrispondente profitto tratto dall’agente ben può essere non ricollegabile direttamente alla condotta sanzionata penalmente (Sez. U, n. 26654 del 27/03/2008, Rv. 239924).

Deve però affermarsi che anche nei reati in contratto, ove sia accertato che la realizzazione del profitto avente ad oggetto una somma di denaro sia frutto di una condotta illecita penalmente sanzionata, pur non procedibile per il maturarsi dell’effetto estintivo della prescrizione, il debito di valuta originariamente sussistente “perde” le sue caratteristiche iniziali e diviene, in conseguenza della consumazione del reato, proprio un debito di valore; a tale conclusione si perviene sulla base della fondamentale previsione dell’art. 2043cod. civ. in tema di risarcimento per fatto illecito ed in base al quale qualunque fatto doloso che cagiona ad altri un danno ingiusto obbliga colui che lo ha commesso a risarcire il danno.

Al proposito, poi, va ricordato come secondo la giurisprudenza civile della Corte di legittimità, l’obbligazione di risarcimento del danno derivante da illecito extracontrattuale configura un debito di valore, in quanto diretta a reintegrare completamente il patrimonio del danneggiato, per cui resta sottratta al principio nominalistico e va dal giudice, anche d’ufficio, quantificata tenendo conto della svalutazione monetaria sopravvenuta, secondo gli indici di deprezzamento della moneta e fino alla data della liquidazione, solamente da tale data in quest’ultimo caso spettando (in presenza della necessaria domanda di risarcimento del lucro cessante da ritardato pagamento della somma rivalutata) gli interessi moratori, al tasso legale, sulla somma rivalutata, giacché altrimenti il creditore verrebbe a conseguire più di quanto lo stesso avrebbe ottenuto in caso di tempestivo adempimento dell’obbligazione.

Tale configurazione non è destinata a mutare per il fatto che l’evento dannoso coincide con la perdita della somma di danaro investito, giacché nella responsabilità aquiliana – ove la obbligazione risarcitoria mira alla reintegrazione del patrimonio del danneggiato – ai fini del risarcimento del danno viene in rilievo la perdita del valore oggetto nella specie dell’operazione finanziaria, e ciò che il danneggiante deve non è la corresponsione di una data somma di danaro, ma l’integrale risarcimento del danno, di cui la somma originaria costituisce solo una componente, ai fini della relativa commisurazione. (Cass., Sez. 1 civ. 25 febbraio 2009, n. 4587).

E si è anche affermato che, costituendo l’obbligazione di risarcimento del danno un’obbligazione di valore sottratta al principio nominalistico, la rivalutazione monetaria è dovuta a prescindere dalla prova della svalutazione monetaria da parte dell’investitore danneggiato, ed è quantificabile dal giudice, anche d’ufficio, tenendo conto della svalutazione sopravvenuta fino alla data della liquidazione.

È altresì risarcibile il nocumento finanziario (lucro cessante) subito a causa del ritardato conseguimento della somma riconosciuta a titolo di risarcimento del danno, con la tecnica degli interessi computati non sulla somma originaria né su quella rivalutata al momento della liquidazione, ma sulla somma originaria rivalutata anno per anno ovvero sulla somma rivalutata in base ad un indice medio (Cass., Sez. 1 civ. 25 febbraio 2009, n. 4587).

L’applicazione dei suddetti principi comporta il rigetto del motivo di ricorso, poiché correttamente il giudice di merito ha valutato l’obbligazione risarcitoria quale debito di valore.

Al rigetto del ricorso consegue, per il disposto dell’art. 616cod. proc. pen., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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