Corte Costituzionale, sentenza 18 aprile 2025, n. 52
PRINCIPIO DI DIRITTO
Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, comma 7, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), limitatamente alle parole «e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre»;
Vanno, altresì, dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, comma 7, ordin. penit., sollevate, in riferimento all’art. 2 della Costituzione, dal Tribunale di sorveglianza di Bologna e dal Tribunale di sorveglianza di Venezia con le ordinanze indicate in epigrafe;
3Vanno, infine, dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, comma 7, ordin. penit., sollevate, complessivamente, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 27, terzo comma, 29, 30, 31, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dal Tribunale di sorveglianza di Bologna, in via principale, e dal Tribunale di sorveglianza di Venezia con le ordinanze indicate in epigrafe.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
1.– Con l’ordinanza iscritta al n. 174 del reg. ord. 2024, il Tribunale di sorveglianza di Bologna ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, comma 7, ordin. penit., con riferimento agli artt. 2, 3, 29, 30, 31, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, nella parte in cui prevede che la detenzione domiciliare sostitutiva può essere concessa al padre detenuto soltanto «se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre».
In via subordinata, il rimettente solleva identiche questioni sul solo inciso «e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre».
2.– Con l’ordinanza iscritta al n. 197 del reg. ord. 2024, il Tribunale di sorveglianza di Venezia ha sollevato questioni di legittimità costituzionale del medesimo art. 47-quinquies, comma 7, ordin. penit. in riferimento agli artt. 2, 3, 27, terzo comma, 29, 30, 31 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, nella parte in cui prevede che la detenzione domiciliare può essere concessa al padre detenuto soltanto «se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre».
3.– I due giudizi concernono questioni in larga misura sovrapponibili e meritano, pertanto, di essere riuniti ai fini della decisione.
Entrambi i rimettenti si dolgono, in sintesi, del differente trattamento del padre e della madre condannati, quanto alle condizioni di accesso alla misura alternativa della detenzione domiciliare speciale. Tale misura è prevista dall’art. 47-quinquies ordin. penit. per i genitori condannati che non possano fruire della detenzione domiciliare “ordinaria” ai sensi dell’art. 47-ter, comma 1, lettere a) e b), ordin. penit., la quale è invece riservata ai condannati che espiino una pena detentiva non superiore a quattro anni, anche se costituente parte residua di maggior pena.
Le condannate madri di figli di età non superiore a dieci anni, ovvero gravemente disabili, possono essere ammesse alla misura, una volta scontato almeno un terzo della pena ovvero quindici anni nel caso di condanna all’ergastolo, «se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti» (comma 1); ovvero anche prima di tale termine, «se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti o di fuga» (comma 1-bis).
Il padre condannato può, invece, essere ammesso alla misura ai sensi del censurato comma 7, in presenza delle condizioni indicate nei commi 1 e 1-bis (comuni alle condannate madri), soltanto «se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre».
I due giudici a quibus sollecitano questa Corte a eliminare quest’ultimo inciso, equiparando così le condizioni di accesso alla misura per i detenuti padri e madri.
Secondo i rimettenti, l’attuale disciplina violerebbe:
– il principio di pari dignità e di uguaglianza davanti alla legge senza distinzione di sesso (art. 3, primo comma, Cost.), il divieto di discriminazione fondato sul sesso nel godimento del diritto alla vita familiare (artt. 8 e 14 CEDU, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost.), il principio dell’uguaglianza morale e giuridica tra i coniugi (art. 29, secondo comma, Cost.), nonché il principio di parità di trattamento delle parti di formazioni sociali diverse dal matrimonio, che troverebbe il proprio fondamento nell’art. 2 Cost.;
– il principio dell’interesse primario del minore desumibile dagli artt. 30 e 31 Cost., e in particolare – secondo il Tribunale di sorveglianza di Bologna – il diritto del minore alla cosiddetta “bigenitorialità”, quale corollario del dovere di entrambi i genitori di garantire cura ed educazione alla prole;
– la necessaria funzione rieducativa della pena, sancita dall’art. 27, terzo comma, Cost., per il solo Tribunale di sorveglianza di Venezia.
Il solo Tribunale di sorveglianza di Bologna, in via subordinata, auspica l’ablazione quanto meno del frammento normativo «e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre»: ciò che consentirebbe al padre condannato di essere ammesso alla misura allorché la madre sia deceduta o impossibilitata, indipendentemente dalla circostanza che altre persone siano in grado di accudire i bambini.
4.– Circa l’ammissibilità delle questioni, occorre rilevare quanto segue.
4.1.– Rispetto alle questioni sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Bologna, l’Avvocatura generale dello Stato eccepisce il loro difetto di rilevanza, o comunque l’insufficiente descrizione della fattispecie concreta oggetto del giudizio a quo.
L’eccezione non è fondata.
Il rimettente riferisce un quadro fattuale sufficiente a consentire a questa Corte la verifica della rilevanza delle questioni aventi ad oggetto la disposizione censurata. Dall’ordinanza risulta, infatti, che i figli minori del condannato istante erano, al momento della proposizione delle questioni, affidati alla loro sorella maggiore, aggiungendo che non erano evidenziabili deficit di cura e assistenza nei confronti dei medesimi. In tale situazione, l’accesso alla detenzione domiciliare speciale era a priori precluso al richiedente, sulla base della disposizione censurata, e in particolare dell’inciso «se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre» su cui si indirizzano le censure del rimettente. L’ablazione di tale inciso da parte di questa Corte consentirebbe invece al Tribunale di valutare funditus se ricorrano o meno le ulteriori condizioni per l’accesso alla misura stabilite dalla disposizione censurata.
Analoga conclusione si impone per ciò che concerne le questioni, formulate in via subordinata, che investono soltanto il frammento «e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre». Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, infatti, non è necessario – ai fini della rilevanza di una questione – che il suo accoglimento determini un esito decisionale diverso da quello cui si perverrebbe in applicazione della disposizione censurata, essendo sufficiente che esso necessariamente influisca sull’iter motivazionale che dovrà condurre alla decisione (da ultimo, sentenze n. 135 del 2024, punto 3.1. del Considerato in diritto; n. 122 del 2024, punto 2.1. del Considerato in diritto; n. 164 del 2023, punto 4 del Considerato in diritto). Nel caso oggetto del giudizio a quo, alla luce della disposizione censurata il giudice dovrebbe rigettare de plano l’istanza del richiedente, per la sola circostanza che i minori sono attualmente affidati alla loro sorella maggiore. Laddove, invece, venissero accolte le questioni formulate in via subordinata, l’eventuale rigetto dell’istanza dovrebbe essere diversamente motivato, sulla base di un accertamento in concreto dell’idoneità della madre a prendersi cura dei figli: accertamento che, alla stregua della disposizione così come attualmente configurata, il giudice rimettente non aveva alcuna necessità di compiere.
4.2.– Rispetto, poi, alle questioni sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Venezia, l’Avvocatura generale dello Stato ne eccepisce nuovamente il difetto di rilevanza, assumendo che il rimettente avrebbe ricostruito in termini «alquanto scarsi» la situazione familiare dell’istante, ma comunque in modo sufficiente a escludere che sussistesse una situazione di impossibilità di affidare il figlio minore alla madre.
L’eccezione è, in questo caso, ictu oculi infondata.
Anzitutto, l’ordinanza di rimessione ricostruisce con dovizia di dettagli la condizione in cui versa il nucleo familiare del detenuto, che è stata qui soltanto riassunta al punto 4.1. del Ritenuto in fatto. Ma, soprattutto, è precisamente la situazione di affidamento attuale del minore alla madre, su cui si basa l’eccezione formulata dall’Avvocatura generale dello Stato, a rendere rilevanti le questioni formulate. Solo l’eventuale loro accoglimento consentirebbe, infatti, al giudice di valutare la possibile concessione all’istante della detenzione domiciliare speciale, che è oggi preclusa dalla vigente formulazione della disposizione censurata.
4.3.– Deve, invece, essere dichiarata d’ufficio l’inammissibilità delle questioni sollevate da entrambi i rimettenti in riferimento all’art. 2 Cost., sulla base del principio che – in particolare – il Tribunale di sorveglianza di Venezia definisce di «parità tra le persone da riconoscersi anche nell’ambito delle formazioni sociali oltre che nell’ambito del rapporto coniugale», e segnatamente nell’ambito delle famiglie di fatto o omogenitoriali. La censura è irrilevante quanto al riferimento alle coppie omogenitoriali, dal momento che nessuno dei casi oggetto dei procedimenti a quibus concerne coppie dello stesso sesso, ed è sfornita di motivazione sulla non manifesta infondatezza quanto alle famiglie di fatto, non avendo i rimettenti chiarito perché dall’art. 2 Cost. – che indubbiamente riconosce i diritti di tali formazioni sociali e delle persone che ne fanno parte (da ultimo, sentenza n. 148 del 2024, punto 11 del Considerato in diritto) – sia evincibile anche un principio di parità di trattamento tra i loro singoli componenti, che appare invece più propriamente riconducibile all’art. 3 Cost.
5.– Nel merito, occorre anzitutto valutare le questioni che mirano all’integrale ablazione, nel comma 7 dell’art. 47-quinquies ordin. penit., dell’inciso «se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre», e dunque all’equiparazione della posizione del padre a quella della madre condannata, quanto alle condizioni di accesso alla detenzione domiciliare speciale.
5.1.– Questa Corte ha già avuto occasione di esaminare, con la recente sentenza n. 219 del 2023, questioni di legittimità costituzionale concernenti la parallela disciplina della detenzione domiciliare “ordinaria” di cui all’art. 47-ter, comma 1, lettere a) e b), ordin. penit. – che parimenti detta una disciplina più restrittiva per il padre condannato rispetto a quella prevista per la madre condannata –; questioni formulate, allora, sotto l’esclusiva prospettiva del dedotto contrasto con gli interessi del minore a una relazione continuativa con entrambi i genitori. Interessi che all’epoca il giudice a quo aveva evocato attraverso il richiamo agli artt. 3 (sub specie di principio di ragionevolezza) e 31, secondo comma, Cost., e che gli odierni rimettenti evocano invece richiamando congiuntamente gli artt. 30 e 31 Cost.
In sintesi, la sentenza n. 219 del 2023 ha, anzitutto, affermato che da una lettura delle garanzie costituzionali concernenti i minori alla luce dei numerosi strumenti internazionali e dell’Unione europea al cui rispetto il nostro Paese si è vincolato si desume, effettivamente, «il diritto di ciascun genitore e del minore a godere di una mutua relazione», inteso a sua volta quale declinazione del più generale principio dell’interesse “preminente” del minore (punto 4.2. del Considerato in diritto).
Tuttavia, la sentenza ha soggiunto che «il principio in parola impone sì una considerazione particolarmente attenta degli interessi del minore in ogni decisione – giudiziaria, amministrativa e legislativa – che lo riguarda, ma non ne assicura l’automatica prevalenza su ogni altro interesse, individuale o collettivo»; e che, pertanto, tale principio ben può essere bilanciato con il fascio di interessi, pure di rilievo costituzionale, sottesi all’esecuzione della pena, dovendosi riconoscere che – in alcune circostanze almeno – la compressione dell’interesse del minore al rapporto con il genitore detenuto o internato costituisce una conseguenza inevitabile, e costituzionalmente non censurabile, dell’esecuzione della pena (punto 4.3. del Considerato in diritto).
Il punto di equilibrio costituzionalmente sostenibile tra i contrapposti interessi – ha proseguito la sentenza n. 219 del 2023 – è stato individuato dalla giurisprudenza di questa Corte nel ritenere che «i pur rilevanti interessi sottesi all’esecuzione della pena [devono], di regola, cedere di fronte all’esigenza di assicurare che i minori in tenera età possano godere di una relazione diretta almeno con uno dei due genitori». E ciò sempre che il genitore condannato che si trovi nelle condizioni previste dalla legge per fruire della misura non sia socialmente pericoloso – ipotesi, quest’ultima, in cui gli interessi del bambino dovranno necessariamente essere assicurati in forma diversa dall’affidamento a uno dei genitori (punto 4.4. del Considerato in diritto).
In questo contesto, la scelta del legislatore di assicurare in via primaria il rapporto del bambino con la madre, attribuendo al padre il compito di occuparsi del bambino allorché la madre non sia in condizioni di provvedervi è stata giudicata immune da censure sotto lo specifico profilo della sua idoneità ad assicurare, comunque, il rapporto del bambino con uno almeno dei genitori (punto 4.5. del Considerato in diritto).
Tali considerazioni devono essere integralmente confermate anche con riferimento alla disciplina in questa sede censurata, strutturalmente analoga a quella risultante dall’art. 47-ter, comma 1, lettere a) e b), ordin. penit. allora esaminata.
Dal che la non fondatezza delle questioni, aventi ad oggetto l’intero inciso «se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre», formulate dagli odierni rimettenti in riferimento agli artt. 30 e 31 Cost.
5.2.– La sentenza n. 219 del 2023 ha, peraltro, espressamente sottolineato che questa Corte non era stata chiamata dall’ordinanza di rimessione a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale della disciplina «in relazione alla diversa considerazione dei diritti-doveri che fanno capo al padre, rispetto a quelli che fanno capo alla madre», né sull’eventuale «discriminazione in base al sesso tra le due figure genitoriali, rispetto all’accesso a misure alternative alla detenzione» (punto 4.1. del Considerato in diritto).
Proprio su questi profili richiamano invece l’attenzione i due rimettenti odierni, allorché evocano: il principio di pari dignità e uguaglianza davanti alla legge senza distinzione di sesso, fondato sull’art. 3, primo comma, Cost.; il divieto di discriminazione fondato sul sesso nel godimento del diritto alla vita familiare (artt. 8 e 14 CEDU, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost.); e il principio dell’uguaglianza morale e giuridica tra i coniugi (art. 29, secondo comma, Cost.).
La disciplina censurata violerebbe tali principi, perché prevede condizioni più favorevoli, nell’accesso alla misura alternativa della detenzione domiciliare speciale, per la madre rispetto al padre: così realizzando al tempo stesso, secondo la prospettazione dei rimettenti, (a) una discriminazione non consentita in base al sesso del condannato, e (b) una violazione del principio dell’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi con specifico riferimento alla cura e all’educazione dei figli.
L’angolo visuale da cui muovono tutte queste censure è, dunque, rovesciato rispetto a quelle già esaminate dalla sentenza n. 219 del 2023: mentre le doglianze di allora erano formulate dalla prospettiva del minore e dei suoi preminenti interessi, le censure odierne si focalizzano, invece, sui doveri e diritti che fanno capo a ciascuno dei due genitori, che verrebbero disciplinati in modo ingiustificatamente differenziato dalla disposizione all’esame.
5.2.1.– In proposito, non può non riconoscersi una qualche distonia tra la disposizione censurata e lo stadio attuale del quadro ordinamentale, che – anche per effetto della mutata sensibilità sociale – tende ormai a riconoscere l’equivalenza delle due figure genitoriali rispetto ai compiti di cura, mantenimento ed educazione dei figli. Ciò, in particolare, in materia lavoristica e previdenziale, ove – per effetto anche degli stimoli provenienti dalle pronunce di questa Corte (ad esempio, sentenze n. 179 del 1993, n. 341 del 1991 e n. 1 del 1987) – si sono riconosciuti spazi sempre più ampi al ruolo del padre rispetto a tali compiti, categorizzabili al tempo stesso come “doveri” e “diritti” di entrambi i genitori (art. 30, primo comma, Cost.).
La disciplina penitenziaria – che prevede oggi numerose misure atte a favorire il mantenimento di un rapporto continuativo tra la madre condannata e i figli in tenera età – continua invece, come sottolineato dai rimettenti e dall’amicus curiae, a riconoscere al padre condannato l’accesso alle misure in questione soltanto laddove manchi una figura materna in grado di assicurare la cura e l’educazione dei figli.
5.2.2.– Occorre, però, anche considerare che le misure oggi previste dalla legge sull’ordinamento penitenziario in favore delle madri condannate sono il frutto di una graduale evoluzione normativa, già ricostruita nei suoi tratti essenziali da precedenti pronunce di questa Corte (in particolare, dalla sentenza n. 239 del 2014, punti 4-6 del Considerato in diritto, richiamata dalla stessa sentenza n. 219 del 2023 più volte citata, punto 4.5. del Considerato in diritto). Tratto caratteristico di tale evoluzione è stato l’obiettivo «di assicurare in via primaria il rapporto del minore con la madre» (sentenza n. 17 del 2017, punto 5 del Considerato in diritto).
Il risultato è, oggi, un sistema penitenziario che – parallelamente a quanto accade nel settore delle misure cautelari personali, ispirato ad analoghi principi – offre una tutela particolarmente avanzata degli interessi del minore la cui madre sia stata condannata, garantendo di regola al bambino di età non superiore ai dieci anni la possibilità di continuare ad essere accudito direttamente dalla mamma presso la propria abitazione o in altro luogo idoneo, salvo che la madre stessa risulti socialmente pericolosa o – nei casi di cui all’art. 47-quinquies, comma 1-bis, ordin. penit. – sussista un concreto pericolo di fuga.
Al tempo stesso, un sistema siffatto invera in misura particolarmente pregnante i principi della finalità rieducativa e del minimo sacrificio necessario della libertà personale (da ultimo, sentenze n. 30 del 2025, punto 6.4. del Considerato in diritto; n. 24 del 2025, punti 5 e seguenti del Considerato in diritto; n. 84 del 2024, punto 3.2. del Considerato in diritto; n. 22 del 2022, punto 5.2. del Considerato in diritto), che ai sensi rispettivamente degli artt. 27, terzo comma, e 13 Cost. devono orientare l’azione del legislatore, dell’amministrazione penitenziaria e del potere giudiziario rispetto all’esecuzione della pena. In particolare, esso favorisce il reinserimento sociale delle condannate madri attraverso il mantenimento e rafforzamento dei loro legami con la comunità. E ciò a partire proprio da quella micro-comunità che è rappresentata dal nucleo familiare, nel quale la condannata è chiamata a vivere i propri doveri e la propria responsabilità di madre, nell’interesse dei figli a lei affidati: avviando, con ciò stesso, un significativo percorso di rieducazione e reinserimento sociale.
Come già osservato nella sentenza n. 219 del 2023 (punto 4.5. del Considerato in diritto), è verosimile che il legislatore abbia ritenuto – nell’esercizio della propria discrezionalità – di compiere passi così significativi nella direzione di una più piena attuazione dei principi costituzionali dell’interesse preminente dei minori, della funzione rieducativa della pena e del minimo sacrificio necessario della libertà personale anche in considerazione dell’impatto complessivamente modesto delle misure in questione sugli interessi contrapposti in gioco – segnatamente, sugli interessi sottesi all’effettiva esecuzione di pene detentive di consistente entità, irrogate in conseguenza della commissione di reati di gravità significativa. Ciò anche in considerazione della proporzione particolarmente esigua di donne condannate rispetto alla popolazione totale dei condannati (pari, sulla base delle statistiche del Ministero della giustizia alla data del 28 febbraio 2025, a 2.729 unità rispetto a un totale di 62.165 detenuti, e dunque a circa il 4 per cento della popolazione carceraria).
5.2.3.– Resta, a questo punto, da chiedersi se la scelta del legislatore di attuare in forma tanto avanzata i principi in questione con riferimento alle sole madri condannate crei, al metro della Costituzione e della CEDU, una illegittima discriminazione a danno dei padri condannati e, assieme, una violazione del principio dell’uguaglianza morale e giuridica tra i coniugi, per il caso in cui i genitori siano uniti in matrimonio.
Questa Corte ritiene che la scelta compiuta sin qui dal legislatore non possa essere considerata incompatibile con i parametri costituzionali nazionali evocati.
Giova riflettere anzitutto sulla circostanza che l’art. 31, secondo comma, Cost. impone alla Repubblica di tutelare «la maternità»: e dunque di introdurre specifiche previsioni che favoriscano l’assunzione e il concreto svolgimento della responsabilità materna nei confronti dei figli. Il che implica necessariamente l’adozione di misure calibrate sulla figura materna e non su quella paterna; misure che – peraltro – non mettono di per sé in discussione il principio della parità morale e giuridica «dei coniugi» stabilito dall’art. 29, secondo comma, Cost., per la semplice ragione che operano su un piano diverso: non quello dei rapporti tra i coniugi, ma quello dei rapporti tra i genitori – non necessariamente uniti in matrimonio – e i figli.
Nello stesso senso merita di essere ricordato l’art. 4, paragrafo 2, della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, rilevante nell’ordinamento costituzionale nazionale in forza dell’art. 117, primo comma, Cost. Tale disposizione prevede, testualmente, che «[l]’adozione da parte degli Stati di misure speciali, comprese le misure previste dalla presente Convenzione, tendenti a proteggere la maternità non è considerato un atto discriminatorio».
Di questi dati normativi non può non tenersi conto quali punti di riferimento significativi nella valutazione della legittimità costituzionale di trattamenti stabiliti dalla legge specificamente in favore delle madri: anche con riguardo alla materia penitenziaria, che viene qui in considerazione.
5.2.4.– La conclusione non muta, ad avviso di questa Corte, con riguardo al divieto di discriminazione secondo il sesso nel godimento del diritto alla vita familiare, tutelato dagli artt. 8 e 14 CEDU.
È pur vero che, come rilevano i rimettenti, la Corte EDU ha più volte affermato che in linea di principio solo ragioni assai consistenti («very weighty reasons») possono giustificare differenze di trattamento basate sul sesso nel godimento di diritti rientranti nell’ambito di applicazione di una norma della Convenzione o dei suoi protocolli, e che in quest’ambito assunti generali sul ruolo femminile o attitudini sociali prevalenti in un Paese specifico non possono essere considerati, di per sé, una giustificazione sufficiente per trattamenti differenziati (Corte EDU, sentenza Beeler contro Svizzera, paragrafo 95, e ivi ulteriori riferimenti). Ciò vale anche allorché il trattamento differenziato concerna diritti rientranti in linea di principio nella sfera di applicazione di una norma della Convenzione o dei suoi protocolli, ma che abbiano natura “addizionale”, in quanto il loro riconoscimento nel caso concreto non costituisca un obbligo a carico dello Stato parte (Corte EDU, sentenza Khamtokhu e Aksenchik contro Russia, paragrafo 58, e ivi ulteriori riferimenti).
Sulla base di tali principi, la Corte EDU ha sovente ritenuto incompatibili con gli artt. 8 e 14 CEDU normative nazionali che prevedevano trattamenti più favorevoli per le donne rispetto agli uomini (ancora sentenze Beeler contro Svizzera, paragrafo 95 e, con riferimento specifico ai benefici penitenziari, Ēcis contro Lettonia, paragrafi 90-93, peraltro con la precisazione che, in linea di principio, «talune divergenze di trattamento tra detenuti uomini e donne possono essere giustificate»); ovvero che – in materia giuslavoristica – privilegiavano le madri rispetto ai padri (sentenza Konstantin Markin contro Russia).
Tuttavia, in un caso particolarmente significativo in cui era in discussione la previsione della pena dell’ergastolo, nella Federazione Russa, per i soli i condannati uomini di età compresa tra i 18 e i 65 anni, la grande camera della Corte EDU – muovendo dal riconoscimento a ciascuno Stato di un ampio margine di apprezzamento nella definizione della propria politica in materia sanzionatoria penale – ha ritenuto giustificata la disparità di trattamento così creata tra condannati uomini e donne.
La Corte EDU ha posto tra l’altro l’accento: sull’esistenza di vari strumenti di diritto internazionale che riconoscono lo speciale bisogno di tutela della donna detenuta in relazione alla gravidanza e alla maternità (sentenza Khamtokhu e Aksenchik contro Russia, paragrafo 82); sui dati statistici che indicavano come anche nella Federazione Russa le condannate donne costituissero solo un’esigua porzione della popolazione complessiva dei detenuti (ancora, paragrafo 82); nonché sull’inesistenza di un obbligo deducibile dalla Convenzione di abolire interamente l’ergastolo (paragrafo 86). Constatazione, quest’ultima, che rendeva «difficile», secondo la Corte EDU, «criticare il legislatore russo per avere stabilito […] l’esenzione dall’ergastolo di una determinata categoria di condannati», nell’ambito di una fase ancora «transizionale» della legislazione penale (paragrafo 85) che però si muoveva nella direzione di un sicuro «progresso» verso la più piena attuazione delle garanzie convenzionali (paragrafo 86).
Le opinioni concorrenti di più giudici in quella decisione hanno in particolare sottolineato come il cammino verso un’espansione dei diritti proceda, realisticamente, in modo graduale; ciò che impone di tollerare situazioni di – transitoria – ineguale distribuzione di nuovi benefici, sempre che nessun gruppo sia privato del livello minimo di tutela convenzionalmente garantito. In ogni caso, non si potrebbe rimproverare uno Stato per non avere garantito subito a tutti i consociati i nuovi e più elevati livelli di tutela (così, in particolare, le opinioni concorrenti delle giudici Nußberger e Turković).
Considerazioni analoghe possono formularsi, mutatis mutandis, anche in relazione alle questioni ora all’esame. Come poc’anzi rammentato, il livello minimo di tutela costituzionalmente necessario per gli interessi del minore, così come enucleato dalla giurisprudenza di questa Corte, è quello che assicura al bambino, di regola, la presenza di almeno uno dei genitori. La scelta compiuta dal legislatore di assicurare la presenza anche della madre condannata a una pena detentiva, pur laddove il padre sia in condizione di farsi carico della cura e dell’educazione del minore, è il frutto di un bilanciamento non irragionevole tra l’interesse all’esecuzione della pena detentiva – e quindi della pretesa punitiva dello Stato – e l’interesse del minore alla relazione genitoriale.
È sempre dalla prospettiva della tutela del minore che occorre, dunque, valutare la scelta normativa: il legislatore, che in linea di principio è costituzionalmente obbligato ad assicurare la presenza di almeno uno dei genitori, ha scelto di riconoscere al minore stesso un livello addizionale di tutela, non costituzionalmente obbligato e però certamente attuativo dei principi costituzionali.
La scelta ha innegabilmente dei riflessi sull’omogeneità di trattamento dei genitori, ma non al punto da debordare nella discriminazione ingiustificata, non potendosi ritenere irragionevole la scelta di procedere gradualmente nella direzione di una più piena attuazione dei principi costituzionali menzionati, attraverso la selezione di una platea, peraltro numericamente ridotta, di persone condannate oggetto di specifiche direttive di tutela da parte della stessa Costituzione e di varie fonti internazionali di hard e soft law (si vedano, tra l’altro, le rules numeri 2, 58 e 64 delle «United Nations Rules for the Treatment of Women Prisoners and Non-custodial Measures for Women Offenders» adottate dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 21 dicembre 2010, già testualmente citate nella sentenza n. 219 del 2023, punto 4.5. del Considerato in diritto, dalle quali si evince un generale favor per la concessione di misure extracarcerarie alle madri detenute).
5.2.5.– I rimettenti, e con essi l’amicus curiae, assumono che la disciplina censurata produrrebbe altresì una discriminazione non solo a danno dei padri, ma anche a danno delle madri, mogli o compagne dei condannati padri. Le prime infatti sarebbero costrette a sacrificare la propria carriera lavorativa per occuparsi dei figli, mentre i mariti o compagni delle condannate madri potrebbero contare, grazie alla misura alternativa all’esame, sull’apporto di queste ultime per far fronte ai carichi familiari, potendo così liberamente dedicarsi alle loro attività professionali.
In proposito, deve però rilevarsi che – una volta che si sia ritenuta non irragionevole la scelta legislativa di apprestare un trattamento di speciale favore per il mantenimento del rapporto tra madre e figlio, nell’interesse di quest’ultimo – la situazione appena descritta costituisce null’altro che una delle conseguenze collaterali a carico di terzi non colpevoli necessariamente connesse all’esecuzione della pena detentiva. Il carcere colpisce il reo, ma produce effetti indiretti pregiudizievoli anche nei confronti di altre persone: in primis, dei suoi familiari, che vengono privati del suo apporto – affettivo, ma anche finanziario e organizzativo – alla gestione dei carichi familiari. Queste conseguenze sono purtroppo inevitabili, e messe in conto dall’ordinamento nel momento in cui ritiene necessario privare la persona ritenuta colpevole di un reato della propria libertà personale, per la realizzazione degli scopi legittimi della pena.
5.2.6.– Tutto ciò, naturalmente, non impedisce al legislatore di considerare l’opportunità di un’estensione della misura a tutti i detenuti – padri e madri – non socialmente pericolosi, nel quadro di un complessivo bilanciamento tra tutti gli interessi individuali e collettivi coinvolti. Una tale scelta potrebbe, anzi, valorizzare ulteriormente il principio costituzionale del minimo sacrificio necessario della libertà personale.
Ma una simile decisione, a giudizio di questa Corte, resta allo stato riservata alla discrezionalità del legislatore, non potendo considerarsi imposta né dalle norme costituzionali, né da quelle convenzionali evocate dai rimettenti.
Dal che la non fondatezza anche delle censure formulate in riferimento agli artt. 3, 29, 30, 31 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU.
5.3.– Nemmeno è fondata la censura formulata dal solo Tribunale di sorveglianza di Venezia in riferimento all’art. 27, terzo comma, Cost.
Assume il rimettente che la differente disciplina di accesso alla misura per padri e madri condannati si tradurrebbe in un pregiudizio per la stessa funzione rieducativa della pena nei confronti del detenuto, «perpetrando una concezione oggi non più accettabile (né rispondente alla realtà) dei ruoli sociali e all’interno della famiglia».
L’argomento è, in verità, meramente ancillare rispetto a quelli addotti a sostegno delle censure appena esaminate, e ritenute non fondate per le ragioni sin qui illustrate. Esso potrebbe essere considerato al più meritevole di attenzione da parte del legislatore, ma non certo di tale pregnanza da condurre addirittura a una dichiarazione di incompatibilità con la finalità rieducativa della pena di una disciplina che – per ragioni ritenute costituzionalmente non insostenibili da questa Corte – tuttora differenzia il ruolo della madre e del padre in materia di concessione delle misure alternative alla detenzione.
5.4.– In conclusione, nessuna delle censure che investono l’inciso «se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre» è fondata.
Spetterà al prudente apprezzamento del giudice di sorveglianza valutare se e in che misura il concetto di “impossibilità” della madre possa essere esteso, in via interpretativa, anche a situazioni – diverse dal mero svolgimento di un’attività lavorativa da parte della madre, in presenza di supporti familiari o sociali che garantiscano la necessaria cura dei minori durante i suoi orari di lavoro – in cui l’eccezionalità del carico connesso ai doveri di cura renda inesigibile che la sola madre vi faccia efficacemente fronte, in relazione ad esempio alle gravi patologie di cui il minore soffra e alle sue necessità di continua assistenza (sul punto, si veda anche Cass., n. 4796 del 2021).
6.– Rimangono infine da esaminare le censure, formulate in via subordinata dal Tribunale di sorveglianza di Bologna, concernenti il solo frammento normativo «e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre», le quali mirano a consentire al padre detenuto di accedere alla detenzione domiciliare speciale quanto meno allorché la madre sia deceduta o sia comunque impossibilitata a provvedere alla cura e all’educazione del figlio.
Le questioni sono fondate in riferimento agli artt. 3, 30 e 31, secondo comma, Cost., sulla base dei principi già enunciati nella sentenza n. 219 del 2023, restando assorbiti gli ulteriori parametri.
6.1.– Come già rammentato, in tale sentenza si è affermato che il principio dell’interesse preminente del minore – desunto dalle citate previsioni costituzionali, interpretate alla luce delle pertinenti norme internazionali e dell’Unione europea (ampiamente sul punto sentenza n. 102 del 2020, punto 4.1. del Considerato in diritto) – richiede che gli interessi sottesi all’esecuzione intramuraria della pena debbano, di regola, cedere di fronte all’esigenza di assicurare che i minori in tenera età possano godere di una relazione diretta con almeno uno dei due genitori.
Di tale esigenza si è fatto carico il legislatore in numerose discipline, tra cui le due evocate dal rimettente quali tertia comparationis:
– l’art. 47-ter, comma 1, lettera b), ordin. penit., che ammette il detenuto padre alla misura, strutturalmente analoga, della detenzione domiciliare “ordinaria” nel caso di decesso o assoluta impossibilità della madre a far fronte alla propria responsabilità genitoriale, senza richiedere l’ulteriore condizione dell’assenza di altre persone in grado di prendersi cura dei figli; e
– l’art. 275, comma 4, cod. proc. pen., che stabilisce tra l’altro il divieto di disporre la custodia cautelare in carcere a carico del padre del figlio di età non superiore a sei anni, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, in presenza delle medesime condizioni previste dall’art. 47-ter, comma 1, lettera b), ordin. penit.
In particolare il primo tertium è certamente omogeneo rispetto alla disciplina ora censurata, come questa Corte ha più volte sottolineato, evidenziando l’identità di ratio della detenzione domiciliare “ordinaria” e speciale, allorché siano disposte in funzione della cura dei figli minori o con disabilità (ex multis, sentenze n. 30 del 2022, punto 5.2. del Considerato in diritto; n. 18 del 2020, punto 3.3. del Considerato in diritto).
Contrariamente a quanto sostenuto dall’Avvocatura generale dello Stato, non pare d’altra parte a questa Corte che la sola circostanza che i condannati ai quali può applicarsi la detenzione domiciliare speciale debbano scontare una pena detentiva (anche residua) più lunga rispetto a quelli ai quali può applicarsi la detenzione domiciliare “ordinaria” valga a giustificare il sacrificio addizionale imposto a soggetti estranei rispetto al reato (i figli minori del condannato). Per effetto della disposizione censurata, essi si vedono attualmente, senza eccezioni, privati della possibilità di vivere una relazione continuativa con l’unico genitore ancora in vita, o comunque in condizioni di assolvere le proprie responsabilità di cura.
Ciò che resta fondamentale è, piuttosto, l’attento accertamento, da parte del giudice della sorveglianza, con il necessario supporto dei servizi sociali, non solo che il padre condannato non manifesti «un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti» (e di fuga, nelle ipotesi del comma 1-bis), ma altresì che il ripristino della convivenza con i figli minori, in alternativa rispetto all’affidamento di costoro a terze persone in grado di prendersene cura, risponda effettivamente ai loro interessi, alla cui tutela è finalizzata la misura alternativa in esame; e che tale rispondenza sia poi concretamente verificata durante l’esecuzione della misura, attraverso i controlli stabiliti dall’art. 284, comma 4, cod. proc. pen. (richiamato dal comma 3 dell’art. 47-quinquies ordin. penit.), nonché dal comma 5 dello stesso art. 47-quinques ordin. penit. Ciò al fine, in particolare, di evitare ogni impropria strumentalizzazione dei minori al solo scopo di ottenere il beneficio da parte di un padre in realtà non idoneo alla cura degli stessi.
6.2.– Deve, pertanto, dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, comma 7, limitatamente alle parole «e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre».
7.– Il Tribunale di sorveglianza di Bologna ha sollecitato questa Corte a valutare, in caso di accoglimento della questione sollevata in via subordinata, la possibilità di estendere in via consequenziale la dichiarazione di illegittimità costituzionale all’art. 21-bis ordin. penit., che disciplina l’assistenza all’esterno dei figli minori, e che parimenti subordina la concedibilità del beneficio alla condizione che la madre sia detenuta o impossibilitata, e non vi sia modo di affidare la prole ad altri che al padre.
L’Avvocatura dello Stato ha formulato, in proposito, un’eccezione di inammissibilità di una simile «questione», che tuttavia non può essere considerata tale: il che toglie ogni sostanza all’eccezione. La decisione di estendere, in via consequenziale, a una disposizione distinta da quella censurata la dichiarazione di illegittimità costituzionale, ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, è in effetti frutto di una valutazione che questa Corte compie di volta in volta motu proprio, laddove ritenga sussistere i requisiti indicati dalla legge. Tale valutazione non è dunque vincolata da eventuali sollecitazioni da parte dell’ordinanza di rimessione; sollecitazioni che, peraltro, il giudice a quo resta libero di formulare, in chiave di mero suggerimento.
Dal momento che l’art. 21-bis ordin. penit. disciplina un istituto distinto da quello in questa sede esaminato, e che peraltro non viene in considerazione nel caso oggetto del giudizio a quo, questa Corte non ritiene sussistenti i presupposti di cui all’art. 27 della legge n. 87 del 1953.