Corte Costituzionale, sentenza 20 marzo 2025, n. 31
PRINCIPIO DI DIRITTO
Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera a), numero 2), del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo 2019, n. 26, nella parte in cui prevedeva che il beneficiario del reddito di cittadinanza dovesse essere residente in Italia «per almeno 10 anni», anziché prevedere «per almeno 5 anni»
Vanno, altresì, dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera a), del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, sollevate, in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, e 7, paragrafo 2, del regolamento (UE) n. 492/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 aprile 2011, relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione, dalla Corte d’appello di Milano, sezione lavoro.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Milano, sezione lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, in riferimento agli artt. 3, 11 e 117, primo comma, Cost., questi ultimi in relazione agli artt. 21 e 34 CDFUE, 24, paragrafo 1, della direttiva 2004/38/CE e 7, paragrafo 2, del regolamento n. 2011/492/UE.
Tra i requisiti stabiliti per il riconoscimento del reddito di cittadinanza, la disposizione censurata prevedeva che il beneficiario dovesse essere «residente in Italia per almeno 10 anni, di cui gli ultimi due, considerati al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata dell’erogazione del beneficio, in modo continuativo».
Secondo il giudice a quo – le cui censure non toccano affatto la previsione che la residenza permanga durante l’erogazione del beneficio – il suddetto requisito di residenza pregressa violerebbe l’art. 3 Cost., non essendo ragionevolmente correlabile alla ratio della prestazione in esame e determinando, inoltre, una discriminazione indiretta nei confronti dei cittadini degli altri Stati membri dell’Unione europea.
La stessa previsione si porrebbe in contrasto anche con la parità di trattamento e con il divieto di discriminazione previsti dalle evocate disposizioni del diritto dell’Unione.
2.– La disciplina del Rdc, compresa la disposizione censurata, è stata abrogata a decorrere dal 1° gennaio 2024, ai sensi di quanto disposto dall’art. 1, comma 318, della legge n. 197 del 2022.
Tale sopravvenienza normativa – eccepiscono in via preliminare l’Avvocatura generale dello Stato e l’INPS nelle memorie depositate – determinerebbe la sopravvenuta irrilevanza della questione.
Ciò in quanto, a seguito dall’abrogazione del Rdc, per effetto del venir meno delle strutture e delle procedure finalizzate al reinserimento lavorativo e sociale del beneficiario, non sarebbe più possibile né sottoscrivere il Patto per il lavoro, né individuare i percorsi di formazione idonei; pertanto procedendo all’astratto riconoscimento giudiziario del diritto delle parti ricorrenti, si darebbe luogo ad un mutamento della natura giuridica della prestazione, che, da misura di inclusione sociale e lavorativa si trasformerebbe in mero sussidio economico sganciato dalla finalità propria della disciplina legislativa in materia.
Le eccezioni non sono fondate.
L’intervenuta abrogazione della disposizione censurata non incide, infatti, sulla rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale, la cui ammissibilità, sotto questo profilo, permane intatta, dovendo il giudice a quo pronunciarsi sulla domanda di accertamento del carattere discriminatorio della sospensione della erogazione del Rdc nei confronti delle parti ricorrenti, realizzata dall’INPS in attuazione della previsione indubbiata nel periodo in cui questa era in vigore.
Altrettanto è a dirsi con riferimento all’ulteriore domanda, spiegata nel giudizio principale, di condanna dell’INPS al risarcimento del danno per la suddetta discriminazione. Tale pronuncia non costituirebbe un riconoscimento ex novo del beneficio ormai cessato, come sostenuto dall’Avvocatura e dall’INPS, rappresentando piuttosto un rimedio per una condotta posta in essere nella vigenza della disposizione censurata, fermo restando per il giudice il compito di individuare i criteri di quantificazione del danno applicabili alla fattispecie.
3.– L’INPS ha eccepito l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sotto due profili.
3.1.– Anzitutto, il giudice a quo non avrebbe accertato la sussistenza degli altri requisiti previsti dalla disciplina del Rdc in capo ai soggetti richiedenti.
L’eccezione non è fondata, avendo il giudice rimettente affermato che il riconoscimento del Rdc in capo alle parti ricorrenti dipenderebbe «solamente dal possesso o meno del requisito della lunga residenza»; si tratta di una motivazione sufficiente ai fini della rilevanza, «tenuto conto anche del carattere “esterno” del controllo operato da questa Corte sul punto» (sentenza n. 19 del 2022; nello stesso senso, sentenza n. 34 del 2022).
3.2.– Secondo l’Istituto, inoltre, il giudice a quo avrebbe qualificato il ricorso introduttivo come un’azione contro la discriminazione, senza che, tuttavia, ne ricorressero le condizioni, essendosi l’INPS limitata a riscontrare che le parti richiedenti non possedevano i requisiti previsti dalla legge. Pertanto, la soluzione del dubbio di costituzionalità non sarebbe utile, non potendo rendere antigiuridico un comportamento che tale non era quando è stato realizzato.
Neppure tale eccezione è fondata: più volte questa Corte ha deciso nel merito «questioni originate da azioni anti-discriminazione proposte contro atti applicativi di una norma legislativa (sentenze n. 44 del 2020, n. 166 del 2018 e n. 119 del 2015)» (sentenza n. 19 del 2022).
4.– Ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato le questioni di legittimità costituzionale sollevate sarebbero inammissibili perché non sussisterebbero, in realtà, «gli estremi della “doppia pregiudizialità”»: nella specie, la prospettata violazione delle disposizioni del diritto dell’Unione – gli artt. 24, paragrafo 1, della direttiva 2004/38/CE e 7, paragrafo 2, del regolamento n. 2011/492/UE, considerati attuativi degli artt. 21 e 34 CDFUE – non si sovrapporrebbe, quanto piuttosto si affiancherebbe, al denunciato contrasto con l’art. 3 Cost. In relazione alle prime, il giudice a quo avrebbe quindi dovuto proporre rinvio pregiudiziale avanti alla Corte di giustizia dell’Unione europea.
4.1.– La prospettazione della difesa statale non può essere condivisa.
Al riguardo il giudice rimettente, nell’introdurre i dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, giustifica esplicitamente la scelta di proporre l’incidente di costituzionalità «in considerazione del fatto che la norma interna sopra citata vìola non solo principi eurounitari, ma anche principi costituzionali», e richiama «l’ormai costante orientamento sulla doppia pregiudizialità» di questa Corte, a partire dalla sentenza n. 269 del 2017, di cui riporta ampi passaggi.
Soprattutto, nel motivare la non manifesta infondatezza delle questioni, il giudice a quo articola i profili della discriminazione indiretta che porterebbero la disposizione interna a violare, in stretta connessione, da un lato, il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost. e, dall’altro, quello di non discriminazione espresso dall’art. 21 della Carta, nella specie attuato dal richiamato art. 24, paragrafo 1, della direttiva 2004/38/CE, secondo cui, «ogni cittadino dell’Unione che risiede», in base alla direttiva stessa, «nel territorio dello Stato membro ospitante gode di pari trattamento rispetto ai cittadini di tale Stato nel campo di applicazione del trattato».
Non vi è dubbio che, ravvisando una discriminazione avente a oggetto l’esercizio del diritto di soggiorno in base alla citata direttiva e, al contempo, una violazione del «principio di eguaglianza, che ha valore fondante nel disegno costituzionale» (sentenza n. 1 del 2025), la questione sollevata assume un “tono costituzionale”. Pertanto, una volta che il giudice abbia individuato l’incidente di costituzionalità come «rimedio più appropriato, ponderando le peculiarità della vicenda sottoposta al suo esame» (ancora sentenza n. 1 del 2025) – sulla base, nella specie, della evidente idoneità di una pronuncia ad efficacia erga omnes a rimuovere in radice la discriminazione – questa Corte potrà rispondere a tali censure «con gli strumenti che le sono propri e che comprendono una vasta gamma di tecniche decisorie» (di nuovo sentenza n. 1 del 2025 e ordinanza n. 21 del 2025), contribuendo ad assicurare piena effettività al diritto dell’Unione in modo «sempre più integrato» (sentenze n. 7 e n. 1 del 2025, n. 181 e n. 15 del 2024), dovendosi escludere che il sindacato accentrato di costituzionalità si ponga in antitesi con un meccanismo diffuso di attuazione del diritto europeo.
Ciò vale a maggior ragione quando i «principi e i diritti enunciati nella Carta intersecano […] i principi e i diritti garantiti dalla Costituzione italiana» sì che «la violazione di un diritto della persona infranga, ad un tempo, sia le garanzie presidiate dalla Costituzione italiana, sia quelle codificate dalla Carta dei diritti dell’Unione» (sentenza n. 269 del 2017).
In questa evenienza di overlapping di tutele di livello costituzionale, sussiste l’opportunità «di un intervento erga omnes di questa Corte, anche in virtù del principio che situa il sindacato accentrato di costituzionalità delle leggi a fondamento dell’architettura costituzionale» (ancora sentenza n. 269 del 2017), con conseguente possibile assorbimento della denunciata violazione del diritto europeo, ferma restando la possibilità, per il giudice comune, del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia o, ricorrendone i presupposti, della non applicazione.
5.– Sempre in via preliminare, pur in assenza di eccezione sul punto, va dichiarata l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate, per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 34 CDFUE e 7, paragrafo 2, del regolamento n. 2011/492/UE.
5.1.– Quanto alla disposizione della Carta, il rimettente si limita a menzionarla, affermandone la violazione, ma senza fornire alcun argomento diretto, in particolare, a illustrare «il presupposto di applicabilità della CDFUE, cioè la circostanza che le norme sul reddito di cittadinanza rappresentino “attuazione del diritto dell’Unione” ai sensi del suo art. 51», con conseguente inammissibilità della relativa questione per insufficiente motivazione sulla non manifesta infondatezza (sentenza n. 19 del 2022).
5.2.– Quanto alla censura basata sulla violazione dell’art. 7, paragrafo 2, del regolamento n. 2011/492/UE, essa sconta una carente descrizione della fattispecie oggetto del giudizio a quo.
Sebbene il principio di parità di trattamento riconosciuto dalla citata previsione operi a favore del lavoratore cittadino di un Paese membro presente nel territorio di un altro Stato dell’Unione, al cui mercato del lavoro abbia «già avuto accesso» (Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, sentenza 6 ottobre 2020, in causa C-181/19, Jobcenter Krefeld, punto 45), l’ordinanza, sotto questo profilo, «non contiene indicazioni sufficienti ad una corretta ricostruzione della fattispecie oggetto del giudizio a quo, necessaria al fine di valutare tanto la rilevanza della questione di legittimità costituzionale, quanto la non manifesta infondatezza della stessa» (sentenza n. 128 del 2014 e, nello stesso senso, sentenze n. 256 del 2022 e n. 56 del 2015).
Inoltre, l’ordinanza non fornisce argomenti sulla possibilità di qualificare il Rdc come «vantaggio sociale», di cui il lavoratore cittadino di un altro Stato membro deve godere al pari del lavoratore nazionale ai sensi del richiamato art. 7, paragrafo 2; peraltro, nemmeno prende in considerazione che, coerentemente con la prevalente funzione di misura di politica attiva del lavoro e di inclusione sociale, l’accesso al Rdc non implica lo status di lavoratore.
Pertanto, sotto il profilo appena evidenziato, l’evocazione della suddetta previsione del diritto dell’Unione risulta del tutto sfornita di motivazione, discendendone la inammissibilità della questione sollevata.
6.– Va, infine, esaminata l’eccezione di inammissibilità che l’Avvocatura indirizza alle questioni sollevate dal rimettente in via subordinata, dirette a conseguire una pronuncia che limiti il requisito di residenza pregressa al periodo di cinque anni precedente alla domanda (di cui gli ultimi due in modo continuativo), oppure, in ulteriore subordine, al periodo di due anni continuativi prima della domanda.
Secondo la difesa statale, avendo il legislatore utilizzato per il Rdc criteri selettivi ad hoc, risulterebbe precluso ricavare, da discipline di altri istituti, validi punti di riferimento per una pronuncia di tipo sostitutivo.
6.1.– L’eccezione non è fondata.
La possibilità di adottare pronunce sostitutive, costantemente ammessa dalla giurisprudenza di questa Corte, consegue dall’accertamento di «un vulnus a un principio o a un diritto riconosciuti dalla Costituzione» (sentenza n. 6 del 2024), a fronte del quale «non può essere di ostacolo all’esame nel merito della questione l’assenza di un’unica soluzione a “rime obbligate” per ricondurre l’ordinamento al rispetto della Costituzione, ancorché si versi in materie riservate alla discrezionalità del legislatore» (sentenza n. 138 del 2024).
7.– Le questioni sono fondate nei termini che seguono in riferimento all’art. 3 Cost.
7.1.– Le numerose pronunce in cui questa Corte si è occupata del Rdc sono state tutte risolte a partire dall’affermazione di una interpretazione, funzionale a inquadrarne correttamente la natura all’interno del sistema costituzionale, che è stata ripetutamente ribadita in termini univoci (sentenze n. 1 del 2025, n. 54 del 2024, n. 34 e n. 19 del 2022, n. 137, n. 126 e n. 7 del 2021; ordinanza n. 29 del 2024).
Ai fini della decisione delle questioni considerate in quei giudizi, infatti, è risultato sempre dirimente evidenziare la peculiarità strutturale e funzionale di questa misura, dove la componente di integrazione al reddito è strettamente condizionata al conseguimento di obiettivi di inserimento nel mondo del lavoro e comunque di inclusione sociale, che richiedono il coinvolgimento attivo del beneficiario.
Fin dall’inizio di questo filone giurisprudenziale si è quindi chiarito che «la disciplina del reddito di cittadinanza definisce un percorso di reinserimento nel mondo lavorativo che va al di là della pura assistenza economica»: mentre le prestazioni di assistenza sociale vere e proprie si «fonda[no] essenzialmente sul solo stato di bisogno», il Rdc prevede «un sistema di rigorosi obblighi e condizionalità», che strutturano un percorso formativo e d’inclusione, «il cui mancato rispetto determina, in varie forme, l’espulsione dal percorso medesimo» (sentenza n. 126 del 2021 e, in termini simili, sentenza n. 122 del 2020).
L’erogazione del Rdc, infatti, «“è condizionata alla dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro da parte dei componenti il nucleo familiare maggiorenni, […] nonché all’adesione ad un percorso personalizzato di accompagnamento all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale che prevede attività al servizio della comunità, di riqualificazione professionale, di completamento degli studi, nonché altri impegni individuati dai servizi competenti finalizzati all’inserimento nel mercato del lavoro e all’inclusione sociale” (art. 4, comma 1). Questo percorso si realizza o con il Patto per il lavoro (stipulato presso un centro per l’impiego e che “deve contenere gli obblighi e gli impegni previsti dal comma 8, lettera b”, che riguardano essenzialmente la ricerca attiva del lavoro e l’accettazione delle offerte congrue) o con il Patto per l’inclusione sociale, stipulato presso i servizi comunali competenti per il contrasto della povertà (art. 4, commi 7 e 12). Si tratta di due “canali” comunicanti, nel senso che il beneficiario convocato dal centro per l’impiego può essere inviato al servizio comunale e viceversa (art. 4, commi 5-quater e 12). Il Patto per l’inclusione sociale comprende anche gli “interventi per l’accompagnamento all’inserimento lavorativo” (art. 4, comma 13)» (sentenza n. 19 del 2022).
Si è quindi ribadito che: «il reddito di cittadinanza, pur presentando anche tratti propri di una misura di contrasto alla povertà, non si risolve in una provvidenza assistenziale diretta a soddisfare un bisogno primario dell’individuo, ma persegue diversi e più articolati obiettivi di politica attiva del lavoro e di integrazione sociale. A tale sua prevalente connotazione si collegano coerentemente la temporaneità della prestazione e il suo carattere condizionale, cioè la necessità che ad essa si accompagnino precisi impegni dei destinatari, definiti in Patti sottoscritti da tutti i componenti maggiorenni del nucleo familiare (salve le esclusioni di cui all’art. 4, commi 2 e 3, del d.l. n. 4 del 2019). È inoltre prevista la decadenza dal beneficio nel caso in cui un solo componente non rispetti gli impegni (art. 7, comma 5, del d.l. n. 4 del 2019)» (ancora sentenza n. 19 del 2022).
In definitiva, gli strumenti apprestati non consistono in meri sussidi per rispondere alla situazione di povertà, dal momento che il beneficio economico erogato è inscindibile da una più complessa e qualificante componente di inclusione attiva, diretta a incentivare la persona nell’assunzione di una responsabilità sociale, che si realizza attraverso la risposta positiva agli impegni contenuti in un percorso appositamente predisposto e che dovrebbe condurre, per questa via, all’uscita dalla condizione di povertà.
Non incoerentemente, quindi, il mancato rispetto degli impegni priva il soggetto del beneficio economico, in conseguenza dell’interruzione del percorso che era stato condiviso tra il beneficiario e il sistema pubblico.
All’interno di questa peculiare struttura della misura, si giustificano anche le ulteriori condizionalità e preclusioni che la connotano, anch’esse finalizzate al percorso di integrazione sociale.
Al riguardo, questa Corte ha giudicato non incoerente la sospensione del Rdc per il venir meno degli specifici requisiti di onorabilità necessari sia per accedere che per mantenere il Rdc, ovvero la mancata soggezione a una misura cautelare personale e l’assenza di condanna per taluni specifici reati intervenuta nei dieci anni antecedenti (sentenze n. 169 del 2023, n. 126 del 2021 e n. 122 del 2020).
Nella medesima prospettiva, la sentenza n. 54 del 2024 ha ritenuto «coerente con tale natura del Rdc la previsione, contenuta nell’art. 5, comma 6, sesto periodo, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, che “[a]l fine di prevenire e contrastare fenomeni di impoverimento e l’insorgenza dei disturbi da gioco d’azzardo (DGA), [ha] in ogni caso fatto divieto di utilizzo del beneficio economico per giochi che prevedono vincite in denaro o altre utilità”»; ha quindi precisato che «[i]l principio di eguaglianza sostanziale, alla cui attuazione il Rdc è peraltro riconducibile, non può certo essere invocato a sostegno di una questione di legittimità costituzionale nell’interesse di chi ha travolto le regole fondamentali dell’istituto, alterandone così la natura».
La stessa temporaneità della misura (diciotto mesi, rinnovabili) è stata ricollegata alla sua precipua natura, che non si risolve in mero sussidio economico per contrastare la povertà, ma si presenta diversamente articolata, mirando a offrire chances di integrazione sociale e lavorativa.
È evidente che una simile struttura, fondata sulla temporaneità, precisi obblighi e soprattutto rigide condizionalità persino in grado, se disattese, di determinare il venir meno del diritto alla prestazione, risulterebbe del tutto inconciliabile con il carattere meramente assistenziale e quindi con le caratteristiche tipiche delle vere e proprie prestazioni di assistenza sociale, dove invece prevale l’esigenza, sostanzialmente incondizionata, di rispondere ai bisogni primari, «indifferenziabili e indilazionabili» (sentenza n. 166 del 2018), cui sono relative (ex plurimis, sentenza n. 42 del 2024 e ordinanza n. 29 del 2024).
Nella sentenza n. 137 del 2021, del resto, è stata ritenuta in contrasto con gli artt. 3 e 38 Cost. la revoca di prestazioni assistenziali di quest’ultimo tipo, fondate sullo stato di bisogno, persino ai condannati in via definitiva per reati di mafia o terrorismo, i quali stiano scontando la pena in modalità alternativa alla detenzione.
Si è infatti precisato che, sebbene queste persone abbiano gravemente violato il patto di solidarietà sociale che è alla base della convivenza civile, «attiene a questa stessa convivenza civile che ad essi siano comunque assicurati i mezzi necessari per vivere».
7.2.– La descritta natura del Rdc – affermata dalla giurisprudenza di questa Corte in termini di interpretazione costituzionalmente orientata (necessaria perché, qualora fosse inteso quale prestazione meramente assistenziale, il Rdc non potrebbe che rivelarsi intrinsecamente contraddittorio e irragionevole alla luce dei principi costituzionali) – deve essere ancora ribadita in questa sede, senza che a ciò possa ritenersi d’ostacolo la recente sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, 29 luglio 2024, nelle cause riunite C-112/22, C. U. e C-223/22, N. D.
In tale pronuncia, infatti, la Corte di giustizia, come di consueto, ha interpretato il diritto dell’Unione, ma non ha operato un sindacato sull’esattezza, o no, dell’interpretazione del diritto nazionale, quale offerta dal giudice del rinvio pregiudiziale. Essa quindi, da un lato, ha sì affermato che «spetta al giudice del rinvio stabilire se il “reddito di cittadinanza” di cui trattasi nei procedimenti principali costituisca una prestazione sociale» e che proprio tale giudice (il Tribunale di Napoli) «constata nelle sue domande di pronuncia pregiudiziale che il “reddito di cittadinanza” costituisce una prestazione di assistenza sociale volta a garantire un livello minimo di sussistenza, rientrante in uno dei tre settori indicati all’articolo 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109, ossia le prestazioni sociali, l’assistenza sociale e la protezione sociale, ai sensi della legislazione nazionale».
Dall’altro, tuttavia, la stessa Corte non ha affatto avallato tale interpretazione del Tribunale di Napoli, perché ha chiaramente precisato che «indipendentemente dalle critiche espresse dal governo di uno Stato membro nei confronti dell’interpretazione del diritto nazionale adottata dal giudice del rinvio, l’esame delle questioni pregiudiziali dev’essere effettuato sulla base di tale interpretazione e non spetta alla Corte verificarne l’esattezza».
Solo sulla scorta di tale premessa – che espressamente riconosce come tale interpretazione sia suscettibile di verifica da parte degli organi a cui invece istituzionalmente spetta, secondo l’ordinamento nazionale, proprio verificarne l’esattezza – la sentenza è giunta a ritenere che «il “reddito di cittadinanza” di cui trattasi nei procedimenti principali costituisce una misura rientrante nell’ambito di applicazione dell’articolo 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109, letto alla luce dell’articolo 34 della Carta».
7.3.– In definitiva, la sentenza della Corte di giustizia non ha verificato l’esattezza dell’interpretazione proposta dal giudice del rinvio, ovvero dal Tribunale di Napoli, in ordine alla natura del Rdc, ma ha correttamente rimesso tale verifica al sistema giurisdizionale e costituzionale che è deputato a garantire l’uniforme applicazione del diritto interno.
Del resto, se è indiscutibile che alla Corte di giustizia spetta l’interpretazione dei trattati e del diritto derivato, al fine di assicurarne l’uniforme applicazione in tutti gli Stati membri, è parimenti indiscutibile che l’interpretazione della Costituzione è riservata a questa Corte, così come la funzione di nomofilachia del diritto nazionale lo è alla Corte di cassazione, essendo orientate ad assicurare anche la certezza del diritto.
8.– Una volta ribadita la natura del Rdc, occorre confrontarsi con le questioni poste dal giudice rimettente, che prospetta in primo luogo il contrasto con l’art. 3 Cost., ritenendo che il radicamento territoriale dei dieci anni richiesto dalla disciplina censurata risulti del tutto privo di giustificazione e non proporzionato.
In particolare, il requisito dei dieci anni non risponderebbe «ai requisiti di ragionevole correlabilità» con il Rdc, dato che tale «tempo sproporzionato» di residenza, sebbene richiesto «indifferentemente per italiani e stranieri», determinerebbe quantomeno una discriminazione indiretta a danno dei cittadini di altri Stati membri.
8.1.– Va precisato che, nella sentenza n. 19 del 2022, questa Corte si è confrontata, escludendone l’illegittimità costituzionale, solo con l’altro requisito, previsto dall’art. 2, comma 1, lettera a), numero 1), del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, del possesso del permesso di lungo soggiorno per i cittadini di Paesi terzi, e quindi della residenza per almeno cinque anni continuativi sul territorio nazionale, necessaria per conseguire tale permesso.
In tale pronuncia, in ogni caso, è stato messo in evidenza che gli obiettivi del Rdc implicano «una complessa operazione di inclusione sociale e lavorativa, che il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, non irragionevolmente ha destinato agli stranieri soggiornanti in Italia a tempo indeterminato. In questa prospettiva di lungo o medio termine del reddito di cittadinanza, la titolarità del diritto di soggiornare stabilmente in Italia non si presenta come un requisito privo di collegamento con la ratio della misura concessa, sicché la scelta di escludere gli stranieri regolarmente soggiornanti, ma pur sempre privi di un consolidato radicamento nel territorio, non può essere giudicata esorbitante rispetto ai confini della ragionevolezza».
È quindi anche il radicamento territoriale, e non solo la mera prospettiva di stabilità – come invece ritenuto dal giudice a quo –, ad essere stato considerato in tale pronuncia.
In questa prospettiva, del resto, nel valutare la ragionevolezza di tale criterio può essere considerata non solo la complessità delle attività richieste alle pubbliche amministrazioni per realizzare le politiche attive del lavoro e di inclusione sociale, ma anche l’entità delle risorse finanziarie destinate alla attuazione della misura.
Rispetto alla precedente misura – il reddito di inclusione (il cosiddetto ReI), che richiedeva solo due anni di residenza – si è, infatti, realizzato un forte salto di livello, poiché: a) la consistenza del beneficio economico è più che raddoppiata per ciascun nucleo familiare, garantendo una provvidenza che potrebbe, per il suo ammontare, esporre lo Stato italiano a migrazioni puramente “assistenziali”; b) la stessa platea dei nuclei beneficiari è fin dall’inizio raddoppiata; c) le risorse finanziarie stanziate dal bilancio dello Stato sono più che triplicate; d) è stato necessario un rafforzamento della struttura organizzativa con l’assunzione di personale da parte delle pubbliche amministrazioni coinvolte nell’attuazione del Rdc.
In considerazione di tali elementi caratterizzanti non può essere accolta la questione prospettata in via principale dal giudice rimettente, che porterebbe, in sostanza, ad annullare completamente il requisito di radicamento territoriale in base alla residenza, rendendo sufficiente solo quello, per i cittadini degli Stati membri, del diritto di soggiorno.
Non trattandosi di una prestazione meramente assistenziale, un requisito di radicamento territoriale non è di per sé implausibile: questa Corte, del resto, rispetto a una misura (attinente alla concessione di mutui agevolati) che non ha incidenza su diritti fondamentali, ha precisato che «non è manifestamente irragionevole, nel contesto di risorse finanziarie comunque non illimitate, che il legislatore valorizzi la posizione di chi rispetto al territorio già vanti un legame duraturo», per cui non ha censurato «il requisito della residenza protratta per almeno otto anni» (sentenza n. 53 del 2024).
Un requisito di residenza pregressa, peraltro, non appare, di per sé, determinare una violazione del divieto di discriminazione indiretta e delle relative disposizioni del diritto dell’Unione, che pure vengono in considerazione nella questione in esame. Per quanto un tale requisito ponga di fatto il cittadino italiano in una posizione più favorevole, non di meno la discriminazione indiretta ben può ritenersi giustificata quando sussistono ragioni che la rendono necessaria e proporzionata.
La stessa Corte di giustizia (grande sezione, sentenza 15 luglio 2021, in causa C-709/20, C. G.) ha, in particolare, precisato che riconoscere ai cittadini di Stati membri che non beneficiano di un diritto di soggiorno in forza della direttiva 2004/38/CE la fruizione «di prestazioni di assistenza sociale allo stesso titolo dei cittadini nazionali […] rischierebbe di consentire a cittadini dell’Unione economicamente inattivi di utilizzare il sistema di protezione sociale dello Stato membro ospitante per finanziare il proprio sostentamento (v., in tal senso, sentenza dell’11 novembre 2014, Dano, C‑333/13 […], punti 74, 76 e 77 e la giurisprudenza ivi citata)». Per cui «uno Stato membro ha la possibilità, ai sensi dell’articolo 7 della direttiva 2004/38, di negare la concessione di prestazioni di assistenza sociale a cittadini dell’Unione economicamente inattivi che esercitino la libertà di circolazione e che non dispongano delle risorse sufficienti per poter rivendicare il beneficio del diritto di soggiorno ai sensi di tale direttiva».
La Corte di giustizia ha anche precisato che l’esigenza di garantire l’esistenza di «nesso reale tra il richiedente una prestazione e lo Stato», nonché di «garantire l’equilibrio finanziario» del sistema sociale nazionale «costituiscono, in linea di principio, obiettivi legittimi idonei a giustificare restrizioni ai diritti di libera circolazione e di soggiorno previsti dall’art. 21 TFUE» (sentenza 21 luglio 2011, in causa C-503/09, Stewart, punti 89 e 90).
Coerentemente con questa posizione, a livello dell’Unione europea, la recente raccomandazione del Consiglio del 30 gennaio 2023, relativa a un adeguato reddito minimo che garantisca l’inclusione attiva, consente chiaramente agli Stati membri, per l’accesso a prestazioni aventi struttura e funzioni analoghe a quelle del Rdc, il ricorso al criterio selettivo basato sulla residenza protratta, anche in considerazione dell’esigenza di salvaguardare «la sostenibilità delle finanze pubbliche», purché «la durata del soggiorno legale sia proporzionata».
In questa prospettiva, il considerando n. 22 della suddetta raccomandazione precisa che «[l]’introduzione di criteri non discriminatori per l’accesso a un reddito minimo non pregiudica le eccezioni alla parità di trattamento previste o consentite dal diritto dell’Unione, come la direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio».
8.2.– Tuttavia, nonostante tali considerazioni – che non si oppongono, ex se, alla possibilità di prevedere un requisito di residenza pregressa, quando si tratti di prestazioni non meramente assistenziali caratterizzate da un complesso progetto di inclusione lavorativa e sociale – il periodo di residenza decennale istituisce una barriera temporale all’accesso al Rdc che trascende del tutto la ragionevole correlazione con le finalità di quest’ultimo.
A differenza di altre misure, come l’assegno sociale, che questa Corte ha ritenuto correlate allo «stabile inserimento dello straniero in Italia, nel senso che la Repubblica con esse ne riconosce e valorizza il concorso al progresso della società, grazie alla partecipazione alla vita di essa in un apprezzabile arco di tempo» (sentenza n. 50 del 2019 e ordinanza n. 29 del 2024), il progetto di inclusione previsto dal Rdc non guarda, come invece le suddette misure, al concorso realizzato nel passato, ma alle chances dell’integrazione futura, mirando alla prospettiva dello stabile inserimento lavorativo e sociale della persona coinvolta.
In quest’ottica il gravoso termine del pregresso periodo decennale non appare ragionevolmente correlato alla funzionalità precipua del Rdc e si pone in violazione dei principi di eguaglianza, di ragionevolezza e proporzionalità di cui all’art. 3 Cost.
Tali principi, infatti, si oppongono alla discriminazione, anche indiretta (come di recente ribadito con la sentenza n. 25 del 2025), prodotta da una barriera temporale, effetto del requisito censurato, che, sebbene applicato a ogni richiedente, appare artificialmente finalizzata al solo tentativo di limitare l’accesso alla prestazione, favorendo i cittadini italiani già residenti (più facilitati – come peraltro dimostrano i dati segnalati dal giudice rimettente – a integrare tale requisito), a scapito sia di quelli di altri Stati membri dell’Unione, sia di quelli di Paesi terzi.
Del resto, proprio il termine decennale è stato la causa dell’apertura di una procedura di infrazione da parte della Commissione europea nei confronti dell’Italia sia per la discriminazione indiretta, sia per la discriminazione a danno degli stessi italiani, a cui il requisito poteva, in effetti, precludere la possibilità di trasferirsi a lavorare fuori dal Paese.
Tale procedura è stata chiusa solo a seguito dell’abrogazione del Rdc a decorrere dal 1° gennaio 2024 e alla sua sostituzione con l’assegno di inclusione, dove il termine di residenza pregressa è stato ridotto a cinque anni, non più oggetto di contestazione a livello della Commissione europea.
8.3.– Alla luce di tutte queste considerazioni e nell’ottica di allontanarsi il meno possibile dal bilanciamento che, nella sua discrezionalità, è stato operato dal legislatore, la ragionevole correlazione con la misura del Rdc appare ricomponibile proprio in riferimento a quest’ultimo termine di cinque anni.
Questo dato temporale, infatti, non solo è quello assunto, come detto, dal legislatore nazionale all’interno dell’assegno di inclusione, “erede” del Rdc, ma è anche quello che, in sostanza, è stato giudicato non irragionevole, ai sensi dell’art. 3 Cost., da questa Corte nella sentenza n. 19 del 2022, in quanto dimostra la «relativa stabilità della presenza sul territorio»; non è poi di certo irrilevante che esso sia anche quello previsto dall’art. 16, paragrafo 1, della direttiva 2004/38/CE e quello che, da ultimo, è stato indicato dalla stessa sentenza della Corte di giustizia del 29 luglio 2024, nelle cause riunite C-112/22, C. U. e C-223/22, N. D., in riferimento a cittadini di Paesi terzi, come periodo che «testimoni[a] il “radicamento del richiedente nel paese in questione”».
Il termine di cinque anni si presenta, quindi, come una grandezza pre-data idonea a costituire un punto di riferimento presente nell’ordinamento (ex multis, sentenze n. 128, n. 90 e n. 6 del 2024 e n. 95 del 2022) utilizzabile al fine di ricomporre la ragionevole correlazione con il requisito di radicamento territoriale.
Deve quindi essere accolta la prima questione formulata in via subordinata dal giudice rimettente, per cui va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, nella parte in cui prevedeva che il beneficiario del reddito di cittadinanza dovesse essere residente in Italia «per almeno 10 anni», anziché prevedere «per almeno 5 anni», per violazione dell’art. 3 Cost.
8.4.– In questi termini, si ricompone armonicamente anche il rapporto con la sentenza della Corte di giustizia 29 luglio 2024, nelle cause riunite C-112/22, C. U. e C-223/22, N. D., dal momento che, in riferimento a qualsiasi cittadino, sia italiano, sia degli altri Stati membri, sia di Paesi terzi, viene espunto con efficacia erga omnes dall’ordinamento nazionale il requisito della residenza decennale, ritenuto, da tale sentenza, contrastante, in riferimento però ai soli cittadini di Paesi terzi, con l’ordinamento dell’Unione europea.
Si evita così, oltretutto, l’insorgere di una discriminazione alla rovescia altrimenti effettivamente prospettabile, come giustamente rilevato dalla difesa delle parti private, in relazione ai cittadini dell’Unione europea, che rimanevano ancora soggetti al termine decennale.
Infatti, come questa Corte ha già rilevato nella sentenza n. 1 del 2025, la «pronuncia di incostituzionalità, nel caducare un requisito che ha valenza generale, consente di porre rimedio alle incongruenze di una disciplina che per tutti, cittadini e stranieri, prescrive il requisito della residenza decennale. Si scongiura così il rischio delle “discriminazioni a rovescio”, che una disapplicazione, circoscritta ai soggiornanti di lungo periodo tutelati dalla direttiva 2003/109/CE, non mancherebbe di generare a danno degli altri beneficiari delle provvidenze».
9.– Restano assorbite le questioni sollevate in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., questi ultimi in relazione agli artt. 21 CDFUE e 24, paragrafo 1, della direttiva 2004/38/CE, e ogni altra questione.