Corte Costituzionale, sentenza 26 giugno 2025 n. 88
PRINCIPIO DI DIRITTO
Va chiarata inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 21-nonies, comma 1, della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 1, lettere b) e d), e 5, lettere a) e c), della Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, fatta a Faro il 27 ottobre 2005, ratificata e resa esecutiva con la legge 1° ottobre 2020, n. 133, dal Consiglio di Stato, sezione sesta, con la sentenza non definitiva;
Vanno, altresì, dichiarate non fondate le questioni di questioni di legittimità costituzionale dell’art. 21-nonies, comma 1, della legge n. 241 del 1990, sollevate, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 9, primo e secondo comma, e 97, secondo comma, Cost., dal Consiglio di Stato, sezione sesta, con la sentenza non definitiva
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
1.− Il Consiglio di Stato dubita, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 9, primo e secondo comma, 97, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 1, lettere b) e d), e 5, lettere a) e c), della Convenzione di Faro, della legittimità costituzionale dell’art. 21-nonies, comma 1, della legge n. 241 del 1990, nella parte in cui stabilisce il termine finale di un anno per l’esercizio del potere di annullamento di ufficio anche con riguardo alle autorizzazioni che incidono su interessi di rango «sensibile e di rango costituzionale», come la tutela del patrimonio storico e artistico nazionale.
La disposizione censurata prevede che il potere di annullamento di ufficio dei provvedimenti amministrativi illegittimi possa essere esercitato «entro un termine ragionevole» e che questo, nel solo caso dei «provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici», non possa, comunque, superare i «dodici mesi dal momento dell’adozione».
Di tale ultimo limite temporale è tuttavia esclusa l’applicazione − da parte del comma 2-bis del medesimo articolo – laddove i predetti atti ampliativi siano stati «conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato».
1.1.− Nei giudizi riuniti a quibus si controverte, in grado di appello, della illegittimità, per tardività, del provvedimento del novembre del 2021 di annullamento in autotutela di una autorizzazione all’esportazione (l’attestato di libera circolazione di cui all’art. 68 cod. beni culturali), rilasciata nel 2015, di un quadro presentato dal richiedente come olio su tela di «scuola italiana del XVI secolo, e raffigurante una figura femminile».
L’annullamento in autotutela, motivato sul riscontro del vizio di eccesso di potere per travisamento dei fatti dell’atto di primo grado, era stato esercitato poco dopo che l’amministrazione aveva appreso che l’opera, nel 2019 − in esito al suo restauro − era stata attribuita da uno storico dell’arte a Giorgio Vasari e di seguito esposta alla National Gallery di Londra.
Il giudice a quo − dopo avere escluso il ricorrere delle condizioni di inoperatività del termine annuale di cui al comma 2-bis – assume che le impugnazioni risulterebbero fondate per essere l’annullamento dell’attestato intervenuto ben oltre la scadenza fissa dei dodici mesi, ma prospetta un loro possibile diverso esito nel caso in cui, per effetto della invocata pronuncia di illegittimità costituzionale, il potere di riesame risultasse sottoposto al solo limite flessibile del «termine ragionevole», stabilito in via generale per i provvedimenti amministrativi.
1.2.− Secondo il rimettente, la previsione di una scadenza predeterminata per la funzione di riesame con riguardo alle autorizzazioni concernenti i beni culturali sarebbe manifestamente irragionevole e violerebbe al contempo i princìpi di buon andamento della pubblica amministrazione e della tutela del patrimonio storico e artistico in quanto, decorso il termine, sarebbe sancita l’automatica prevalenza della posizione individuale di affidamento sull’interesse pubblico di rilievo costituzionale, sulla prima tendenzialmente preponderante. Nella sostanza, la consumazione della potestà di autotutela impedirebbe all’amministrazione di rinnovare la cura dell’interesse «super-primario» alla protezione del patrimonio culturale sotteso al provvedimento illegittimo di “primo grado”, sottraendole ogni possibilità di: a) apprezzare le peculiarità e importanza del caso concreto; b) ponderare gli interessi contrapposti; e c) provvedere, in esito all’annullamento, con il riesercizio del potere di primo grado e/o altri poteri amministrativi connessi.
2.− Prima di entrare nel merito delle questioni, occorre esaminare i profili preliminari che interessano il giudizio.
2.1.− Anzitutto, di ufficio, deve essere precisato − in linea con la costante giurisprudenza di questa Corte − che non inficia l’ammissibilità delle questioni la circostanza che l’atto di promovimento del giudizio di legittimità costituzionale abbia la forma della sentenza non definitiva, in luogo di quella dell’ordinanza.
Con tale provvedimento, infatti, il giudice a quo non ha integralmente definito il procedimento principale e, dopo aver valutato la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione, ha disposto la sospensione del procedimento principale e la trasmissione del fascicolo alla cancelleria di questa Corte, in conformità a quanto previsto dall’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, recante «Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale» (tra le altre, sentenze n. 59 del 2025, n. 33 del 2023, n. 264 del 2022 e n. 218 del 2021).
2.2.− Le parti hanno spiegato cinque diverse eccezioni preliminari.
2.2.1.− In primo luogo, il richiedente l’esportazione eccepisce l’inammissibilità delle questioni perché il petitum ablativo formulato sarebbe incoerente per eccesso rispetto alle ragioni che fonderebbero la prospettata illegittimità costituzionale. A suo avviso, il rimettente lamenterebbe l’inadeguatezza della cesura temporale per l’annullamento d’ufficio in relazione ai soli provvedimenti ampliativi che riguardano gli interessi di rango costituzionale, ma poi chiederebbe la sua caducazione per qualunque tipo di atto autorizzativo o attributivo di vantaggi economici.
L’eccezione non è fondata.
Diversamente da quanto asserito dalla parte, il provvedimento di rimessione contesta la legittimità costituzionale del dies ad quem del potere di riesame riferito alle sole autorizzazioni aventi ad oggetto interessi “sensibili”, come la tutela del patrimonio storico e artistico, e coerentemente ne chiede una caducazione in parte qua.
È chiaro, dunque, il senso delle censure formulate dal giudice a quo a questa Corte, che, «ove ritenga fondate le questioni, rimane libera di individuare la pronuncia più idonea alla reductio ad legitimitatem della disposizione censurata» (tra le altre, sentenza n. 46 del 2024 e, nello stesso senso, sentenza n. 12 del 2024).
2.2.2.− Tanto il richiedente l’esportazione quanto la società divenuta proprietaria dell’opera hanno eccepito che la pronuncia richiesta dal rimettente invaderebbe la sfera discrezionale spettante al legislatore in ordine al limite temporale di esercizio del potere di autotutela.
L’eccezione va disattesa.
Non v’è dubbio che il legislatore goda di ampia discrezionalità nella disciplina dei termini dell’azione amministrativa. Ma le sue scelte, al pari che in altre discipline connotate da elevata discrezionalità, non si sottraggono per questo al giudizio di costituzionalità, in quanto devono pur sempre essere compiute secondo canoni di non manifesta irragionevolezza e di proporzionalità rispetto alle finalità perseguite (tra le altre, sentenze n. 25 del 2025, n. 88 del 2023, n. 194 del 2019, n. 202 del 2013 e n. 245 del 2011).
Invero, il rimettente non chiede una pronuncia additiva tesa a sostituire la volontà del legislatore con una disciplina di segno diverso, ma dubita della compatibilità, con gli evocati parametri costituzionali, della scelta legislativa di prevedere il termine di dodici mesi anche ove siano coinvolti gli interessi culturali protetti dall’art. 9 Cost.
In definitiva, quanto eccepito attiene semmai al merito e non alla ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate (in termini analoghi, sentenze n. 25 del 2025, n. 196 e n. 134 del 2024 e n. 171 del 2022).
2.2.3.− Ambedue le parti eccepiscono il difetto di rilevanza per due distinti profili.
Anzitutto, le questioni sarebbero irrilevanti per mancato esame da parte del Consiglio di Stato di numerosi motivi di appello, il cui accoglimento avrebbe escluso la necessaria applicazione della norma sospettata di illegittimità costituzionale.
L’eccezione per tale profilo non ha pregio.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la motivazione sulla rilevanza è da intendersi correttamente formulata quando illustra in modo non implausibile le ragioni che giustificano l’applicazione della disposizione censurata e determinano la pregiudizialità della questione sollevata rispetto alla definizione del processo principale (ex plurimis, sentenze n. 125 del 2024, n. 42 del 2023 e n. 192 del 2022).
Nella specie, il Consiglio di Stato − dopo aver rigettato le doglianze logicamente pregiudiziali sulla incompetenza dell’organo che aveva disposto l’annullamento in autotutela − ha affrontato i motivi relativi alla violazione del termine annuale stabilito dal censurato art. 21-nonies, comma 1, della legge n. 241 del 1990, in quanto li ha ritenuti prioritari e assorbenti rispetto agli altri: tanto si desume dalla affermazione del rimettente secondo cui il denunciato vizio avrebbe comportato l’accoglimento delle impugnazioni per evidente superamento di quella scadenza.
Peraltro, ciò trova riscontro nelle rubriche dei motivi di appello riportati nella sentenza parziale, dal cui esame si evince che quelli non trattati attenevano a illegittimità relative alla modalità di esercizio del potere di annullamento e ai provvedimenti ad esso conseguenti e, dunque, a vizi logicamente successivi a quello con cui si contesta la consumazione del potere di annullamento per tardività. Per contro, la difesa che ha spiegato l’eccezione non si è fatta carico di individuare i motivi «aventi “priorità logica”» (sentenza n. 202 del 2021, ordinanze n. 179 del 2014 e n. 158 del 2013).
Ancora, le parti sostengono che l’eventuale pronuncia di illegittimità costituzionale, tesa a rendere applicabile al provvedimento impugnato il solo limite elastico, sarebbe «inutiliter data» rispetto al giudizio a quo. In particolare, il Consiglio di Stato non avrebbe esposto le ragioni per le quali, nella fattispecie al suo esame, l’abnorme lasso temporale di sei anni, intercorso tra l’atto di annullamento e l’atto annullato, potrebbe costituire un «termine ragionevole».
Anche per tale profilo l’eccezione è infondata.
Il giudice a quo non ha anticipato il giudizio di congruità temporale da compiere nell’eventualità in cui sia caducata la norma sulla scadenza rigida, ma ha posto in luce gli elementi a tal fine rilevanti (il tipo di interesse pubblico tutelato, il comportamento del denunciante, l’evoluzione sugli studi scientifici sul quadro).
Tanto è sufficiente a dimostrare la rilevanza attuale delle questioni − atteso che risulta prospettato il loro concreto collegamento con le vicende oggetto del giudizio principale − e, dunque, ad escludere che esse siano astratte e ipotetiche (sentenze n. 241 del 2019 e n. 84 del 2016).
2.2.4.− Va ancora respinta l’eccezione di «solo apparente» sperimentazione del tentativo di interpretazione costituzionalmente orientata.
Il giudice amministrativo ha fatto corretta applicazione del principio della giurisprudenza costituzionale secondo cui l’univoco tenore della disposizione segna il confine in presenza del quale il tentativo di interpretazione conforme deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale (tra le tantissime, sentenze n. 44 del 2024, n. 193 del 2022 e n. 221 del 2019).
Egli, infatti, ha espressamente escluso la praticabilità di una esegesi dell’art. 21-nonies, comma 1, della legge n. 241 del 1990 che consenta di posticipare lo spirare del termine di decadenza per gli interessi sensibili, stante l’inequivocità del suo dato testuale nello stabilire, da un lato, che il termine «non superiore a dodici mesi» sia un tempo massimo inderogabile e, dall’altro, che la sua decorrenza sia «dal momento dell’adozione» del provvedimento di primo grado.
2.2.5.− Le difese lamentano in ultimo l’inammissibilità per carente motivazione sulla non manifesta infondatezza in riferimento alle violazioni degli artt. 97, secondo comma, e 117, primo comma, Cost.
L’eccezione è fondata solo con riguardo alla censura che concerne, per mezzo dell’art. 117, primo comma, Cost., i parametri internazionali.
Quanto a questi, infatti, il rimettente si limita a evocare gli impegni assunti dallo Stato italiano con la Convenzione sul valore del patrimonio culturale per la società e precisamente gli obblighi di «“riconoscere l’interesse pubblico associato agli elementi dell’eredità culturale, in conformità con la loro importanza per la società” e, di riflesso, a “promuovere la protezione dell’eredità culturale” anche predisponendo soluzioni normative che non siano di ostacolo alla realizzazione di tale scopo».
Pertanto, la denuncia del contrasto dell’art. 21-nonies, comma 1, della legge n. 241 del 1990 con tali obblighi internazionali è priva di qualsiasi illustrazione delle ragioni per le quali la normativa censurata integrerebbe una violazione del parametro costituzionale evocato. Dal che consegue, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l’inammissibilità delle questioni (ex plurimis, sentenze n. 112 del 2024, n. 198 e n. 108 del 2023).
Diversamente deve dirsi in riferimento alla lesione dell’art. 97, secondo comma, Cost.
Il giudice a quo argomenta in modo sufficiente il pregiudizio che la norma arrecherebbe al buon andamento nel settore dei beni culturali: nel suo complesso, infatti, l’atto di rimessione è chiaro nel lamentare che il decorso del limite temporale predeterminato impedirebbe all’amministrazione di rispondere alla rinnovata esigenza di cura del patrimonio artistico tramite il riesame del provvedimento illegittimo e l’emanazione di una nuova determinazione amministrativa, secondo scelte discrezionali emanate in esito alla valutazione della «peculiarità del caso concreto» e alla ponderazione «del peso specifico degli interessi coinvolti».
Peraltro, la doglianza è formulata attraverso la denuncia di manifesta irragionevolezza della disciplina censurata, e, dunque, in combinazione con quella di violazione dell’art. 3 Cost., secondo quanto costantemente richiesto dalla giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 258 del 2022, n. 208 del 2014, n. 243 del 2005, n. 306 e n. 63 del 1995 e n. 250 del 1993).
3.− L’esame del merito delle questioni sollevate richiede una breve ricostruzione del quadro normativo e giurisprudenziale in relazione al “tempo” dell’annullamento in autotutela.
3.1.− Come noto, l’annullamento cosiddetto d’ufficio (o atto di riesame in senso stretto) va annoverato tra i provvedimenti di “secondo grado” con cui l’amministrazione esercita la funzione di riesame di atti già adottati, al fine di garantire la cura dell’interesse pubblico in via continuativa. Si contraddistingue, in tale ampia categoria, per essere il provvedimento discrezionale di portata eliminativa, con effetti ex tunc, di un precedente atto affetto da illegittimità originaria.
Lo specifico aspetto della tempistica dell’esercizio del potere di annullamento in autotutela è stato oggetto di più interventi normativi che hanno comportato una significativa evoluzione.
Tradizionalmente − sino a che non è stata introdotta la disposizione censurata – la funzione del riesame è stata ritenuta espressione dello stesso potere esercitato in primo grado (o di un potere implicito che da questo derivava), di cui condivideva il carattere di inesauribilità, e il suo fondamento costituzionale è stato rintracciato nel principio di buon andamento dell’amministrazione. Ne è conseguito, sotto il profilo temporale, che il potere di annullamento è stato ritenuto inconsumabile e discrezionale nel quando, salvo il limite individuato dalla giurisprudenza, dapprima, nella carenza di un interesse concreto e attuale all’annullamento per “l’operare del fatto compiuto” e, di seguito, nella decorrenza di un termine ragionevole (Consiglio di Stato, sezione sesta, decisione 15 novembre 1999, n. 1812 e sezione quinta, decisione 20 agosto 1996, n. 939, e ancor prima nella giurisprudenza europea, Corte di giustizia delle Comunità europee, sentenza 3 marzo 1982, causa 14/81, Alpha Steel Ltd contro Commissione).
L’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 – introdotto dall’art. 14 della legge 11 febbraio 2005, n. 15 (Modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n. 241, concernenti norme generali sull’azione amministrativa), che per la prima volta ha positivizzato, in termini generali, il potere di riesame – ha fatto proprio il concetto del «termine ragionevole», inserendo il mancato decorso di quel tempo tra le condizioni per il suo esercizio, accanto a quelle della presenza di specifiche ragioni di interesse pubblico che giustifichino l’annullamento del provvedimento di “primo grado” (distinte dal mero ripristino della legalità violata) e della valutazione degli interessi dei destinatari del provvedimento (in primis, l’affidamento da loro in esso riposto) e dei controinteressati.
L’intervento legislativo del 2005, per un verso, è stato inquadrato in un più ampio contesto di evoluzione ordinamentale caratterizzata da «una sempre maggiore attenzione al valore della certezza delle situazioni giuridiche e alla tendenziale attenuazione dei privilegi riconosciuti all’amministrazione» e, per altro verso, ha indotto alla (almeno parziale) rimeditazione della teorica della perennità della potestà amministrativa di annullare in via di autotutela gli atti invalidi (Consiglio di Stato, adunanza plenaria, sentenza 17 ottobre 2017, n. 8).
Tuttavia, la scelta normativa di una limitazione temporale tramite il ricorso a «un concetto non parametrico ma relazionale, riferito al complesso delle circostanze rilevanti nel caso [concreto]» ha comportato la sua qualificazione non come termine di decadenza del potere di autotutela, con sua conseguente «consum[azione] in via definitiva», bensì come elemento determinante nella «modalità di esercizio» di tale potere (ancora, Consiglio di Stato, sentenza n. 8 del 2017), in una logica conformativa del potere al suo interno.
3.2.− Proprio sull’ambito applicativo del termine elastico il legislatore è tornato modificando, in duplice senso, l’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990.
L’art. 6, comma 1, lettera d), numeri 1) e 2), della legge 7 agosto 2015, n. 124 (Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche) ha, in particolare, voluto ovviare agli inconvenienti connaturali all’adozione di un concetto giuridico indeterminato, in luogo di una scadenza predeterminata, con riguardo all’annullamento di atti favorevoli ai privati, tenendo in considerazione la fiducia sui “titoli pubblici” dei destinatari e dei terzi, non ultimi degli investitori stranieri e degli operatori del libero mercato europeo, negativamente incisi «dall’incertezza giuridica delle procedure amministrative» (considerando n. 43 della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno, cosiddetta direttiva «Bolkestein»).
Pertanto, la novella è intervenuta, in prima battuta, sul censurato comma 1, specificando per i provvedimenti autorizzatori e di attribuzione di vantaggi economici – e dunque per gli atti ampliativi in cui è più evidente l’affidamento del “beneficiario” dell’atto –, che l’annullamento possa intervenire «entro un termine ragionevole comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell[a loro] adozione».
L’argine temporale di tipo fisso è stato inteso come un vero e proprio termine decadenziale di «valenza nuova [volto] a stabilire limiti al potere pubblico nell’interesse dei cittadini, al fine di consolidare le situazioni soggettive dei privati» e, dunque, espressione di una «regola di certezza dei rapporti [tra il potere pubblico e i privati], che rende immodificabile l’assetto (provvedimentale-documentale-fattuale) che si è consolidato nel tempo, [sì da far] prevalere l’affidamento» (Consiglio di Stato, commissione speciale, parere 30 marzo 2016, n. 839).
Anche questa Corte, occupandosi dei poteri di controllo “postumi” riservati alla PA in caso di SCIA nel termine e alle condizioni di cui all’art. 21-nonies (art. 19, comma 4, della legge n. 241 del 1990), si è espressa nel senso che la decorrenza del relativo termine determina l’«effetto estintivo di tale potere» e il consolidamento definitivo della situazione soggettiva dell’interessato nei confronti dell’amministrazione «ormai priva di poteri» e dei terzi controinteressati (sentenza n. 45 del 2019).
Condivisibilmente, dunque, la novità legislativa è stata ritenuta significativa di un «“nuovo paradigma” nei rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione […] nel quadro di una regolamentazione attenta ai valori della trasparenza e della certezza» (ancora, Consiglio di Stato, parere n. 839 del 2016).
Tuttavia, come noto, nel nostro ordinamento, come in quello europeo (sin da CGCE, sentenza 22 marzo 1961, nelle cause riunite 42 e 49/59, Societé nouvelle des usines de Pontiene – Aciéres du Temple, SNUPAT) è riconosciuta tutela all’affidamento solo se legittimo, vale a dire se incolpevole o fondato sulla buona fede. E ciò vale, nei rapporti tanto tra privati, quanto tra privati e amministrazione, e per questi ultimi con riferimento sia all’attività amministrativa provvedimentale, sia all’attività amministrativa di diritto privato (art. 1, comma 2-bis, della legge n. 241 del 1990 e art. 5 del decreto legislativo 31 marzo 2023, n. 36, recante «Codice dei contratti pubblici in attuazione dell’articolo 1 della legge 21 giugno 2022, n. 78, recante delega al Governo in materia di contratti pubblici»).
Per questo − nel solco dell’orientamento già consolidato della giurisprudenza amministrativa con riguardo all’autotutela nel suo complesso −, in seconda battuta, il legislatore ha accompagnato il termine decadenziale fisso a una fattispecie di esclusione di sua applicabilità per immeritevole considerazione della posizione del destinatario del provvedimento invalido: all’art. 21-nonies è stato così aggiunto il comma 2-bis, a mente del quale l’amministrazione è legittimata all’annullamento del provvedimento invalido «anche dopo la scadenza del [predetto] termine», allora fissato in «diciotto mesi», in caso «di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato».
Tale eccezione, è il caso di ricordare, è interpretata dal giudice amministrativo − sulla base del dato testuale costituito dalla disgiunzione «o» e di un argomento teleologico − nel senso che il termine finale non opera tutte le volte in cui si riscontri che il contrasto tra la fattispecie rappresentata e la fattispecie reale sia rimproverabile all’interessato, tanto se determinato da dichiarazioni false o mendaci la cui difformità, se frutto di una condotta di falsificazione penalmente rilevante, dovrà scontare l’accertamento definitivo in sede penale, quanto se determinato da una falsa rappresentazione della realtà di fatto, accertata inequivocabilmente dall’amministrazione con i propri mezzi (da ultimo, Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenze 7 maggio 2025, n. 3876 e 14 agosto 2024, n. 7134; sezione sesta, sentenza 27 febbraio 2024, n. 1926). Anche in tale caso, infatti, l’erroneità dei presupposti per il rilascio del provvedimento amministrativo non è imputabile (neanche a titolo di colpa concorrente) all’amministrazione, ma esclusivamente alla parte che ha fornito una falsa descrizione della realtà fattuale, oggettivamente verificabile e non opinabile.
L’operare del termine rigido e la previsione della sua inapplicabilità, con il riespandersi del solo limite del «termine ragionevole», secondo la logica della protezione dell’affidamento solo se meritevole, trova riscontro anche nella loro differente decorrenza: a) la scadenza a mesi si computa − secondo la chiara formula legislativa − «dal momento dell’adozione» del provvedimento di primo grado; b) diversamente, il termine ragionevole − secondo la giurisprudenza amministrativa − ha il suo avvio dal momento della scoperta dell’illegittimità da parte della PA. Infatti, in questo secondo caso, l’amministrazione è nell’impossibilità, in un momento anteriore, di conoscere fatti e circostanze rilevanti a causa del comportamento imputabile al soggetto che ha beneficiato del provvedimento. In senso opposto, nel primo caso, l’esclusione della “decorrenza mobile” si spiega con la ragione che non può la negligenza dell’amministrazione procedente tradursi nel suo vantaggio di differire continuamente il dies a quo per l’esercizio della potestà di annullamento (tra le altre, Consiglio di Stato, sentenze n. 7134 e n. 1926 del 2024).
3.3.− Più di recente, l’art. 63, comma 1, del decreto-legge 31 maggio 2021, n. 77 (Governance del Piano nazionale di ripresa e resilienza e prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure), convertito, con modificazioni, nella legge 29 luglio 2021, n. 108 ha modificato il tempus ad quem previsto dal censurato comma 1 dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, riducendolo da diciotto a dodici mesi. La relazione illustrativa al relativo disegno di legge ha esplicitato la finalità della novella di «consentire un più efficace bilanciamento tra la tutela del legittimo affidamento del privato interessato e l’interesse pubblico».
3.4.− Infine, deve darsi ancora conto che attualmente è all’esame del Parlamento un ulteriore abbassamento del termine ad quem a sei mesi (art. 1 del disegno di legge A.S. n. 1184 − XIX Legislatura, recante «Disposizioni per la semplificazione e la digitalizzazione dei procedimenti in materia di attività economiche e di servizi a favore dei cittadini e delle imprese»).
Invero, l’ipotesi normativa di una riduzione del vigente termine non è una novità, posto che già in passato, nel periodo di emergenza epidemiologica da COVID-19, il termine era stato ridotto, in via eccezionale e transitoria, a tre mesi (art. 264, comma 1, lettera b, del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, recante «Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19», convertito, con modificazioni, nella legge 17 luglio 2020, n. 77) e atteso che, di recente, la sua riduzione a sei mesi è stata prevista nel settore speciale della produzione di energia da fonti rinnovabili in relazione alla sola ipotesi del titolo abilitativo semplificato perfezionato per silenzio, ex art. 8, comma 10, del decreto legislativo 25 novembre 2024, n. 190, recante «Disciplina dei regimi amministrativi per la produzione di energia da fonti rinnovabili, in attuazione dell’articolo 26, commi 4 e 5, lettere b) e d), della legge 5 agosto 2022, n. 118».
3.5.− Come osservato dal rimettente, l’art. 21-nonies non reca, invece, alcuna speciale considerazione dell’interesse al patrimonio artistico o di altri interessi “sensibili” (in primis quelli inerenti al paesaggio, all’ambiente e alla salute), diversamente da quanto avviene nella disciplina di altri istituti del procedimento ammnistrativo dettata dalla legge n. 241 del 1990 (artt. 14, 14-bis, 14-ter, 14-quinquies, 16, 17, 17-bis, 19 e 20).
In particolare, il legislatore, con riguardo all’annullamento in autotutela, non ha ritenuto, dunque, né di eccettuare al loro ricorrere l’applicazione del termine di decadenza – similmente ai casi in cui ha escluso l’operare di alcuni istituti di semplificazione procedimentale (i meccanismi devolutivi per l’acquisizione dei pareri e valutazioni tecniche di cui agli artt. 16 e 17) o provvedimentale (il silenzio-assenso cosiddetto verticale di cui all’art. 20) e di liberalizzazione (la SCIA di cui all’art. 19) − né di aumentare la sua durata (o di differire la sua decorrenza) – similmente a quanto disposto nella disciplina della conferenza di servizi (che, agli artt. 14-bis, comma 2, lettera c, e 14-ter, comma 2, prevedono, rispettivamente, per la conferenza semplificata, il raddoppio del termine per la trasmissione della determinazione da parte dell’amministrazione preposta agli interessi sensibili all’amministrazione procedente e, nella conferenza simultanea, il raddoppio del termine di conclusione dei lavori) e del silenzio-assenso orizzontale tra amministrazioni (che, all’art. 17-bis, comma 3, prevede la triplicazione del termine per la comunicazione dell’atto di assenso dall’amministrazione interpellata alla procedente, in difetto del quale si intende acquisito).
Neppure nei lavori preparatori dei ricordati tre interventi legislativi risulta essere mai stata sollecitata (a differenza di quanto avvenuto in ordine all’approvazione del suddetto art. 17-bis) la necessità di un regime “aggravato” per la potestà di annullamento dei provvedimenti che coinvolgono tali interessi e, in particolare, non è mai stata posta in discussione la trasversalità delle regole sul termine fisso.
3.6.– Nel concludere l’esposizione del quadro normativo, va sottolineato che esso è coerente con l’evoluzione delle relazioni tra privato e pubblica amministrazione.
Il potere amministrativo, originariamente concepito come espressione di assoluta “supremazia” (salvi i limiti segnati dalla legge) e caratterizzato dalla sua “inesauribilità”, nel suo ancoraggio costituzionale è, piuttosto, una situazione soggettiva conferita al servizio degli interessi della collettività nazionale (art. 98 Cost.).
Dal descritto passaggio dalla logica della preminenza a quella del servizio deriva che la norma che attribuisce il potere per la realizzazione di uno specifico interesse pubblico fa di questo non solo il fine, ma la causa stessa del potere: proprio in quanto il potere è strumentale, va esercitato nella misura in cui serve al soddisfacimento dell’interesse pubblico ed è proporzionatamente occorrente a tal fine, quindi con il minimo sacrificio dell’interesse del privato, ma anche degli altri interessi pubblici. La sede delle relazioni tra gli interessi è il procedimento amministrativo: in questa sede, l’interesse pubblico primario, che giustifica il potere, si confronta con gli altri interessi pubblici coinvolti e con gli interessi dei privati, i quali non solo possono avere consistenza oppositiva rispetto al potere che ne invade la sfera soggettiva, ma spesse volte hanno consistenza di pretesa al suo esercizio, volto ad ampliare la sfera soggettiva, pretesa che in molti casi ha fondamento nelle previsioni costituzionali. Il corretto confronto di questi interessi, secondo la conformazione datane dalla legge, è garanzia di legittimità della decisione amministrativa, così formatasi, con la quale si esaurisce quel potere.
Il riesame del provvedimento, pur mosso da ragioni di legittimità, non costituisce espressione di quel potere già esercitato, bensì di un altro potere riconosciuto in via generale all’amministrazione, quello dell’annullamento d’ufficio, che, proprio perché diverso da quello esercitato e su cui va a incidere, è assoggettata a regole specifiche, quanto a presupposti, a disciplina procedimentale e a portata della discrezionalità di cui la funzione di autotutela è espressione. In particolare – come si è già osservato (punto 3.2.) – in sede di riesame emerge l’esigenza di una regola di certezza e di correttezza nei rapporti tra il potere pubblico e i privati, che rende immodificabile l’assetto degli interessi che si è consolidato nel tempo.
4.− Alla luce del descritto quadro normativo e della sua evoluzione, possono essere esaminate le questioni di violazione dei princìpi di ragionevolezza, buon andamento della pubblica amministrazione e della tutela del patrimonio storico e artistico, sollevate dal giudice rimettente.
Le questioni non sono fondate.
4.1.− La previsione del termine finale fisso per l’esercizio del potere di annullamento degli atti autorizzatori, senza eccezioni (o distinguo) per gli interessi culturali, non risulta, anzitutto, manifestamente irragionevole e lesiva dell’interesse culturale protetto dall’art. 9 Cost.
È argomento centrale per tale conclusione la considerazione − della cui rilevanza si è detto (punto 3.6.) − che l’annullamento d’ufficio è espressione di una funzione di secondo grado, avente a oggetto un provvedimento emanato nell’esercizio di un determinato potere.
4.1.1.− Posto, infatti, che, con l’annullamento in autotutela, l’amministrazione reinterviene su una precedente attività amministrativa, è di questa che vanno, semmai, valorizzate le plurime regole a garanzia degli interessi pubblici di rango costituzionale dettate dalla legge sul procedimento o dalle leggi settoriali: tanto quelle in ordine alle modalità di esercizio dei relativi poteri, quanto quelle relative al loro tempo.
In questo senso, in via generale, si è visto che la legge n. 241 del 1990 appronta in diversi istituti un regime ad hoc per tali interessi “sensibili”, compreso quello culturale, ma ancora, significativamente, a loro dà rilievo nella disciplina della tempistica dei procedimenti di primo grado: l’art. 2, al comma 2, fissa il termine generale di trenta giorni per la conclusione del procedimento, ma fa salve le diverse disposizioni speciali e, soprattutto, consente, con le diverse forme dettate dai successivi commi 3 e 4, la sua elevazione sino a centottanta giorni, anche in considerazione «della natura degli interessi pubblici tutelati».
Inoltre, con specifico riferimento al settore dell’attività amministrativa oggetto del giudizio a quo, l’interesse alla tutela del patrimonio artistico nazionale trova un regime di speciale e puntuale protezione nel codice dei beni culturali.
In particolare, la disciplina del rilascio o rifiuto dell’attestato di libera circolazione, necessario per l’esportazione di un’opera in altro Paese dell’Unione europea (art. 68 cod. beni culturali), si connota per: 1) l’assegnazione della competenza a organi tecnici qualificati (gli uffici di esportazione ex art. 68, comma 1, che sono un’articolazione periferica del dicastero della cultura, incardinati presso talune Soprintendenze archeologia, belle arti e paesaggio, ai sensi dell’art. 41, commi 1, lettera v, e 3, del d.P.C.m. 2 dicembre 2019, n. 169, recante «Regolamento di organizzazione del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, degli uffici di diretta collaborazione del Ministro e dell’Organismo indipendente di valutazione della performance»); 2) l’imposizione in capo al denunciante di obblighi informativi e di consegna materiale dell’opera alla pubblica amministrazione (art. 68, comma 1, cod. beni culturali); 3) il coinvolgimento istruttorio degli uffici ministeriali (art. 68, comma 2, cod. beni culturali) e il raccordo con il Comando carabinieri per la tutela del patrimonio culturale (art. 41, commi 1, lettera v, del d.P.C.m. n. 169 del 2019; 4) la fissazione di uno speciale termine di definizione del procedimento individuato in quaranta giorni dalla presentazione della cosa (art. 68, comma 3, cod. beni culturali); 5) la necessità della determinazione con un provvedimento espresso (per l’operare dell’esclusione del silenzio-assenso ai sensi dell’art. 20, comma 4, della legge n. 241 del 1990), il quale riporti «un motivato giudizio» sulla sussistenza o meno di un interesse culturale particolarmente importante o eccezionale, da esprimere secondo «indirizzi di carattere generale stabiliti con decreto del Ministro» (art. 68, commi 3 e 4, cod. beni culturali); e, infine: 6) il limite di validità quinquennale nel caso di rilascio del titolo all’esportazione, e, all’opposto, in caso di suo diniego, l’avvio del procedimento di dichiarazione di interesse culturale (art. 68, commi 5 e 6, cod. beni culturali).
Il legislatore, dunque, conforma puntualmente il potere autorizzatorio in ordine alla esportazione delle opere d’arte per la finalità di preservare «l’integrità del patrimonio culturale in tutte le sue componenti» (art. 64-bis, comma 1, cod. beni culturali), ma anche a garanzia degli interessi sui quali quel potere interferisce (la proprietà del bene, la relativa disponibilità e il regime della sua circolazione), e l’ufficio di esportazione, cui quel potere è attribuito, nell’esercitarlo, oltre a rispettare le relative regole, è chiamato a concretizzarlo, tramite la corretta espressione della discrezionalità, nel contesto fattuale e nel contemperamento di tutti gli interessi, pubblici e privati, coinvolti.
4.1.2.− Qualora, tuttavia, l’amministrazione si avveda che il provvedimento di primo grado presenti profili di illegittimità e valuti se provvedere all’annullamento di ufficio, non è contrario alla ragionevolezza che l’interesse di particolare rango costituzionale, quale la protezione del patrimonio storico e artistico, abbia nella funzione di riesame una considerazione diversa da quella che gli è riservata nel relativo procedimento di primo grado.
Infatti, si è detto, sul piano generale, che l’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 ha ormai inequivocabilmente sancito che la potestà di annullamento è distinta da quella esercitata in primo grado ed è spendibile unicamente nei modi e nei tempi con cui la legge la ha appositamente conformata. Ma la stessa conformazione risulta adeguata, sul piano settoriale, anche per l’interesse culturale: per quest’ultimo si è visto vigere in primo grado un regime di tutela che gli dà prevalenza rispetto agli altri interessi coinvolti nonché una disciplina speciale rispetto alla disciplina generale del procedimento amministrativo, con la conseguenza che non è irragionevole la scelta legislativa secondo cui − una volta esercitato quel potere – la valutazione sul suo riesame, quanto alle modalità procedimentali e, in particolare, quanto alla tempistica del suo esercizio, sia ricondotta al regime ordinario e generale dell’autotutela.
In questa sede, sullo specifico piano della discrezionalità, gli interessi considerati in primo grado − pur di rilievo costituzionale − acquistano diversa consistenza, perché si confrontano con interessi ulteriori, non solo di natura privata, ma anche pubblica: nel valutare l’an dell’annullamento, non solo l’organo competente deve tenere in considerazione l’interesse pubblico primario in precedenza tutelato dal provvedimento invalido, ma deve soppesare anche quelli, sempre di natura pubblica, al ripristino della legalità (che spesso trova coincidenza con l’interesse del controinteressato pregiudicato dal provvedimento emesso in favore di altri) e alla certezza delle relazioni giuridiche, nonché la posizione, di natura privata, di affidamento del destinatario della determinazione favorevole.
In proposito, deve ricordarsi che questa Corte − in tema di autotutela tributaria che è species di quella amministrativa, e che pure coinvolge interessi di rango costituzionale quale quello fiscale (sentenza n. 181 del 2017) − ha già avuto modo di valorizzare come nella fase del riesame si accresca il numero di interessi oggetto della valutazione dell’annullamento d’ufficio, rispetto a quelli cui è preordinata la funzione di primo grado, e tra questi quello «alla stabilità dei rapporti giuridici di diritto pubblico».
4.2.− Ebbene, in tale contesto, lo specifico bilanciamento operato dal censurato art. 21-nonies nel suo complesso risulta non reprensibile anche con riguardo alla tutela degli interessi sensibili quale quello culturale. La disposizione prevede, infatti, una regolazione della dialettica degli interessi in gioco il cui punto di equilibrio è dato dalla “variabile tempo”, secondo una dinamica a triplice livello che non è affatto manifestamente irragionevole.
In primo luogo, sino alla scadenza del termine annuale, il rilievo costituzionale dell’interesse pubblico cui l’amministrazione è preposta − seppur non può giustificare di per sé la determinazione di annullamento dell’atto viziato – è, ordinariamente, un elemento preponderante nella decisione sull’an dell’annullamento, «ten[uto] conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati». Conseguentemente, la giurisprudenza amministrativa riconosce in ragione della sua rilevanza l’attenuazione dell’onere motivazionale che grava sull’amministrazione che si determina nel senso di annullare l’atto invalido (per tutte, Consiglio di Stato, sentenza n. 8 del 2017).
In secondo luogo, la ragione di interesse pubblico in parola può continuare a sostenere l’annullamento oltre il termine di decadenza e sino a «un termine ragionevole», tutte le volte in cui l’illegittimità sia derivata dall’impossibilità per l’amministrazione di svolgere un compiuto accertamento dei fatti e una corretta valutazione dell’interesse pubblico primario nell’ambito della fase istruttoria del procedimento di primo grado a causa del comportamento dell’istante di cui al comma 2-bis, che, pertanto, non può rivendicare la tutela dell’aspettativa a conservare gli effetti favorevoli del provvedimento. La fattispecie di esclusione del termine annuale prevista dal comma 2-bis ha accompagnato la prima introduzione del termine fisso e vi è indissolubilmente e ragionevolmente legata.
In terzo luogo, il legislatore ha ritenuto che, alla decorrenza del periodo annuale (salvo il ricorrere della suddetta eccezione), l’amministrazione esaurisca i margini per una ulteriore tutela dell’interesse pubblico primario e di conseguenza diventi irretrattabile il provvedimento di primo grado, ferme restando «le responsabilità connesse all’adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo» (art. 21-nonies, comma 1, ultimo periodo).
Ciò risponde ragionevolmente alla scelta che, al fluire di un congruo tempo predeterminato, abbiano automatica prevalenza altri interessi di rilievo costituzionale. In particolare, dunque, sia la posizione di “matrice individuale” dell’affidamento del destinatario del provvedimento favorevole, sia simultaneamente l’interesse di “matrice collettiva” alla certezza e alla stabilità dei rapporti giuridici pubblici.
Infatti, deve rammentarsi che la giurisprudenza costituzionale è costante nell’affermare che la tutela dell’affidamento è «ricaduta e declinazione “soggettiva”» della certezza del diritto, la quale, a propria volta, integra un «elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto», connaturato sia all’ordinamento nazionale, sia al sistema giuridico sovranazionale (sentenze n. 36 del 2025, n. 70 del 2024 e n. 210 del 2021).
In questa ottica, non può non considerarsi che l’esigenza di irretrattabilità del provvedimento amministrativo ampliativo oltre un tempo definito trascende il rapporto tra amministrazione e amministrato, in quanto il “titolo pubblico” condiziona fortemente le relazioni giuridiche che quest’ultimo intrattiene successivamente con i terzi, tanto con riguardo alla circolazione dei beni che ne sono oggetto, quanto con riguardo alle attività degli amministrati che li presuppongono.
L’opzione invocata di inoperatività del termine finale fisso per l’esercizio del potere di annullamento dei provvedimenti autorizzatori potrebbe generare una situazione di incertezza nella vita dei cittadini e delle imprese idonea a incidere negativamente, in un’ottica più complessiva, sulle dinamiche del mercato (come nella specie su quello dell’arte) e sulla fiducia degli investitori: in definitiva, sull’affidabilità del “sistema Paese”.
D’altra parte, deve sottolinearsi che “il tempo” costituisce un fattore determinante della sicurezza giuridica ormai non solo nei rapporti tra privati, ma anche nelle relazioni tra privati e amministrazione, concorrendo a realizzare il descritto mutamento di paradigma di tali relazioni, incise dall’attuale concezione del potere pubblico nel suo ancoraggio costituzionale.
In definitiva, diversamente dalla prospettiva del rimettente, non può condividersi − in ragione della natura del potere di annullamento, della sua disciplina e di quella dell’attività di primo grado che ne è oggetto – che il legislatore, con il censurato termine trasversale di consumazione del potere di annullamento, abbia sacrificato gli interessi “primari”, come quello alla tutela del patrimonio storico, nel loro «nucleo essenziale» (sentenza n. 85 del 2013), ma, piuttosto risulta che, nel concorrere di tali interessi con princìpi del pari di rango costituzionale, abbia inteso garantire «una compiuta ed esplicita rappresentazione di tali interessi nei processi decisionali all’interno dei quali si esprime la discrezionalità delle scelte […] amministrative» (sentenza n. 196 del 2004).
4.3.− Quanto al profilo della violazione dell’art. 97, secondo comma, Cost., deve ancora escludersi che il limite temporale del potere di autotutela leda, come lamentato dal rimettente, il principio di buon andamento, potendone piuttosto costituire attuazione.
La rinnovata cura dell’interesse pubblico in sede di riesame attua il buon andamento sin tanto che rispetti il principio di legalità sostanziale (sentenze n. 209 del 2023 e n. 45 del 2019) e dunque le forme di esercizio e i limiti cui è soggetto, i quali sono preordinati anche alla migliore soddisfazione dello stesso interesse primario.
Questa Corte ha già affermato, in relazione alla previsione di termini di decadenza dell’autotutela in materia previdenziale, che questi, lungi dal porsi in contrasto con il principio del buon andamento della pubblica amministrazione, rappresentino uno strumento volto, sia pure indirettamente, ad accrescere l’efficienza dell’azione amministrativa (sentenze n. 258 del 2022 e n. 191 del 2005).
A ciò va aggiunto che il termine estintivo del potere di annullamento influisce sulla qualità dello stesso processo decisionale di primo grado: la limitazione della potestà di autotutela incentiva gli organi competenti alla attenta valutazione e ponderazione degli interessi già in primo grado; valutazione che potrebbe essere meno meditata nella consapevolezza di avere una seconda chance di intervento, tramite un contrarius actus, rispetto a quello originariamente assunto in via illegittima, senza limiti temporali predeterminati.
Tanto trova riscontro proprio con riferimento all’attività amministrativa di rilascio degli attestati di libera circolazione, in relazione alla quale, di recente, il Ministero della cultura ha invitato gli uffici di esportazione a prestare maggiore attenzione nell’esame delle istanze loro presentate, anche alla luce dei limiti temporali di cui all’art. 21-nonies, comma 1, della legge n. 241 del 1990 (circolare della Direzione generale archeologia, belle arti e paesaggio del 24 maggio 2024, n. 21).
4.4.− In conclusione, le questioni aventi ad oggetto la violazione degli artt. 3, primo comma, 9, primo e secondo comma, e art. 97, secondo comma, Cost. non sono fondate.