Corte di Cassazione, sezione I civile, sentenza 14 marzo 2025 n. 6834
PRINCIPIO DI DIRITTO
Costituisce indebito arricchimento della Pubblica Amministrazione, ai sensi dell’art. 2041 c.c., l’ipotesi in cui la stessa, previamente conferito l’incarico ad un privato, non elargisca il compenso professionale con tale soggetto pattuito, sul presupposto del successivo intervento di un provvedimento di annullamento del decreto di conferimento dell’incarico per presunti vizi dello stesso.
Il depauperato che agisce ex art. 2041 c.c nei confronti della P.A. è tenuto a tal fine a dimostrare il solo fatto oggettivo dell’arricchimento, senza che l’ente pubblico possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Con il primo motivo di impugnazione i ricorrenti deducono “ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., violazione di legge per violazione o falsa applicazione degli articoli 2230 e 2237 c.c., nonché dell’art. 2 del D.M. Ministero delle infrastrutture e dei trasporti del 20/4/2005 n. 29/bilco, per avere erroneamente ritenuto insussistente il diritto acquisito del dr. D.D. al pagamento del compenso previsto contrattualmente per l’avvenuto svolgimento dell’incarico”.
Ad avviso dei ricorrenti, prima dell’emissione del provvedimento di autotutela del 2007, si era già “pienamente configurato e realizzato il diritto al pagamento del compenso, indipendentemente dalle vicende relative agli atti amministrativi e, quindi, anche dall’annullamento successivo del decreto di conferimento dell’incarico”.
La motivazione della sentenza della Corte d’Appello sarebbe erronea, in quanto muoverebbe dall’errato presupposto “che vi sia un rapporto di necessaria pregiudizialità tra legittimità/illegittimità del D.M. del Ministro delle infrastrutture n. 4658 del 29/3/2007, e le ragioni di credito fatte valere dal dr. D.D.”, dimostrando quindi di ritenere “che fosse necessario contestare la legittimità del decreto ministeriale del 2007, che ha disposto l’annullamento del precedente decreto di conferimento dell’incarico”.
Per i ricorrenti, invece, “non era infatti necessaria la previa impugnazione dell’atto amministrativo ritenuto illegittimo, non sussistendo rapporto di pregiudizialità necessaria tra il giudizio di annullamento dell’atto dinanzi al giudice amministrativo ed il giudizio davanti al giudice ordinario in cui si chieda, a qualsiasi titolo, il risarcimento delle lesioni di posizioni giuridiche rilevanti per l’ordinamento, siano esse afferenti ad un interesse legittimo o ad un diritto soggettivo”.
La sentenza impugnata sarebbe erronea perché non avrebbe tenuto conto che nella specie si era in presenza di un rapporto stipulato con la PA che agiva iure privatorum.
Trattavasi di un “rapporto contrattuale di tipo privatistico”.
Per tale ragione, ” il diritto del professionista al compenso resta insensibile ad eventuali vizi della deliberazione di conferimento dell’incarico, rilevanti solo nell’ambito interno dell’ente pubblico”.
Tra l’altro, si sarebbe comunque in presenza di una responsabilità della PA da comportamento scorretto, che deve agire con lealtà e correttezza.
- Il motivo è infondato.
Risulta corretta l’affermazione della Corte d’Appello per cui, a fronte dell’intervenuto provvedimento in autotutela di annullamento da parte della PA in data 29/3/2007, comunicato il 2/8/2007, con cui si è dichiarata l’invalidità del provvedimento originario di conferimento dell’incarico di cui al D.M. 20/4/2005 n. 29/BILCO, il D.D. avrebbe dovuto proporre impugnazione dinanzi al giudice amministrativo.
Ed infatti, per questa Corte, qualora il Comune abbia deliberato di conferire l’incarico di redigere il piano regolatore ad un professionista privato ed il conferimento dell’incarico sia stato seguito dalla stipulazione del contratto di prestazione d’opera professionale, il diritto del professionista al pattuito compenso viene meno – per effetto, nella specie, dell’annullamento del contratto medesimo, dal Comune invocato in via di eccezione ai sensi dell’art. 1442 cod. civ. – nel caso in cui l’ente territoriale abbia con una successiva deliberazione espressamente disposto non già la revoca, ma, avvalendosi del potere di autotutela, l’annullamento per vizi di legittimità della deliberazione avente ad oggetto il conferimento dell’incarico, così caducandola “ex tunc” e conseguentemente sottraendo fondamento giuridico agli atti in base ad essa compiuti, quali il contratto precedentemente stipulato (Cass., sez. 1, 2/9/2005, n. 17697).
Si è dunque chiarito che quando la PA, per la realizzazione delle sue finalità, utilizzi strumenti giuridici che sono ordinariamente propri dei soggetti privati, solo l’attività negoziale, per tutto quel che riguarda la disciplina dei rapporti che dalla stessa scaturiscono, rimane assoggetta dei principi ed alle regole del diritto comune (salve le eventuali interferenze di norme di diritto pubblico integrative o modificative).
Al contrario, “restano operanti le regole della disciplina amministrativa attinenti alla organizzazione della pubblica amministrazione ed alla formazione ed estrinsecazione delle sue determinazioni”.
Pertanto, deve necessariamente sussistere una fase preliminare, caratterizzata dalla formazione della volontà della PA che resta sul piano del diritto amministrativo, ed è disciplinata dalle regole dell’evidenza pubblica, poste dalla legge, dai regolamenti nonché dagli atti generali della stessa amministrazione, che si conclude con la delibera a contrarre (Cass. n. 17697 del 2005).
Ove, dunque, si sia formata ritualmente nella sede propria la volontà dell’ente in relazione al conferimento dell’incarico ad un professionista per l’espletamento di una determinata opera e sia divenuta efficace la relativa delibera, la costituzione del rapporto di prestazione d’opera nella fase attuativa della delibera stessa ed il suo svolgimento producono tutti gli effetti giuridici propri di quel contratto, e quindi anche l’obbligazione dell’ente di corrispondere il compenso da professionista.
Con la conseguenza che “le carenze e le irregolarità del suddetto procedimento amministrativo, nonché gli eventuali vizi della deliberazione a contrarre, pur se inerenti ai criteri di scelta del professionista, possono rilevare nell’ambito interno dell’organizzazione dell’ente, ma non sono idonee ad incidere negativamente sui diritti acquisiti a quest’ultimo in forza del contratto d’opera”.
Tuttavia, ciò accade in assenza di patologie e in mancanza di un provvedimento amministrativo di secondo grado (ossia l’autoannullamento), ossia quando sia stato espletato ed esaurito il procedimento amministrativo diretto alla formazione della volontà dell’amministrazione.
In quest’ultimo caso, invece, poiché il Ministero ha annullato la deliberazione di conferimento dell’incarico, la conseguenza è che tale annullamento ha prodotto “gli effetti tipici suoi propri, vale a dire la caducazione di quest’ultimo provvedimento con effetto ex tunc e la conseguente sottrazione di fondamento giuridico agli atti in base ad essa compiuti”, facendo perdere efficacia anche al contratto stipulato con il professionista.
Del resto, sulla medesima scia si pongono anche altre pronunce di legittimità, per le quali l’esecutività attribuita alla deliberazione della Giunta comunale ai sensi dell’art. 97 del T.U. della legge comunale e provinciale, approvato con R.D. 3 marzo 1934, n. 383 – come modificato dall’art. 3 della legge n. 530 del 1947 – implica che alla delibera stessa possa essere data esecuzione prima che spiri il termine previsto per l’esercizio del relativo controllo e che, quindi, gli atti in essa previsti possano essere compiuti, ma ciò non esclude che, ove il detto provvedimento venga annullato dall’organo di controllo per un vizio di legittimità che lo inficiava fin dall’origine, si producano gli effetti tipici di tale ipotesi di annullamento e cioè la caducazione della delibera con effetto “ex tunc” e con conseguente sottrazione di fondamento
Di recente, si è affermato che, in tema di contratti di natura privatistica stipulati con la P.A., l’annullamento, da parte del giudice amministrativo o dell’amministrazione in sede di autotutela o di controllo, dello schema contrattuale, predisposto con atto amministrativo autoritativo e sottoposto al privato per la sottoscrizione, determina la nullità totale o parziale del contratto, per mancanza del requisito dell’accordo delle parti – il principio è stato applicato nel caso di annullamento, da parte del giudice amministrativo, dell’atto autoritativo che autorizzava l’inclusione nel contratto di talune clausole, con conseguente nullità parziale dello stesso, mancando la volontà dell’ente su tale parte – (Cass., sez. 1, 2/5/2024, n. 11782; anche in giurisprudenza amministrativa si ammette la possibilità di provvedere con l’annullamento in via di autotutela da parte della PA anche dopo l’aggiudicazione della gara e la stipulazione del contratto, con conseguente inefficacia, stante la stessa conseguenzialità tra aggiudicazione e stipulazione del contratto: Cons. Stato, sez. V, 22/8/2023, n. 7896; Cons. Stato, sez. V, 27/1/2022, n. 590).
In ordine al preteso comportamento contrario a buona fede da parte della PA in sede di esecuzione del contratto, non è stata impugnata la ratio decidendi in termini di novità della questione in appello, affermata dalla Corte di appello.
- Con il secondo motivo di impugnazione i ricorrenti lamentano “ai sensi dell’ art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, per aver erroneamente ritenuto che non fossero stati evidenziati dal dr. D.D. profili di illegittimità del D.M. n. 4658 del 29/3/2007 di annullamento del precedente decreto di conferimento dell’incarico”.
Per la Corte d’Appello, dunque, l’appellante non avrebbe esposto profili di illegittimità del decreto di annullamento, a prescindere dalla violazione dell’art. 21-novies legge n. 241 del 1990.
Per i ricorrenti, invece, “l’annullamento è stato disposto dalla p.a. per asseriti vizi del provvedimento di conferimento dell’incarico, imputabili – in ogni caso semmai veramente sussistenti – sempre e comunque al Ministero e non al dr. D.D., che non avrebbe in alcun modo potuto rilevarli al momento dell’incarico”.
Un profilo di illegittimità del decreto ministeriale del 29/3/2007, da sempre evidenziato dall’attore, consisteva nel fatto che “riferendosi il suddetto decreto a ben 9 decreti di conferimento di altrettanti incarichi (…) di fatto muove da una serie indistinta di critiche assolutamente generiche ed astratte, oltre che (almeno per quanto concerne l’incarico del dott. D.D.) del tutto immotivate, senza alcuna possibilità per l’interprete di comprendere quali siano attribuite al caso di specie”.
Nessuna delle censure contenute nel decreto di annullamento sarebbe riferibile, in concreto, all’incarico affidato all’attore.
Vi sarebbe poi una illegittimità formale del provvedimento di riesame, non essendo stata fornita l’obbligatoria comunicazione di avvio del procedimento ai sensi della legge n. 241 del 1990 i soggetti interessati, oltre che per non aver considerato che per gli atti di ritiro vigeva il principio del “contrarius actus”, che imponeva che venissero adottate le stesse forme e modalità di emissione dell’atto oggetto di ritiro in autotutela.
Il conferimento di incarico era avvenuto previo controllo e visto da parte dell’Ufficio economia e finanze, mentre i medesimi adempimenti non erano stati eseguiti nel successivo decreto di annullamento.
3.1. Il motivo è inammissibile.
Vi è una doppia decisione di merito di cui all’art. 348-ter c.p.c., che impedisce di formulare il motivo di censura sulla motivazione.
La Corte di merito, infatti, ha evidenziato, con pieno giudizio meritale, che in astratto era possibile per il giudice ordinario procedere alla disapplicazione del provvedimento amministrativo di annullamento, eventualmente illegittimo, ma che tale provvedimento era stato rigorosamente motivato, avendo messo in evidenza ” in modo analitico i profili di illegittimità e di illiceità della precedente determinazione assunta dal Ministero”.
Tuttavia, il D.D.non aveva esaminato il contenuto della motivazione del decreto di annullamento, avendolo censurato solo ed esclusivamente per il profilo di legittimità di cui all’art. 21-novies della legge n. 241 del 1990, “vale a dire ragionevolezza rispetto ai tempi di assunzione e tutela degli interessi dei soggetti coinvolti”.
Con il motivo di ricorso, invece, vengono aggrediti, per la prima volta, esclusivamente profili formali, costituiti dalla pretesa mancata obbligatoria comunicazione di avvio del procedimento e dalla asserita assenza delle modalità di emissione del provvedimento in autotutela, identiche al provvedimento di conferimento dell’incarico.
I ricorrenti fanno riferimento, in via del tutto generica, ad un profilo di illegittimità d e l decreto ministeriale del 29/3/2007, che avrebbe avuto ad oggetto “una serie indistinta di critiche assolutamente generiche ed astratte”, critiche che, però, non vengono neppure adombrate nel motivo di ricorso, se non in modo del tutto generico.
Non è stata impugnata, quindi, la ratio decidendi in termini di assenza di motivi di merito dell’illegittimità dell’atto amministrativo, essendovi appello solo in relazione all’art. 21-novies L. 241/90
- Con il terzo motivo di impugnazione ricorrenti si dolgono “ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., violazione di legge per violazione o falsa applicazione dell’art. 21-novies legge n. 241/1990, per aver erroneamente ritenuto che il decreto di annullamento non violasse il principio di ragionevolezza sancito dalla norma in questione e l’obbligo di tutela degli interessi dei destinatari sancito dalla norma in questione”.
La Corte d’Appello, dunque, ha erroneamente ritenuto che l’annullamento dell’atto in autotutela non abbia violato il principio della ragionevolezza del termine e neppure l’obbligo di tutela degli interessi dei destinatari e contro interessati, stabilito dall’art. 21-novies della legge n. 241 del 1990.
Il provvedimento amministrativo illegittimo poteva essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, ma “entro un termine ragionevole, comunque non superiore a 18 mesi, tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei contro interessati”.
Il limite temporale dei 18 mesi era stato introdotto con la legge n. 124 del 2015.
Il principio di ragionevolezza non sarebbe stato rispettato in quanto il provvedimento di annullamento è stato emesso il 29/3/2007, quindi a distanza di 23 mesi dal conferimento dell’incarico, avvenuto in data 20/4/2005, e 11 mesi dopo che la commissione di valutazione aveva espresso il suo giudizio positivo sull’elaborato presentato dal professionista, in data 10/4/2006.
Neppure si è tenuto conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, con una valutazione comparativa, non essendo stata fornita neppure la comunicazione di avvio del procedimento, mentre il Ministero ha atteso cinque mesi prima di dare comunicazione all’interessato dell’avvenuto annullamento del conferimento di incarico.
Tra l’altro, gli uffici del Ministero con comunicazione dell’8/5/2007 hanno informato il D.D.che era “ancora in corso presso gli uffici competenti la procedura per il pagamento relativo allo studio da lei effettuato su incarico del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti”.
Al contrario “una corretta applicazione dell’art. 21-novies L. n. 241/1990 da parte del giudice di appello avrebbe necessariamente dovuto condurre alla disapplicazione del decreto di annullamento e al conseguente riconoscimento del diritto del dr. D.D.al pagamento del compenso pattuito”.
4.1. Il motivo è inammissibile.
In realtà, la Corte d’Appello si è confrontata con la dedotta violazione del principio di ragionevolezza di cui all’art. 21-novies della legge n. 241 del 1990.
La Corte di merito, con pieno giudizio meritale, ha espressamente affermato, infatti, che “(i)l bilanciamento degli interessi consente, inoltre, di concludere per la legittimità dell’annullamento in autotutela anche sotto il profilo della tutela degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, posto che non appare meritevole il diritto della parte che abbia beneficiato di un provvedimento assunto in palese violazione di principi generali quali quelli sopraindicati, espressamente individuati nell’atto amministrativo stesso e neppure messi in discussione dall’interessato”.
I ricorrenti, dunque, non contrastano in modo efficace la ratio decidendi della decisione di secondo grado.
Tra l’altro, per il giudice amministrativo, costituisce principio ormai fermo in giurisprudenza quello secondo cui evitare l’esborso senza titolo di pubblico denaro costituisce interesse pubblico, sempre concreto ed attuale, idoneo a giustificare l’esercizio del potere di autotutela attraverso l’annullamento d’ufficio degli atti amministrativi illegittimi che detto esborso provocano o possono provocare (Cons. Stato, sez. V, 9/11/2001, n. 5771).
Con il corollario per cui ne scaturisce “la non necessità, in tale ipotesi, di una specifica motivazione in ordine alla esistenza dell’interesse pubblico all’annullamento e, per altro verso, il carattere recessivo dell’eventuale interesse privato contrapposto”.
Va anche precisato che l’illegittimità dell’atto amministrativo, di cui si chiede la disapplicazione al giudice ordinario, benché attenga al rapporto fra l’atto e la norma, costituisce tuttavia questione di fatto in quanto involgente non il piano della norma che disciplina la fattispecie dedotta in giudizio, sotto il profilo dell’errore di interpretazione o di sussunzione, ma il piano dell’elemento di fatto della fattispecie, ed in particolare quello dell’esistenza (della circostanza di fatto) di un atto amministrativo legittimo. Si tratterebbe invero di accertare, ai fini della disapplicazione, se ricorrano i presupposti di fatto del legittimo esercizio dell’azione amministrativa.
Il sindacato di legittimità ha ad oggetto la norma, come interpretata o applicata dal giudice del merito, ma non la legittimità (in via incidentale) dell’atto amministrativo, che è un fatto, a meno che nella valutazione della legittimità dell’atto il giudice del merito sia incorso in un errore di diritto, e dunque illegittima è la statuizione del giudice, non l’atto amministrativo (il giudice del rinvio dovrà valutare della legittimità dell’atto sulla base delle corretta interpretazione o applicazione della norma).
La censura pone questioni relative al giudizio di fatto (il termine entro il quale l’annullamento è stato adottato; il bilanciamento degli interessi – peraltro valutato dalla corte), sulla cui base valutare della legittimità dell’atto amministrativo, e dunque una valutazione riservata al giudice del merito.
Va chiarito, poi, che il potere del giudice ordinario di disapplicare gli atti amministrativi, ex art. 5 della L. n. 2248 del 1865, all. E, può essere esercitato anche nelle controversie in cui è parte la pubblica amministrazione e non soltanto nelle liti tra privati, a condizione che l’atto illegittimo venga in rilievo come mero antecedente logico e non già come fondamento del diritto dedotto in giudizio – e, cioè, che la questione della sua legittimità sia prospettata come pregiudiziale in senso tecnico e non come principale – e che il provvedimento sia affetto da vizi di legittimità, come tali lesivi di diritti, dovendosi invece escludere il sindacato del giudice con riguardo alle valutazioni di merito attinenti all’esercizio del potere discrezionale dell’amministrazione (Cass. Sez. U., 25/5/2018, n. 13193; Cass., Sez. U., 6/8/1975, n. 2987; 10/9/2004, n. 18263; 9/1/2007, n. 116; 5/6/2014, n. 12644; contra per l’esercizio del potere di disapplicazione del giudice ordinario solo nei giudizi tra le parti cfr. Cass., Sez. U., 2/11/2018, n. 280539).
Tuttavia, ai fini della disapplicazione è necessario che ricorrano due condizioni oggettive: a) il provvedimento amministrativo non può costituire l’oggetto diretto della controversia, cioè non può venire in rilievo come fondamento del diritto dedotto in giudizio, sicché la questione della sua legittimità si prospetti come pregiudiziale in senso tecnico e non come principale (Cass., n. 13193 del 2018; Cass., Sez. U., n. 2987 del 1975; n. 2244 del 2015; Cass., nn. 22/2/2002, n. 2588; 13/9/2006, n. 19659; 10/1/2017, n. 276; di recente in materia tributaria Cass., sez. 5, 2/10/2024, n. 25935 in ordine al potere del giudice tributario di disapplicare tutti gli atti amministrativi che costituiscono il presupposto dell’imposizione, quale espressione di un principio generale dell’ordinamento, fissato dall’art. 5 della legge n. 2248 del 1865, allegato E); b) il provvedimento deve essere affetto da vizi di legittimità, come tali lesivi di diritti, mentre il sindacato del giudice è escluso con riguardo alle valutazioni di merito attinenti all’esercizio del potere discrezionale dell’amministrazione (Cass., sez. U., n. 13193 del 2018; Cass., Sez. U., n. 18263 del 2004 e n. 116 del 2007).
Non è stato, invece, ritenuto applicabile il potere di disapplicazione del giudice ordinario nelle controversie relative ai canoni dovuti alla PA per l’occupazione di spazi pubblici in ordine alle delibere comunali che fissano i criteri di determinazione di tali canoni (Cass., Sez. U., 10/12/2001, n. 15603 ; può invece operare la disapplicazione per gli atti amministrativi strumentali rispetto all’accertamento di violazioni amministrative: Cass., 20/4/2018, n. 8796).
Pertanto, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., deve essere enunciato il seguente principio di diritto: ” in tema di disapplicazione del provvedimento amministrativo da parte del giudice ordinario, ex art. 5 della L. n. 2248 del 1865, all. E, il sindacato del giudice di legittimità ha ad oggetto la norma, come interpretata o applicata dal giudice del merito, ma non la legittimità – in via incidentale – dell’atto amministrativo, in relazione a questioni di fatto (come nelle ipotesi di verifica del termine entro il quale l’annullamento è stato adottato ex art. 21-novies legge n. 241 del 1990 e del connesso corretto bilanciamento degli interessi); a meno che nella valutazione della legittimità dell’atto il giudice del merito sia incorso in un errore di diritto, e dunque illegittima è la statuizione del giudice, non l’atto amministrativo, ed in questo ultimo caso il giudice del rinvio dovrà valutare della legittimità dell’atto sulla base della corretta interpretazione o applicazione della norma”.
- Con il quarto motivo di impugnazione i ricorrenti deducono “ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 e n. 5, c.p.c., violazione di legge per violazione o falsa applicazione degli articoli 1337 e 1338 c.c., per aver erroneamente ritenuto non sussistenti da responsabilità precontrattuale del Ministero convenuto, e anche per aver erroneamente ritenuto che il dr. D.D. non abbia eccepito la violazione del principio di affidamento incolpevole con riguardo agli obblighi assunti dalla PA con la conclusione del contratto”.
Ad avviso dei ricorrenti la responsabilità di cui all’art. 1337 c.c. riguarda solo la fase delle trattative contrattuali, ma anche il caso di “conclusione di un contratto invalido”.
Inoltre, per i ricorrenti non vi sarebbe dubbio che “sussista in capo al Ministero convenuto la responsabilità prevista dall’art. 1338 c.c., la quale presuppone, senza ombra di dubbio, che un contratto era stato concluso, e mira tutela dell’affidamento incolpevole che una parte abbia fatto sulla validità del medesimo”.
Aggiungono i ricorrenti che “sotto questo aspetto (rif art. 1338 c.c.), espressamente sollevato dal dr. D.D.fin dal I grado di giudizio, la sentenza impugnata manifesta tutta la propria superficialità ed erroneità”.
La PA era l’unica a conoscere o dover conoscere l’esistenza della presunta causa di invalidità del conferimento dell’incarico e del contratto concluso, avendo dunque la responsabilità di non aver informato il D.D. della sussistenza di tale causa di invalidità, inducendolo con il proprio comportamento inequivocabile a fare affidamento sulla validità del rapporto contrattuale.
I ricorrenti “diversamente da quanto ritenuto dalla Corte d’Appello, il dr. D.D. ha fatto valere dall’inizio del giudizio violazione dei principi dell’affidamento incolpevole (…) sia con riferimento alla salvaguardia del proprio diritto acquisito al pagamento del compenso, sia per rilevare la responsabilità del Ministero ai sensi degli articoli 1337 e 1338 c.c.”.
Sarebbe stato comunque onere dell’amministrazione dimostrare che il D.D.”conosceva o avrebbe dovuto conoscere i vizi del decreto di conferimento dell’incarico e del contratto stipulato dalle parti”.
5.1. Il motivo è in parte infondato e in parte inammissibile.
5.2. Con riferimento alla pretesa violazione dell’art. 1337 c.c., la Corte d’Appello ha correttamente evidenziato che il contratto è stato stipulato, vertendosi dunque non ” in materia di violazione della buona fede in ambito precontrattuale, bensì di annullamento con efficacia retroattiva di un contratto già concluso”.
Il motivo è, dunque, infondato, dovendosi pure evidenziare che non è stata impugnata la ratio decidendi di omessa impugnazione sotto il profilo della scorrettezza nelle trattative.
5.3. Con riguardo, invece, alla responsabilità della PA ex art. 1338 c.c., la Corte territoriale ne ha rilevato l’inammissibilità per novità della questione,rilevando che “l’argomento introdotto da parte appellante, se prospettato i fini di violazione di una responsabilità diversa da quella precontrattuale, costituisce questione nuova e non suscettibile di essere esaminata, avendo parte attrice proposto, in via estremamente gradata, con l’atto introduttivo della presente controversia, la sola domanda di responsabilità precontrattuale, senza alcun riferimento alla violazione dei principi dell’affidamento incolpevole con riguardo agli obblighi assunti con la conclusione del negozio che, peraltro, sarebbero comunque assorbiti e regolati alla luce di quanto già motivato in punto rigetto del primo motivo di impugnazione”.
- Non v’è dubbio che costituisce, poi, principio consolidato della giurisprudenza di legittimità quello per cui l’art. 1338 c.c. costituisce una specificazione del dovere di cui all’art. 1337 c.c. (Cass., sez. L, 21/8/2004, n. 16508, per cui “non solo l’impresa, ma anche il sindacato stipulante il contratto collettivo versavano nella medesima ignoranza colpevole, sicché deve escludersi responsabilità precontrattuale ai sensi dell’art. 1338 c.c.”; Cass., sez. 3, 18/5/1971, n. 1494).
6.1. La responsabilità di cui all’art. 1338 c.c., per cui “la parte che, conoscendo o dovendo conoscere l’esistenza di una causa di invalidità del contratto, non ne ha dato notizia l’altra parte è tenuta a risarcire il danno da questa risentito per avere confidato, senza sua colpa, nella validità del contratto”, presuppone non solo la colpa di una parte nell’ignorare la causa di invalidità del contratto, ma anche la mancanza di colpa dell’altra parte nel confidare nella sua validità” (Cass., n. 16508 del 2004).
Con la precisazione per cui la responsabilità di cui all’art. 1338 c.c., in tema di colpa precontrattuale, a differenza della fattispecie prevista dall’art. 1337 c.c., non tutela l’affidamento di una delle parti sulla conclusione del contratto, “ma l’affidamento della parte sulla validità del contratto, per cui il danno risarcibile non è in relazione alla mancata conclusione del contratto, ma soltanto quello riconducibile al fatto di avere confidato nella validità del contratto” (Cass., sez. 2, 26/5/1992, n. 6294).
L’art. 1338 c.c. trova applicazione quando un’amministrazione non solo rimanga silente, “ma improvvisamente conduca il procedimento sino alla stipulazione di un contratto destinato ad essere caducato o a rimanere inefficace e talora ne pretenda l’anticipo dell’esecuzione, in tal modo frustrando il (…) legittimo affidamento (del privato) nell’esigibilità dello stesso e nella legalità dell’azione amministrativa” (Cass., n. 9636 del 2015).
Con la precisazione per cui l’art. 1338 c.c. mira a tutelare il contraente di buona fede ingannato o fuorviato dall’ignoranza della causa di invalidità del contratto che gli è stata taciuta e che non era nei suoi poteri conoscere (Cass., n. 3272 del 2001), ma se vi è colpa da parte sua, se quindi egli avrebbe potuto, con l’ordinaria diligenza, venire a conoscenza della reale situazione e, quindi, della causa di invalidità, non è più possibile applicare l’art. 1338 c.c. (Cass., n. 1987 del 1985).
6.2. Nella specie, però, i ricorrenti non hanno indicato l’atto con cui nel giudizio di primo grado avrebbero posto la questione in ordine all’applicabilità dell’art. 1338 c.c., ed al conseguente affidamento per il privato generato dalla condotta della PA, nonostante la consapevolezza dell’invalidità del contratto stipulato.
Del tutto genericamente, nel motivo di ricorso si fa riferimento alle difese del D.D. relative al “I grado di giudizio”, a fronte di una specifica presa di posizione sul punto da parte della Corte d’Appello.
6.3. Senza contare che il ricorrente non ha neppure indicato quali fossero i vizi specifici dell’originario provvedimento di conferimento dell’incarico, posti in evidenza con il successivo provvedimento di riesame di autoannullamento emesso da parte della PA.
Non va dimenticato, infatti, che se la causa di invalidità del negozio deriva da una norma imperativa o proibitiva di legge, o da altre norme aventi efficacia di diritto obiettivo, tali da dover essere note per presunzione assoluta la generalità dei cittadini e – comunque – tali che la loro ignoranza bene avrebbe potuto o dovuto essere superata attraverso un comportamento di normale diligenza, non si può configurare colpa contrattuale a carico dell’altro contraente, che abbia omesso di far rilevare alla controparte l’esistenza delle norme stesse (Cass., n. 10156 del 2016; Cass. n. 6337 del 1998; Cass., 11/7/1972 n. 2325, ove si fa riferimento alla causa di invalidità del negozio costituita dal difetto della forma scritta di un contratto stipulato un comune; anche Cass., sez. 2, 9/10/1979, n. 5240).
- Con il quinto motivo di impugnazione ricorrenti deducono “ai sensi dell’ art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 2041 c.c. per aver erroneamente ritenuto non sussistente la dichiarazione di utilità della prestazione eseguita, peraltro ponendosi con ciò in contrasto con orientamento espresso dalla Corte di cassazione, sezioni unite, con sentenza 26/5/2015, n. 10798”.
Per i ricorrenti sarebbe erronea la pronuncia del giudice d’appello nella parte in cui ha asserito che il parere espresso dal comitato ministeriale previsto dall’art. 6 del D.P.R. n. 338 del 1994 non ha valore di dichiarazione di utilità, poiché travolto dall’esercizio del potere di tutela.
In realtà, però, tale comitato rappresenta proprio l’organo deputato ad esprimersi in merito ai risultati degli esperti incaricati dai Ministri.
Soprattutto, i ricorrenti richiamano la pronuncia di questa Corte, a sezioni unite, n. 10798 del 26/5/2015, per la quale il riconoscimento dell’utilità da parte della PA non costituisce un requisito dell’azione di arricchimento senza causa, sicché il depauperato ha l’onere di provare solamente il fatto oggettivo dell’arricchimento, senza che la PA possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso.
Nella specie, risulta provato il fatto oggettivo dell’arricchimento in quanto il D.D. ha fornito prova documentale della prestazione dal medesimo eseguita e della sua consegna alla PA.
Inoltre, nel caso di specie il Ministero non ha mai sostenuto di aver rifiutato l’arricchimento o di non averlo potuto rifiutare o di non esserne stato consapevole, “considerato l’esplicito e formale incarico conferito al dr. D.D. e da questi completamente svolto, con conseguente valutazione positiva dell’apposito comitato”
7.1. Il motivo è fondato.
La Corte d’Appello, infatti, ha ritenuto, da un lato, che il parere espresso dal comitato ministeriale era venuto meno a seguito del legittimo esercizio del potere di autotutela da parte del Ministero, e dall’altro, che non poteva desumersi “neppure implicitamente, l’utilità della prestazione da articoli di stampa, che facciano riferimento a un’ipotetica realizzazione della tratta autostradale oggetto dello studio eseguito da parte del dott. D.D.”, non essendovi peraltro “prova alcuna che detto studio sia stato utilizzato dalla p.a.”.
Tale affermazione è complessivamente errata.
Ed infatti, per questa Corte, il riconoscimento dell’utilità da parte dell’arricchito non costituisce requisito dell’azione di indebito arricchimento, sicché il depauperato che agisce ex art. 2041 cod. civ. nei confronti della P.A. ha solo l’onere di provare il fatto oggettivo dell’arricchimento, senza che l’ente pubblico possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso, esso potendo, invece, eccepire e provare che l’arricchimento non fu voluto o non fu consapevole, e che si trattò, quindi, di “arricchimento imposto” (Cass., Sez. U., 26/5/2015, n. 10798).
Si è quindi privilegiata l’interpretazione giurisprudenziale volta a predicare una valutazione oggettiva dell’arricchimento che prescinde dal riconoscimento esplicito o implicito dell’ente beneficiario.
Il diritto fondamentale di azione del depauperato può adeguatamente coniugarsi con l’esigenza, altrettanto fondamentale, del buon andamento dell’attività amministrativa, affidando alla stessa pubblica amministrazione l’onere di eccepire e provare il rifiuto dell’arricchimento o l’impossibilità del rifiuto per la sua inconsapevolezza (arricchimento imposto).
L’impostazione contraria, fondata sulla necessità di un riconoscimento esplicito o implicito degli organi rappresentativi, risulta ancorata ad una lettura dell’istituto in chiave contrattuale è stata già stigmatizzata dalla Corte di cassazione (Cas. n. 23385 del 2008).
L’arricchimento va ricondotto ad una dimensione fattuale divenendo oggettivo, escludendo che la qualificazione pubblicistica del soggetto arricchito possa essere evocata a fondamento di una riserva di discrezionalità in punto di riconoscimento dell’arricchimento e/o del suo ammontare.
Nella specie, però, non risultano né il rifiuto da parte della PA dell’arricchimento né l’impossibilità di rifiutarlo perché inconsapevole dell’eventum utilitatis.
- La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata, con rinvio alla Corte d’Appello di Bologna, in diversa composizione, che provvederà anche sulla determinazione delle spese del giudizio di legittimità
P.Q.M.
accoglie il quinto motivo; rigetta i restanti; cassa la sentenza impugnata in ordine al motivo accolto, con rinvio alla Corte d’Appello di Bologna, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità
Conclusioni
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 12 marzo 2025
Depositato in Cancelleria il 14 marzo 2025.