<p style="font-weight: 400; text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Corte Costituzionale, sentenza 24 aprile 2020 n. 71</strong></p> <p style="text-align: justify;"><em>Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 53 della legge della Regione Calabria 29 dicembre 2010, n. 34, «Provvedimento generale recante norme di tipo ordinamentale e procedurale (Collegato alla manovra di finanza regionale per l’anno 2011). Articolo 3, comma 4, della legge regionale n. 8/2002».</em></p> <p style="text-align: justify;"><strong><em>TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE</em></strong></p> <p style="text-align: justify;"><em>2.– In punto di rilevanza, la prospettazione del giudice rimettente deve essere condivisa, dal momento che la <strong>cessazione dell’uso civico</strong> – che la norma denunciata ricollega alla sola insistenza del bene sull’area ricompresa nel piano in questione – appare avere priorità logico-giuridica rispetto a un eventuale decreto d’esproprio. Quest’ultimo, infatti, secondo la consolidata giurisprudenza del giudice della nomofilachia sarebbe <strong>nullo</strong> perché <strong>in contrasto con la natura demaniale del bene</strong> (Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 30 giugno 1999, n. 375).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>3.– Le questioni sollevate dal giudice rimettente toccano temi di particolare complessità, investendo delicate questioni inerenti ai rapporti tra <strong>tutela paesistico-ambientale</strong>, gestione dell’assetto del territorio e diritti afferenti a <strong>particolari regimi di proprietà</strong>, disciplinati in relazione di specialità rispetto ai principi generali del codice civile.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Prima di esaminare il merito delle censure si rende pertanto opportuna una ricognizione dello stato della legislazione e della giurisprudenza in materia. Detta ricognizione può essere sintetizzata in una serie di considerazioni legate da un rapporto di interdipendenza e di pregiudizialità così articolato:</em></p> <ol style="text-align: justify;"> <li><em>a) rapporto tra<strong>tutela paesistico-ambientale</strong>e <strong>garanzie di natura civilistica</strong> a favore delle <strong>collettività titolari di beni civici</strong>;</em></li> <li><em>b) regime e limiti della<strong>sclassificazione</strong>e dei <strong>mutamenti di destinazione</strong> dei suddetti assetti fondiari collettivi;</em></li> <li><em>c) rapporti tra soggetti titolari della<strong>pianificazione paesistico-ambientale</strong>e soggetti titolari di quella <strong>urbanistica</strong>;</em></li> <li><em>d) caratteri delle tutele in questione in relazione alla<strong>natura mutevole e dinamica</strong>dei canoni di gestione del territorio.</em></li> </ol> <p style="text-align: justify;"><em>3.1.– Quanto al rapporto tra tutela paesistico-ambientale e garanzie di natura civilistica a favore delle collettività titolari di beni civici, è da sottolineare come questa Corte avesse definito, già in tempi risalenti, il sintagma “<strong>usi civici</strong>” come una «“espressione di comodo” […] che comprende istituti e discipline varie dell’intero territorio [nazionale]» (sentenza n. 142 del 1972). Oggi sinonimo di tale espressione può essere considerato quello, ascrivibile alla dottrina contemporanea, di “<strong>assetti fondiari collettivi</strong>”, cioè regimi di proprietà diversi da quella allodiale, aventi quale comun denominatore – all’interno di singole peculiarità generate dai diversi contesti storici – <strong>l’utilizzazione collettiva di alcuni beni immobili</strong>.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Tali beni, la cui rilevanza pubblicistica risale, nella maggior parte dei casi, a <strong>epoca anteriore all’unità d’Italia</strong>, sono stati rafforzati in tale carattere a partire dal 1985, quando furono inseriti tra le <strong>zone di particolare interesse paesistico-ambientale</strong>. Infatti, il decreto- legge 27 giugno 1985, n. 312 (Disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale), convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1985, n. 431, aveva inserito nella <strong>disciplina paesistico-ambientale</strong> le situazioni dominicali rientranti nell’onnicomprensiva locuzione “usi civici”.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Questa Corte aveva individuato la ratio di tale evoluzione legislativa nel fatto che «l’integrità ambientale è un bene unitario, che può risultare compromesso anche da interventi minori e che deve, pertanto, essere salvaguardato nella sua interezza (v., da ultimo, sentenza n. 247 del 1997 e ordinanze n. 68 e n. 158 del 1998), con il più ampio coinvolgimento di aree allo stato naturale o che hanno subito minori alterazioni, ad opera dell’uomo, rispetto alle destinazioni tradizionali, in modo da tutelarle, imponendo […] non un divieto assoluto, ma una <strong>pianificazione</strong> e, per gli interventi innovativi, un <strong>regime di valutazione e autorizzazione</strong> rimessa alla autorità preposta al vincolo» (ordinanza n. 316 del 1998).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Ciò rispondeva – secondo questa Corte – a una scelta, tutt’altro che irrazionale, diretta a salvaguardare vaste porzioni di territorio, non solo secondo <strong>aspetti tipicamente paesistici</strong> ovvero secondo ubicazioni o aspetti morfologici, «ma anche secondo lo <strong>speciale regime giuridico</strong>: regime della loro appartenenza a determinati soggetti pubblici […], caratterizzati da <strong>natura associativa</strong> e da <strong>gestione di domini collettivi</strong> e dall’amministrazione di terre demaniali di uso civico […] con attività rivolta alla cura di interessi generali senza connotati imprenditoriali [… cosicché] le zone vincolate in ragione dell’appartenenza a università agrarie o dell’assoggettamento a usi civici comprendono vaste aree con destinazione a pascolo naturale o a bosco, o agricole tradizionali, e risalenti nel tempo nelle diverse regioni in relazione agli obblighi gravanti e alla particolare sensibilità alla conservazione da parte delle collettività o comunità interessate, in modo da consentire il mantenimento di una serie di porzioni omogenee del territorio, accomunate da speciale regime o partecipazione collettiva o comunitaria, e caratterizzate da una tendenza alla <strong>conservazione dell’ambiente naturale o tradizionale</strong>, come patrimonio dell’uomo e della società in cui vive» (ordinanza n. 316 del 1998).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La competenza statale nella materia trova attualmente la sua espressione nell’art. 142 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), «le cui disposizioni fondamentali questa Corte ha qualificato come <strong>norme di grande riforma economico-sociale</strong> (sentenze n. 207 e n. 66 del 2012, n. 226 e n. 164 del 2009 e n. 51 del 2006): esse si impongono pertanto al rispetto del legislatore [regionale]» (sentenza n. 210 del 2014).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Dunque, l’evoluzione dell’ordinamento giuridico in tema di assetti fondiari collettivi ha fatto sì che la <strong>tutela paesistico-ambientale</strong> abbia incorporato sia il <strong>regime giuridico</strong> degli stessi, sia <strong>i beni</strong> in quanto gestiti in conformità a siffatto regime.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>In tale prospettiva questa Corte ha riconosciuto la legittimazione di alcuni <strong>utenti-condomini</strong> a rappresentare gli interessi alla conservazione del regime giuridico anche in opposizione all’ente esponenziale di tali patrimoni (sentenza n. 113 del 2018).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Si ebbe ad affermare in quell’occasione che gli stessi condomini hanno facoltà di promuovere <strong>provvedimenti petitori e possessori</strong>, uti singuli et cives, a beneficio della collettività cui appartengono, sicché, nell’ambito della più generale tutela paesistico-ambientale, «[l]a descritta situazione di diritto sostanziale comporta che l’eventuale esito positivo dell’azione vada a beneficio della generalità dei condomini» (sentenza n. 113 del 2018).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Tornando quindi al rapporto tra tutela paesistico-ambientale e salvaguardia del regime dei beni d’uso civico, si può concludere che <strong>la prima incorpora ed è consustanziale alla seconda</strong>, sicché l’esercizio di quest’ultima deve operare in assoluta sinergia con la <strong>tutela paesistico-ambientale</strong>.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>3.2.– Quanto al regime e ai limiti della sclassificazione e dei mutamenti di destinazione dei suddetti assetti fondiari collettivi, è innanzitutto da verificare se sia esatto il richiamo del giudice a quo alla <strong>legge n. 1766 del 1927</strong> quale norma interposta oppure se lo stesso avrebbe dovuto misurarsi anche con la recente <strong>legge 20 novembre 2017, n. 168</strong> (Norme in materia di domini collettivi), al fine di individuare il particolare regime civilistico dei <strong>beni di natura civica</strong>.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La prospettiva della rimettente deve essere condivisa, poiché la legge n. 168 del 2017, oltre che riferirsi ai soli domini collettivi, nulla modifica in ordine alle tipologie di sclassificazione previste dalla legge n. 1766 del 1927 e dal regolamento attuativo approvato con R. decreto 26 febbraio 1928, n. 332 (Approvazione del regolamento per la esecuzione della legge 16 giugno 1927, n. 1766, sul riordinamento degli usi civici nel Regno).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Infatti, la menzionata legge n. 168 del 2017 riguarda una particolare specie di assetti fondiari, quale quella dei <strong>domini collettivi</strong>, che non esaurisce certamente la variegata tipologia di beni che assumono indefettibile valenza pubblicistica, già riconosciuta in epoca risalente dalla giurisprudenza di questa Corte e della Corte di cassazione e notevolmente rafforzata dall’espresso richiamo del d.l. n. 312 del 1985, come convertito, prima, e, poi, dell’art. 142, comma 1, lettera h), del Codice dei beni culturali e del paesaggio.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Sull’<strong>inderogabile valenza pubblicistica del bene collettivo</strong> non incide certo la facoltà prevista dall’art. 1, comma 2, della legge n. 168 del 2017, per gli enti esponenziali delle collettività titolari di domini collettivi, di assumere <strong>personalità giuridica di diritto privato</strong>. È evidente che tale facoltà attiene unicamente alle modalità di gestione di tali beni, che può essere costituzionalmente legittima solo nel perimetro fissato dal particolare regime giuridico dell’assetto fondiario, <strong>dall’uso paesisticamente coerente</strong> dello stesso e dall’impossibilità di escludere da tale particolare societas il godimento del bene collettivo spettante a ciascun membro della collettività.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>E, quanto al particolare regime giuridico, è da sottolineare come, anche per i domini collettivi, l’art. 3, comma 3, della legge n. 168 del 2017 ribadisca che «[i]l regime giuridico dei beni di cui al comma 1 resta quello <strong>dell’inalienabilità, dell’indivisibilità, dell’inusucapibilità e della perpetua destinazione agro-silvo-pastorale</strong>».</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>3.3.– Quanto ai rapporti tra soggetti titolari della pianificazione paesistico-ambientale e i titolari di quella urbanistica è da escludere che «nell’intero arco temporale di vigenza del Titolo V, Parte II, della Costituzione – sia nella versione antecedente alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), sia in quella successiva – e, quindi, neppure a seguito dei d.P.R. n. 11 del 1972 e n. 616 del 1977 […], il regime civilistico dei beni civici <strong>sia mai passato nella sfera di competenza delle Regioni</strong>.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Infatti, la materia “agricoltura e foreste” di cui al previgente art. 117 Cost., che giustificava il trasferimento delle funzioni amministrative alle Regioni e l’inserimento degli usi civici nei relativi statuti, mai avrebbe potuto comprendere la disciplina <strong>della titolarità e dell’esercizio di diritti dominicali</strong> sulle terre civiche» (sentenza n. 113 del 2018).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Peraltro, già l’ordinanza n. 316 del 1998 di questa Corte aveva chiarito inequivocabilmente che – nell’ambito della pianificazione del territorio – la valutazione dell’autorità preposta al vincolo è propedeutica alla pianificazione urbanistica.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>In definitiva – quando si verte in tema di pianificazione paesistico-ambientale e dell’assetto del territorio – l’eventuale coinvolgimento di <strong>assetti fondiari collettivi</strong> deve prioritariamente passare attraverso un rigoroso esame di compatibilità con le <strong>esigenze di natura paesistico-ambientale di competenza statale</strong> e con i concreti interessi della collettività locale che ne è titolare.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>3.4.– Con riguardo alla compatibilità delle tutele in questione con la natura mutevole e dinamica dei canoni di gestione del territorio, è di palmare evidenza che esse non possono consistere in una mera conservazione statica, ma <strong>devono tener conto dell’evoluzione ecosistemica</strong>, di quella dell’economia agricola e delle nuove conoscenze nella materia ambientale, nell’agricoltura e nelle tecniche silvo-pastorali.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Con riguardo a tale problematica, si rinvia a quanto successivamente argomentato circa la natura dinamica della tutela degli assetti fondiari collettivi.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>4.– Venendo al merito, le censure proposte dal giudice a quo sono fondate in riferimento agli artt. 9 e 117, secondo comma, lettera l), Cost.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>4.1.– Quanto all’art. 9 Cost., come già illustrato, l’art. 53 della legge reg. Calabria n. 34 del 2010 stabilisce <strong>la cessazione dei diritti di uso civico</strong>, quando questi insistano sulle aree e sui nuclei di sviluppo industriale individuati dai relativi piani regolatori, ai sensi dell’art. 20 della legge reg. Calabria n. 38 del 2001.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Non è qui in dubbio che il <strong>piano di sviluppo industriale</strong> – che si avvantaggerebbe dall’anomala estinzione prevista dalla disposizione censurata – si caratterizzi per <strong>effetti conformativi immediati</strong> nei confronti dei privati proprietari delle aree oggetto delle relative previsioni, potendo esso contenere prescrizioni immediatamente cogenti e vincoli preordinati all’espropriazione dei terreni, ove sia prevista la realizzazione di infrastrutture o di immobili industriali, dei quali comunque si ritenga necessaria l’apprensione coattiva.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Così come non è in discussione che dall’adozione dei piani di tale natura derivi l’obbligo per i Comuni di applicare le misure di salvaguardia.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Quel che osta all’applicazione di tale schema normativo è la <strong>pregiudizialità della valutazione</strong> in ordine all’eventuale <strong>mutamento di destinazione dell’area agro-silvo-pastorale gravata da usi civici</strong> rispetto alla sua inclusione nel piano di sviluppo industriale. È stato già affermato che «per una efficace tutela del paesaggio e dell’ambiente non è sufficiente un intervento successivo alla soppressione degli usi civici: occorre al contrario garantire che lo Stato possa far valere gli interessi di cui è portatore sin nella formazione del piano straordinario di accertamento demaniale, concorrendo a verificare se <strong>sussistano o meno le condizioni per la loro stessa conservazione</strong>, ferme restando le regole nazionali inerenti al loro regime giuridico e alle relative forme di tutela» (sentenza n. 210 del 2014).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Al riguardo, questa Corte ha successivamente ribadito «aspetti di indefettibile sovrapposizione funzionale e strutturale tra la <strong>tutela paesistico-ambientale</strong> e <strong>quella dominicale dei beni di uso civico</strong>. Il fatto che le peculiari tipologie d’utilizzo dei beni d’uso civico e il relativo regime giuridico siano stati riconosciuti dal legislatore in materia ambientale come meritevoli di tutela per la realizzazione di interessi generali, ulteriori e diversi rispetto a quelli che avevano favorito la conservazione incontaminata di questi patrimoni collettivi, determina un <strong>meccanismo di garanzia integrato e reciproco</strong> per cui l’utilizzazione non intensiva del patrimonio civico e il regime di imprescrittibilità e inalienabilità sono contemporaneamente causa ed effetto della peculiare fattispecie che il legislatore ambientale intende preservare, precludendo soluzioni che sottraggano tale patrimonio alla sua naturale vocazione» (sentenza n. 113 del 2018).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>In definitiva – anche alla luce di quanto più ampiamente considerato al punto 3.3. – l’eventuale coinvolgimento di assetti fondiari collettivi nella pianificazione urbanistica <strong>deve prioritariamente passare</strong> attraverso un <strong>rigoroso esame di compatibilità con le esigenze di natura paesistico-ambientale</strong> di competenza <strong>statale</strong> e con i <strong>concreti interessi della collettività locale</strong> che ne è titolare.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>4.2.– Con riguardo alla censura proposta in riferimento all’art. 117, secondo comma, Cost., occorre innanzitutto chiarire che l’indicazione della lettera s) del secondo comma dell’art. 117 Cost. quale parametro violato è riconducibile a un errore materiale e non incide sul thema decidendum, per la cui individuazione occorre far riferimento alla <strong>motivazione dell’atto di promovimento</strong> (ex plurimis, sentenze n. 122 e n. 97 del 2019), nel quale si fa menzione della <strong>lesione della materia «ordinamento civile»</strong>.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Se è innegabile – come in precedenza ampiamente rammentato – che la determinazione del <strong>regime giuridico dei beni immobili</strong> appartiene alla materia dell’ordinamento civile, deve concludersi che la disposizione censurata, nel disporre la descritta cessazione-estinzione, introduce, attraverso <strong>l’invasione della competenza statale</strong>, una <strong>non consentita compressione della proprietà collettiva</strong>.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Un bene gravato da uso civico non può essere oggetto di sclassificazione al di fuori delle ipotesi tassative previste dalla legge n. 1766 del 1927 e dal r.d. n. 332 del 1928, per il particolare regime della sua titolarità e della sua circolazione, «“che lo assimila ad un <strong>bene appartenente al demanio</strong>, nemmeno potendo per esso configurarsi una cosiddetta sdemanializzazione di fatto.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>L’incommerciabilità derivante da tale regime comporta che […] la preminenza di quel pubblico interesse, che ha impresso al bene immobile il vincolo dell’uso civico stesso, ne vieti qualunque circolazione” (Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 28 settembre 2011, n. 19792)» (sentenza n. 113 del 2018).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>5.– Questa Corte non ignora il fenomeno dei reiterati interventi legislativi regionali (ex plurimis, sentenze n. 178 e n. 113 del 2018; n. 103 del 2017 e n. 210 del 2014) – analoghi a quello oggetto del presente giudizio – in violazione dei princìpi costituzionali applicabili alla materia degli usi civici.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Non di rado tali tentativi appaiono più o meno esplicitamente finalizzati a <strong>sistemare situazioni patrimoniali indefinite da lungo tempo</strong>, sfociando in <strong>un’indebita invasione della competenza esclusiva statale</strong> in materia di ordinamento civile. Peraltro assumono dimensioni palesemente sproporzionate anche quando riguardano la “regolarizzazione” di situazioni sostanzialmente marginali. Questo reiterarsi di tentativi di invasione della competenza legislativa statale finisce per coinvolgere in un defatigante contenzioso lo Stato, le Regioni, gli enti locali, le comunità territoriali e i giudici di merito.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Dette prassi legislative appaiono peraltro <strong>sproporzionate e contraddittorie</strong>, perché le esigenze a esse sottese trovano già risposta in <strong>procedimenti amministrativi di competenza regionale</strong> che si muovono nel perimetro delle deroghe ai principi generali di indisponibilità e inalienabilità, come fissato dalla legge n. 1766 del 1927 e dal relativo regolamento di attuazione (r.d. n. 332 del 1928).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>In proposito si è già avuto modo di sottolineare come la previa assegnazione a categoria dei beni civici di cui all’art. 11 della legge n. 1766 del 1927 non abbia più ragion d’essere alla luce dell’introduzione del <strong>vincolo paesistico-ambientale</strong> e delle <strong>mutate condizioni socio-economiche del Paese</strong>: «nel vigente quadro normativo la previa assegnazione a categoria dei beni civici non è più necessaria, in quanto il vincolo paesaggistico-ambientale è già perfetto e svolge pienamente i suoi effetti a prescindere da tale operazione, la quale – a sua volta – non è più funzionale agli scopi colturali, come un tempo configurati, e neppure coerente col medesimo vincolo paesistico-ambientale.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Infatti, l’assegnazione a categoria era funzionale alla <strong>quotizzazione dei terreni coltivabili</strong>, il cui fisiologico esito era l’affrancazione (previo accertamento delle migliorie colturali), cioè la <strong>trasformazione del demanio in allodio</strong>, oggi incompatibile con la conservazione ambientale. È stato in proposito affermato che “[l]a linea di congiunzione tra le norme risalenti e quelle più recenti, che hanno incluso gli usi civici nella <strong>materia paesaggistica ed ambientale</strong>, va rintracciata proprio nella <strong>pianificazione</strong>: ai piani economici di sviluppo per i patrimoni silvo-pastorali di cui all’art. 12 della legge n. 1766 del 1927 vengono oggi ad aggiungersi ed a sovrapporsi i piani paesaggistici di cui all’art. 143 del d.lgs. n 42 del 2004.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La pianificazione prevista da questi ultimi – a differenza del passato – riguarda <strong>l’intero patrimonio dei beni civici</strong> e non più solo i terreni identificati dall’art. 11 della legge n. 1766 del 1927 con la categoria a (‘terreni convenientemente utilizzabili come bosco o come pascolo permanente’)” (sentenza n. 103 del 2017)» (sentenza n. 113 del 2018).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Venuta meno l’assegnazione a categoria, non sono stati però travolti gli istituti della <strong>verifica demaniale</strong> e della <strong>pianificazione</strong> (oggi quella paesistico-ambientale subentrata al piano agro-silvo-pastorale), i quali, alle molteplici funzioni di carattere generale, aggiungono anche quelle di presupposto necessario delle ipotesi di <strong>variazione del patrimonio civico</strong>. Queste ultime sono ben possibili, come detto, nel perimetro consentito dalla legge statale.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Le variazioni possono essere raggruppate – con riguardo agli istituti conosciuti dalla legge statale – in tre categorie: le prime comportano la <strong>trasformazione del bene da demanio ad allodio</strong>, come l’alienazione e la legittimazione; le seconde, come lo scorporo, lo scioglimento delle promiscuità e la stessa conciliazione, regolano la <strong>separazione delle utilità a vocazione pubblica da quelle da assegnare all’ordinario regime privatistico</strong>; la terza <strong>preserva la vocazione pubblicistica</strong> del bene in un <strong>diverso assetto funzionale</strong>, attraverso il <strong>mutamento di destinazione</strong>.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>5.1.– L’alienazione riguarda – come stabilito dall’art. 39 del r.d. n. 332 del 1928 – quei fondi che per le loro esigue estensioni non sono indispensabili alla pianificazione agro-silvo-pastorale e non interrompono il demanio civico.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La legittimazione – come stabilito dall’art. 9 della legge n. 1766 del 1927 – riguarda terre di uso civico appartenenti ai Comuni, alle frazioni <strong>e alle associazioni</strong> sulle quali siano intervenute occupazioni. Queste possono essere legittimate a condizione che l’occupante vi abbia apportato <strong>sostanziali e permanenti migliorie</strong>; che la zona occupata non interrompa la continuità dei terreni del demanio civico; che l’occupazione duri almeno da dieci anni.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Si tratta di istituti tipizzati e conformati rigorosamente ai requisiti di legge che permeano i <strong>procedimenti amministrativi</strong> di cui costituiscono l’epilogo.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>In ragione dell’intrinseca marginalità economica e paesistico-ambientale, detti procedimenti devono essere condotti con trasparenza e speditezza: speditezza in quanto, in una società caratterizzata dal <strong>dinamismo dei traffici giuridici</strong>, non sono ragionevoli complicazioni procedimentali e indugi nell’attività istruttoria, che consiste prevalentemente in meri accertamenti di fatto; trasparenza come ostensibilità della sequenza procedimentale, affinché la veste marginale di tali variazioni non sia strumentalizzata per nascondere operazioni non consentite.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>5.2. – Analoghe considerazioni riguardano i procedimenti finalizzati a <strong>sciogliere le promiscuità</strong> e a risolvere l’esercizio degli usi in re aliena. Nella legge n. 1766 del 1927, per questo tipo di situazioni soggettive, emerge una chiara considerazione degli interessi privati meritevoli di tutela attraverso procedimenti che <strong>sfociano in atti negoziali</strong>, quali l’affrancazione dell’uso (artt. 5 e 34) e la conciliazione (artt. 8 e 29).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Nel caso dell’uso civico in re aliena l’ordinamento appresta tali strumenti per consentire la <strong>stabilizzazione di situazioni di diritto singolare</strong> esercitate <strong>da lunghissimo tempo</strong> senza opposizione della comunità di riferimento (mancato esercizio dell’uso, godimento pieno del bene, in alcuni casi piccole costruzioni con formale licenza edilizia).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>In fondo, la <strong>separazione della proprietà privata da un utile dominio</strong>, non esercitato da tempo immemorabile senza che detto mancato esercizio sia provocato nec vi, nec clam, risulta <strong>vantaggiosa per la stessa comunità titolare</strong>, che può ricavare, attraverso l’affrancazione o la conciliazione, un’indennità – che non ricomprende il valore delle opere realizzate secondo i canoni dell’art. 934 cod. civ., poiché, a differenza della fattispecie decisa dalla Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 16 febbraio 2018, n. 3873, il rapporto tra il proprietario e la comunità titolare dell’uso non è riconducibile alla disciplina del condominio – pari al pur modesto valore dell’uso non più esercitato. Peraltro, proprio il <strong>bilanciamento degli interessi pubblici e privati</strong> effettuato dal legislatore nel disciplinare <strong>l’affrancazione</strong> conduce a escludere che ciò possa comportare effetti ablativi sine causa nei confronti del proprietario.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Gli altri istituti, come <strong>lo scorporo e lo scioglimento delle promiscuità</strong> – ancorché collegati a situazioni ormai rare – meritano da parte delle amministrazioni competenti l’esercizio di una discrezionalità più complessa nella scelta di mantenere o risolvere la commistione tra proprietà privata e utile dominio della collettività poiché, in relazione a <strong>beni di notevole entità territoriale</strong>, ben potrebbe prevalere l’opzione di <strong>conservare il vincolo paesistico-ambientale</strong> sul <strong>patrimonio indiviso</strong>.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>5.3.– Come detto, il mutamento di destinazione è caratterizzato dalla <strong>conservazione del rilievo pubblicistico</strong> del bene in un <strong>diverso assetto funzionale</strong>. Tale possibilità è strettamente correlata alla <strong>natura dinamica dei vincoli</strong> che gravano sui patrimoni civici.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Infatti, la natura integrata e inscindibile del vincolo paesistico-ambientale con il regime dei beni civici comporta che la tutela non possa consistere in una <strong>conservazione statica</strong>, bensì in un regime di gestione che <strong>ne preservi il carattere ecologico e la disciplina giuridica</strong> in coerenza con <strong>l’evoluzione dell’economia agricola e di quella ambientale</strong>.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>È stato già chiarito da questa Corte che il carattere fondamentale del mutamento di destinazione è la compatibilità «con l’interesse generale della comunità che ne è titolare. Detto principio si rinviene nell’art. 41 del r.d. n. 332 del 1928, il quale stabilisce “[…] che a tutte o parte delle terre sia data una diversa destinazione, quando essa rappresenti un reale beneficio per la generalità degli abitanti […]. In tal caso il decreto di autorizzazione conterrà la clausola del ritorno delle terre, in quanto possibile, all’antica destinazione quando venisse a cessare lo scopo per il quale l’autorizzazione era stata accordata. Qualora non sia possibile ridare a queste terre l’antica destinazione, il Ministro per l’economia nazionale potrà stabilire la nuova destinazione delle terre medesime”» (sentenza n. 103 del 2017).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La norma richiamata evidenzia il <strong>principio di continuità della vocazione pubblica</strong> all’interno dell’istituto del <strong>mutamento di destinazione</strong> e dell’equilibrata composizione con le esigenze evolutive precedentemente descritte.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Di regola, come per tutte le variazioni del patrimonio di uso civico, vale anche nel caso di mutamento di destinazione il <strong>principio dell’onerosità del cambiamento</strong> che, tuttavia, può essere modulato diversamente in ragione del tempo e della difficoltà di reversibilità del bene verso l’originario assetto.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>5.4.– Proprio l’onerosità delle trasformazioni, assunte nel rispetto del dettato legislativo, è in grado di salvaguardare il patrimonio d’uso civico nel suo complesso, poiché le riduzioni o modificazioni della sua consistenza possono ben essere compensate dall’acquisizione – con identico vincolo – di <strong>altre aree</strong>.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Infatti, la legislazione statale in materia, fin dalla legge n. 1766 del 1927, consente <strong>l’acquisizione di terre a vocazione collettiva</strong>, sulle quali viene a essere automaticamente impresso il <strong>vincolo della tutela paesistico-ambientale</strong>.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Sotto quest’ultimo profilo occorre, poi, considerare che la tutela paesistico-ambientale non è più una disciplina confinata nell’ambito nazionale; ciò soprattutto in considerazione della <strong>Convenzione europea del paesaggio</strong>, adottata a Strasburgo dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 19 luglio 2000 e ratificata con legge del 9 gennaio 2006, n. 14, secondo cui il concetto di tutela collega indissolubilmente la gestione del territorio all’apporto delle popolazioni.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>In questa prospettiva la cura del paesaggio riguarda l’intero territorio, anche quando degradato o apparentemente privo di pregio. Da ciò consegue inevitabilmente il passaggio da una <strong>tutela meramente conservativa</strong> alla necessità di valorizzare gli interessi pubblici e delle collettività locali con interventi articolati, tra i quali, appunto, <strong>l’acquisizione e il recupero delle terre degradate</strong>.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>È stato già affermato che tale fenomeno si inquadra in un «processo evolutivo diretto a riconoscere <strong>una nuova relazione tra la comunità territoriale e l’ambiente che la circonda</strong>, all’interno della quale si è consolidata la consapevolezza del suolo quale risorsa naturale eco-sistemica non rinnovabile, essenziale ai fini dell’equilibrio ambientale, capace di esprimere una funzione sociale e di incorporare una pluralità di interessi e utilità collettive, anche di natura intergenerazionale» (sentenza n. 179 del 2019).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>6.– In definitiva, la norma regionale censurata si pone <strong>in contrasto con il precetto di cui all’art. 9 Cost.</strong> e <strong>invade la competenza legislativa esclusiva dello Stato</strong> nella materia dell’ordinamento civile di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. e ne va, di conseguenza, dichiarata l’illegittimità.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Restano assorbite le ulteriori censure proposte dal giudice rimettente.</em></p>